Alessandro Avataneo
Alessandro Avataneo è un regista italiano, laureato in Relazioni Internazionali con master in Storytelling, Performing Arts e Digital Entertainment. Avataneo ha lavorato in più di 30 paesi tra Europa, Stati Uniti e Giappone, diventando, tra l’altro, consulente dei governi italiano e olandese su progetti di tutela del patrimonio materiale e immateriale. Oggi è coordinatore presso la Scuola Holden e noi lo abbiamo incontrato (a Campus Party Italia) per fargli qualche domanda e farci dare qualche consiglio…
Alessandro Avataneo: l’intervista
Sfatiamo questo mito: le lauree umanistiche sono davvero poco utili? A giudicare dal suo curriculum non si direbbe…
Potrei rispondervi con una battuta, ma è un discorso più ampio che mi interessa molto: la mia generazione, che è quella strana generazione anfibia che ha goduto di un’infanzia completamente analogica e ha vissuto poi la trasformazione digitale nell’adolescenza, è cresciuta con il mito delle lauree scientifiche, “le uniche in grado di garantire un posto di lavoro stabile”. Se dopo il liceo sceglievi lettere o filosofia anziché ingegneria, informatica, economia o giurisprudenza, saresti rimasto a spasso – ci dicevano. L’altra cosa interessante da notare è come il mondo in cui viviamo oggi e gli strumenti che utilizziamo per la maggior parte del tempo (computer, software e social network) siano stati creati da un gruppo relativamente ristretto di persone – tutti maschi, bianchi e californiani – che erano grandi ingegneri, scienziati e tecnici, ma non erano umanisti.
Qual è il risultato? Che gli strumenti che hanno inventato, anziché renderci più liberi e democratizzare l’accesso alla conoscenza, vengono oggi utilizzati come armi di propaganda e rischiano di scassare le democrazie occidentali, creando un divario enorme tra pochi ricchissimi e masse di disperati. E questo a mio avviso avviene per un motivo principale: perché abbiamo rimosso i valori dell’umanesimo dall’equazione della contemporaneità. Io mi sono laureato in relazioni internazionali e parallelamente ho coltivato il mio percorso artistico in una serie di scuole e accademie, a cominciare dalla Scuola Holden – oltre a lavorare sempre, da quanto ho diciott’anni, perché senza esperienza lo studio non vale niente.
Secondo voi uno che ha vissuto e viaggiato in un mondo aperto e libero e ha letto Omero, Dante, Montaigne o Whitman voterebbe Trump? L’essere umano è l’unico animale che può imparare dalle storie. Se smettiamo di leggere e coltivare la nostra umanità, la deriva è dietro l’angolo. Anche perché l’economia può funzionare senza cultura, senza libertà e senza rispetto dei diritti umani. Quindi la fonte di progresso e benessere di una società non risiede solo nel capitalismo, ma anche nell’umanesimo. Allora ci stiamo accorgendo che chi oggi ha una formazione umanistica ha un vantaggio antropologico su tutti i tecnocrati, perché ha conservato la capacità di decifrare il mondo da una prospettiva più ampia, tenendo l’essere umano al centro. E dato che la crisi economica ha livellato tutti verso la precarietà e il mondo evolve sempre più velocemente, non sappiamo nemmeno quali saranno le professioni più richieste tra cinque anni, e quindi il mio consiglio ai giovani è: cercate di capire in fretta chi siete e cosa vi piace, e fatelo, dotandovi degli strumenti per capire il mondo, restare a galla e adattarvi al cambiamento. Nei prossimi anni si capirà, spero, che un umanista è essenziale alla società tanto quando un chirurgo o un ingegnere.
In che modo e quando, se ricorda il momento preciso, ha compreso l’importanza dello storytelling?
Molto presto, anzi vi allego una foto di uno di quei momenti. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia di insegnanti – mia mamma era una maestra e mio papà un professore di lettere e fotografo. Sono cresciuto in una casa piena di libri, musica e immagini. Sul nostro balcone c’era questa poltroncina verde scuro su cui mi sedevo ogni giorno, per ascoltare le fiabe che i miei genitori mi raccontavano, aiutandosi a volte con grandi libri illustrati. Quelle storie mi trasportavano in un altro mondo, un universo di fantasie che mi ipnotizzavano e atterrivano allo stesso tempo. Sono convinto che anche da adulti le storie che ci raccontiamo per intrattenerci, consolarci o ingannarci, influenzino la realtà molto più dei fatti oggettivi – e non sono il solo a pensarlo.
Quali pensa siano i punti di forza del vostro progetto formativo alla Scuola Holden?
Il modo in cui si progetta la didattica alla Holden la rende una scuola unica al mondo, più simile a una officina rinascimentale che a una università contemporanea. Intanto si chiama “Holden” perché negli intenti dei fondatori questa è una scuola che sarebbe piaciuta a Holden Caulfield, il protagonista de Il Giovane Holden (The Catcher in The Rye), un ragazzino molto intelligente ma ribelle e insofferente verso qualsiasi istituzione. Anche io ai miei tempi ero insofferente verso le istituzioni e le regole – a maggior ragione essendo figlio di insegnanti – ma alla Holden ho trovato il mio ambiente ideale. Perché? Perché è l’unica scuola dove sei in competizione solo con te stesso. Non ci sono voti (anzi sono gli studenti a valutare i maestri e il rapporto docente – allievo è quasi uno a uno), non ci sono esami. La didattica è progettata attorno all’allievo come un abito su misura e si rinnova completamente ogni anno – per questo penso che una scuola del genere potesse nascere solo in Italia. Negli anni la scuola si è ramificata in sette college: Scrivere e Cinema, che sono i due pilastri della scuola, e poi dei college più piccoli ma molto competitivi su Serialità e TV, Reporting, Digital (gli esperti di progetti crossmediali), Brand New (gli esperti di corporate storytelling) e Storytelling, la classe internazionale. Formiamo autori, sceneggiatori, registi, giornalisti, autori televisivi, manager culturali ma prima di tutto formiamo umanisti, perché coltiviamo il talento e la voce di ognuno di loro.
Saprebbe spiegarci in due parole perché avete dedicato così tanto spazio allo storytelling in una manifestazione dedicata alla tecnologia e all’innovazione come Campus Party?
Per un motivo molto semplice: perché lo storytelling influenza la realtà molto più dei dati oggettivi. Faccio un esempio: il cambiamento climatico. Non ci sono dubbi che sta avvenendo, e tutta la comunità scientifica conferma le anomalie climatiche di questi ultimi anni. Ma poi arriva uno come Trump, e convince i suoi sostenitori che il cambiamento climatico è una cospirazione di chi è interessato a speculare su fonti energetiche alternative, e così la sua storia, che è pura fantasia, genera come effetto reale che gli Stati Uniti si ritirano dagli accordi di Parigi e il mondo precipita a grandi passi verso l’aridità e la disperazione. Pochi infatti fanno il collegamento tra clima e migrazioni. Ma cosa devono fare i pastori e i contadini africani, se a causa dell’innalzamento delle temperature perdono ogni possibilità di allevare bestiame e sostentarsi nei loro paesi? Ed ecco quindi che il motto “aiutiamoli a casa loro” è puro storytelling, non ha nessun fondamento reale, eppure produce risultati reali. Allora vedete che chi si occupa di tecnologia e innovazione ha una responsabilità grandissima: cioè fermare insieme a noi umanisti questa deriva, per cui personaggi molto discutibili oggi occupano posti di governo sulla base di storie senza nessun fondamento scientifico e che non hanno riscontri nella verità oggettiva dei dati. Eppure sono là, e determinano le sorti del mondo. Penso davvero che l’umanità sia a un bivio decisivo per la sua sopravvivenza, e la capacità di orientare lo storytelling dei prossimi anni sarà l’elemento chiave che determinerà la sopravvivenza delle democrazie oppure una nuova catastrofe politica, sociale e ambientale.
Perché, secondo lei, al giorno d’oggi per i ragazzi è sempre più importante avere nuovi modi di comunicare, anche attraverso la scrittura creativa?
Penso che i ragazzi abbiano sempre avuto un’enorme esigenza di esprimersi e di comunicare. Prima di tutto per amore. Io al liceo passavo le mattinate a scrivere bigliettini alle compagne che mi piacevano. Oggi si comunica con snapchat e whatsapp ma il desiderio è sempre lo stesso: usare la scrittura come mezzo di espressione personale e per avvicinarsi agli altri, condividendo pensieri e emozioni. Il problema è che a fronte di un’esplosione mondiale di produzione di testi e immagini, non corrisponde un innalzamento della qualità. Non è perché dal tuo telefono puoi scattare foto o scrivere un testo che automaticamente sei un bravo fotografo o un bravo scrittore. La cultura visiva e letteraria media resta bassissima, e questo appiattisce la collettività verso omologazione e cattivo gusto. Il 99,9% dei testi pubblicati quotidianamente sui social sono illeggibili, per non parlare degli orribili selfie che infestano quotidianamente le nostre vite, emblema della vanità della nostra epoca. Se quindi aumenta l’offerta dei mezzi di comunicazione, non cambia la sostanza: per scrivere bene servono tanti anni di pratica, così come per fare belle fotografie. E poi c’è un equivoco di fondo, e cioè che al mondo interessino le cose che abbiamo da dire. Questo lo posso risolvere in fretta: vi confermo che a nessuno frega niente di quello che avete da dire. L’unica cosa che fa la differenza è come lo dite. Allora se la smettiamo di contemplare il nostro ombelico e iniziamo a pensare che il tempo di chi ci legge è prezioso, la qualità della nostra comunicazione migliorerà sensibilmente.
Quale consiglio darebbe agli studenti italiani appassionati di storytelling e in cerca di un’occupazione in tempi tanto complessi come quelli odierni?
Direi loro che questi tempi sono molto più semplici di altri tempi relativamente recenti e che bisogna smetterla di lamentarsi o pretendere che le cose cadano dal cielo e incominciare a farsi seriamente il mazzo, andando a cercare le opportunità dall’altra parte del mondo, se necessario, come ha fatto la mia generazione, e la generazione dei nostri bisnonni. Non possiamo pretendere di trovare il lavoro sotto casa come è successo ai nostri padri, perché il mondo è cambiato completamente.
Fidatevi. Ogni giorno quando entro alla Scuola Holden penso a Salinger, che scriveva i primi capitoli del suo libro durante lo sbarco in Normandia, tenendosi i fogli di carta schiacciati sul petto durante i combattimenti, mentre in America Charlie Chaplin gli soffiava la fidanzata – cosa che lui apprese dai giornali. Vado almeno una volta l’anno a camminare su quella spiaggia in Normandia e penso a Salinger, a Fenoglio e a quelli come loro, e penso a quanto siano insignificanti le lamentele e gli sfoghi dei giovani di oggi, rispetto a quei ragazzi che alla stessa età ci liberavano dal nazismo e scrivevano libri come Il Giovane Holden o Una Questione Privata.
Quale sarà secondo lei il futuro dello storytelling in un mondo in cui sta diventando sempre tutto più automatizzato?
Il potere dello storytelling non diminuisce, anzi aumenta con il progredire della tecnologia. L’evoluzione che prevedo è che da una fruizione collettiva dello storytelling, come la dimensione teatrale o cinematografica, si passerà sempre di più a un consumo individuale di storie. Il successo delle serie TV, dei videogame e della realtà virtuale indicano questa direzione. La mia preoccupazione quindi è che le storie, anziché tenerci insieme come specie, ci portino a estraniarci sempre di più da un mondo che non riusciamo a comprendere e in cui non riusciamo a esprimere noi stessi, e da cui di conseguenza preferiamo evadere, per immergerci in universi alternativi in cui essere più felici e vivere avventure a non finire. L’impatto psicologico dei social network è devastante, perché sono una forma di storytelling autobiografico basato sulla vanità personale e sulla necessità di apparire più felici di quel che si è, per suscitare l’invidia della propria cerchia e avere l’illusione di un pubblico che ci approva mediante l’adulazione digitale del “like”.
Quando supereremo questa fase di ebbrezza collettiva e si arriverà finalmente a una gestione sana dei propri avatar digitali, sono sicuro che le persone torneranno a leggere meno post e più libri di carta, che alla fine restano la forma più antica e sana di piacere che la solitudine ci può concedere.
Che progetti ha per il futuro?
Moltissimi, come sempre. Film, libri, progetti culturali. Essere un creativo in Italia in questa epoca è come fare il giardiniere nel deserto. Bisogna seminare senza sosta ovunque possibile, cercando una fonte di acqua pura che possa far germogliare i progetti. Accade raramente, e i risultati non ripagano quasi mai gli sforzi. Ma proprio per questo i creativi italiani devono resistere e contribuire al rinnovamento di una società ormai divisa e regredita all’analfabetismo funzionale. È necessario riaffermare l’importanza degli studi umanistici e la centralità dell’arte nella vita di tutti, specialmente di noi italiani, considerato il patrimonio immenso che abbiamo.