Aristotele: De Anima - Studentville

Aristotele: De Anima

Riassunto dell'opera "De Anima" di Aristotele.

Se di Platone ci sono pervenuti pressochè tutti gli scritti, ciò non vale per Aristotele, di cui possediamo solamente quegli scritti la cui destinazione era il pubblico interno alla sua scuola. Si tratta di scritti stringati e concisi, probabilmente di appunti che Aristotele sviluppava poi a lezione; più difficile, invece, che si tratti di appunti presi dai suoi studenti durante le lezioni da lui tenute. Lo scritto “Sull’anima” (“De anima” in latino, “Peri yuchV” in greco) rientra fra queste opere a noi giunte: esso si articola in tre libri, dei quali il primo pone l’ attenzione su quali siano i problemi da risolvere nell’indagine sull’anima. Il primo problema in cui ci si imbatte ò la definizione dell’anima: che cos’ò? Aristotele, per poter rispondere adeguatamente a tale domanda, ritiene indispensabile effettuare una ricognizione preliminare su quanto han detto sull’argomento i suoi predecessori e sottoporre le loro tesi ad analisi critica (incontriamo un procedimento simile anche nella “Metafisica”). Nel secondo libro, dopo aver ripercorso le definizioni precedenti e i loro difetti, lo Stagirita arriva a formulare la propria definizione di “anima” e a tratteggiarne le funzioni: proprio alle funzioni dell’anima sono dedicati il libro secondo (in particolare alla percezione sensibile) e il libro terzo (con particolare attenzione all’attività  intellettiva dell’anima). Nel primo capitolo del primo libro, Aristotele afferma che quella che si accinge ad intraprendere ò una istoria, ossia un’ “indagine” diretta sull’anima (yuch): si tratta – egli prosegue – di una forma di sapere che rientra fra quelle più importanti; infatti, riteniamo comunemente che le forme di sapere più importanti siano quelle che si distinguono o perchè hanno maggior rigore o perchè si occupano degli oggetti migliori e più stupefacenti. Su cosa sia il “sapere rigoroso”, Aristotele si era già  soffermato negli “Analitici secondi”, in cui era giunto alla conclusione che un sapere può dirsi rigoroso se dimostrabile con catene di ragionamenti (ossia con sillogismi): ora, nello studio dell’anima, ò evidente che non può esserci quel rigore che troviamo nello studio della geometria o della matematica. Tuttavia, pur mancando il rigore, lo studio dell’anima ò nobilitato dal fatto che l’oggetto di tale indagine ò costituito da una delle cose più stupefacenti che ci siano: l’anima. Questo ò particolarmente rilevante perchè nelle prime pagine della “Metafisica” Aristotele indicava nella meraviglia (to qaumazein) il motore della ricerca, giacchè si desidera conoscere una cosa perchè essa desta in noi stupore (i corpi celesti o l’incommensurabilità  della diagonale del quadrato): una volta scoperta la causa di queste cose che producono in noi meraviglia, non ci si stupisce più. Questo discorso, naturalmente, vale anche per l’anima: perchè ci sono entità  animate e altre non animate? Perchè non esiste solo l’inanimato o solo l’animato, ma ò come se convivessero due mondi antitetici? Secondo Aristotele, capire l’anima aiuta anche a capire gli animali (per i quali lo Stagirita ò particolarmente interessato, come dimostrano i numerosi suoi scritti in materia): in senso lato, dunque, l’indagine sull’anima rientra nell’indagine sulla natura. ” Ci prefiggiamo di considerare e conoscere la sua [dell’anima] natura ( fusiV ) e essenza (ousia ) e, poi, tutte le caratteristiche che le competono “: tali caratteristiche sono, in particolare, le affezioni e le proprietà  in virtù delle quali l’anima ò quella che ò. Prima di chiedersi quale sia il suo compito, ò bene domandarsi che cosa sia l’anima e scoprirlo ò una delle cose più difficili: bisogna anche chiarire quale procedura si debba impiegare nell’ investigazione, chiarendo, soprattutto, se si tratti di un metodo comune ad altre indagini o specifico dell’anima. Ammettiamo che sia un metodo comune, dimostrativo, che inferisce conclusioni a partire da premesse, o, magari, che proceda per divisione, come immaginava Platone nel “Sofista”, quando si domandava che cosa fosse la pesca con la lenza: si tratta di inserire la pesca con la lenza in un genere più ampio, l’ “arte” (tecnh); ma l’arte si suddivide in “arte di acquisizione” e “arte di produzione” e, ovviamente, la pesca si colloca nell’ambito dell’arte di acquisizione. Operando successive divisioni si giungerà  alla definizione di pesca con la lenza: ma come si può applicare questo metodo (o anche quello dimostrativo) all’anima? E’ assolutamente impossibile, poichè tutti e due i metodi partono da princìpi che non sono gli stessi per tutte le discipline (diversi, infatti, sono i princìpi da cui partire per studiare l’anima, la fisica e la matematica). Aristotele nota, piuttosto acutamente, come di fronte al problema dell’anima si apra un ventaglio di soluzioni tutte accettabili: ci troviamo dunque di fronte a delle aporiai, ossia a dei vicoli ciechi senza possibilità  di uscita. La prima “aporia” in cui ci si imbatte riguarda la stessa definizione dell’anima: in quale genere si trovi e che cosa sia, se sia sostanza o qualità  o quantità  o altra categoria (secondo quanto Aristotele aveva insegnato nelle “Categorie”). L’anima potrebbe essere una “sostanza prima”, ossia un tode ti, un “questa cosa qui” in carne e ossa; ma potrebbe anche essere una “sostanza seconda” (ossia una specie), del tipo “uomo” o “cavallo”; ma, infine, nulla vieta di pensare che essa sia solo un predicato, come ad esempio lo ò il colore “rosso”, che esiste nella misura in cui esiste una sostanza prima (non ci sarebbe infatti il rosso se non ci fossero cose rosse). Ma c’ò anche un’altra aporia: ammesso che l’anima sia un ente, occorre chiedersi che tipo di ente sia e per rispondere Aristotele si avvale di una distinzione da lui operata in altri scritti: quella tra potenza (dunamiV) e atto (enteleceia), secondo la quale il marmo ò una statua in potenza (nel senso che può diventare statua) e la statua ò atto, cioò realizzazione compiuta del marmo. Ora, l’anima, intesa come ente, ò potenza o atto? Ci si imbatte però in una nuova aporia: ammettendo che l’anima sia un’entità , essa ò fatta di parti o priva di parti? E, nel caso in cui sia costituita da parti, che rapporto sussiste tra il tutto e le singole parti? Sarà  un rapporto come quello tra le parti della pietra (per cui se spacco la pietra in parti ho altre pietre) o sarà  invece un rapporto come quello tra l’uomo e le sue parti (per cui se tolgo all’uomo una parte del suo corpo non ho un altro uomo)? Secondo Platone (stando a ciò che egli asseriva nel “Fedro” e nella “Repubblica”), l’anima ò tripartita (parte razionale, parte impetuosa e parte desiderativa); secondo gli Stoici, essa sarà  assolutamente unitaria. Ma c’ò anche un’altra aporia non da poco: esiste un solo tipo di anima o ne esistono più d’uno? Aristotele si pone questo interrogativo perchè ha di fronte a sè una sfilza di indagini sull’anima (condotte dai suoi predecessori) che mettevano l’accento su come solo l’uomo, propriamente, fosse dotato di anima. Lo Stagirita, sotto questo profilo, capovolge quest’idea comune e sostiene che anche gli animali e le piante hanno l’anima: bisogna tuttavia chiedersi di che tipo di anima si tratti. Posto che vi siano molte specie di anima, ò possibile dare un’unica definizione che valga per tutte o bisognerà  dare una definizione diversa per ogni singolo tipo di anima, così come per ogni tipo di essere (uomo, cavallo, casa, ecc)? Aristotele cercherà , in qualche modo e non senza difficoltà , di formulare una definizione universalmente valida. Ammesso invece che l’anima sia una sola ma costituita da più parti (come credeva Platone), dobbiamo prima esaminare le parti o l’anima nel suo insieme? E prima le parti o le funzioni di esse? Vale a dire: bisogna prima proiettare l’indagine sull’intelletto o sull’intellezione? Prima i colori o prima la percezione dei colori? E’ come se vi fosse un rapporto ermeneutico fra il tutto e le parti: da un lato, infatti, se ho colto l’oggetto su cui sto investigando (ossia l’anima), sarà  più facile cogliere le cause delle cose che le accadono (le passioni, ecc); ma, dall’altro, se colgo la causa delle cose che le succedono, sarà  allora possibile risalire alla comprensione dell’anima. E le cose che accadono nell’anima sono proprie solo di essa o anche di quella particolare cosa che possiede l’ anima, ossia il corpo? Anima e corpo sono separati e indipendenti (come credevano Platone e i Pitagorici) o sono strettamente connessi per cui se cessa di esistere uno, cessa di esistere anche l’altro? In che senso il corpo possiede l’anima? Aristotele nota, a tal proposito, come la maggior parte delle affezioni dell’anima non potrebbero avvenire senza il corpo: ad esempio, secondo gli insegnamenti della medicina dell’epoca, la collera altro non ò se non l’ebollizione del sangue, il che non potrebbe accadere se non avessimo il corpo. Aristotele pare più perplesso per quel che riguarda il pensiero, che assomiglia molto ad un’affezione dell’anima: in prima analisi, si potrebbe essere portati a dire che il pensiero ò indipendente dal corpo; eppure anche il pensiero, in qualche modo, deve per forza passare dal corpo e, per spiegare ciò, Aristotele ricorre alla nozione di “immaginazione” (fantasia), intesa come l’accogliere ciò che appare ai sensi. Che il pensiero passi dal corpo appare evidente se pensiamo a quando, dopo aver visto un oggetto sensibile (una casa, un cavallo, ecc), lo ripensiamo senza averlo davanti. Ci sono, dunque, passioni (paqh) che riguardano l’anima e non il corpo? E su cosa si esercita l’attività  del pensiero? Gli oggetti del pensiero vengono da Aristotele definiti “intelligibili” e altro non sono se non le nozioni universali (uomo, bello, giusto, ecc): ma il punto di partenza per ogni conoscenza ò la sfera sensibile, che ci mette in contatto con entità  sensibili individuali collocate nel tempo e nello spazio; infatti, non posso mai vedere l’uomo, ma sempre e solo singoli uomini (Gorgia, Platone, Socrate, ecc) e arrivo alla nozione universale di uomo operando un’astrazione. Tra pensiero e percezione, tuttavia, – nota Aristotele – esiste una zona di mezzo, che sta a metà  strada fra le due: si tratta della fantasia (“immaginazione”), strettamente connessa con la memoria: vedo Socrate in carne ed ossa, poi se se ne va, ma, ciononostante, io conservo la sua immagine nella mia mente grazie alla memoria. E quindi il pensiero rivolge la sua attenzione a queste immagini sedimentate nella memoria: ma se esso, per agire, non può non operare sulle immagini presenti nella memoria, ciò significa che il pensiero non può essere esercitato a prescindere dal corpo. Aristotele, in tale prospettiva, sembra escludere la possibilità  che l’anima possa sopravvivere dopo la morte del corpo (staccandosi in tal modo dalla tradizione platonica), poichè le due entità  sono talmente dipendenti l’una dall’altra che, morta una, non può che morire anche l’altra. Infatti, se tutte le affezioni dell’ anima sono in qualche modo connesse al corpo, allora l’anima non ò distinta dal corpo: e, come dirà  Aristotele più avanti, l’ anima sarà  un’ attualizzazione (enteleceia) di certe funzioni, cosicchò la posizione aristotelica potrà  essere etichettata come “funzionalismo” (giacchò concepisce l’anima come una serie di funzioni connesse al corpo). E’ curioso notare come lo Stagirita ritenga che il cervello non sia il punto centrale della nostra riflessione, ma, in fin dei conti, un semplice organo di raffreddamento, meno importante rispetto al cuore (sede dei sentimenti). ” Se allora tra le attività  o affezioni dell’anima ce n’ò qualcuna che le sia propria, l’anima potrebbe avere esistenza autonoma; ma se non ce n’ò nessuna che le sia propria, non sarà  separabile “: se si trovasse una qualche attività  dell’anima assolutamente indipendente dal corpo, allora sarebbe possibile ammettere la separabilità  dell’anima dal corpo, ma, poichè Aristotele non ne rinviene alcuna ( “sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano tutte un legame con il corpo “), allora ò costretto a riconoscere l’inseparabilità  dei due. E, di conseguenza, con il perire del corpo cessa di esistere anche l’anima. Che tra anima e corpo intercorra un rapporto strettissimo appare anche evidente dal fatto che non appena si verificano affezioni dell’anima il corpo subisce modifiche: a seconda che io provi gioia o dolore, infatti, il corpo si modifica in un modo o in un altro. Questa considerazione implica una conseguenza di notevole importanza: in quanto connesse al corpo, le affezioni dell’anima possono essere indagate dallo studioso della natura (o fusikoV), il quale si occuperà , in particolare, materialmente delle produzioni corporee delle affezioni ( l’amore, la paura, ecc); tuttavia, non basta conoscere la produzione, bensì bisogna comprendere le cause, ossia occorre anche sapere che cosa siano l’amore o la paura, e ciò compete, propriamente, al filosofo. E anche per capire che cosa sia una determinata cosa (supponiamo una casa), possiamo condurre o un’indagine fisica (incentrata sulla causa materiale: la casa ò un insieme di certi materiali) o un’indagine dialettica (incentrata sulla causa finale: la casa ò fatta per ripararsi dalle intemperie). Aristotele chiama la procedura che intende seguire diaporeisqai (il porre problemi) e, in primo luogo, compie un’esplorazione delle posizioni assunte in materia di anima dai suoi predecessori, per vedere se essi sono stati in grado di risolvere qualche problema: dopo aver introdotto l’argomento di cui si occuperà  nello scritto, il resto del libro I ò dedicato alla discussione di queste posizioni; in particolare, Aristotele si propone di prendere in considerazione le doxai, le “opinioni”. E nello scritto “Topici” aveva sostenuto che le discussioni filosofiche devo partire sì da opinioni, ma non da opinioni qualunque: bensì da quelle su cui tutti gli uomini o la maggior parte di essi si trovano d’accordo oppure da quelle espresse dalle persone più competenti in quell’ambito (tali opinioni sono dette endoxai, ossia “illustri”). Pertanto, parlando dell’anima, non essendoci alcun punto su cui concordano tutti gli uomini, Aristotele fa riferimento alle “illustri” opinioni sostenute dai filosofi della natura a lui precedenti (poichè, come abbiamo detto, l’anima ò in qualche modo connessa alla natura): e tali opinioni possono essere suddivise in due gruppi. Infatti, al di là  delle specificità  delle argomentazioni dei singoli pensatori, tutti, bene o male, hanno finito per intendere l’anima come causa del movimento oppure come causa della percezione (oppure, più raramente, come causa di entrambe le attività ). Nel II libro del “De anima”, Aristotele afferma in merito: ” pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato soprattutto per due proprietà : movimento e percezione “. Partendo dall’analisi del primo gruppo, ò facile capire il percorso attraverso il quale si ò arrivati a tale posizione: infatti, la prima grande differenza che distingue gli esseri animati da quelli inanimati ò che solo i primi si muovono da sè, con l’inevitabile conseguenza che l’anima dev’essere quel qualcosa che conferisce il movimento. La strada percorsa dai pensatori del secondo gruppo ò diversa: a loro avviso, la grande differenza tra esseri animati ed esseri inanimati risiede nel fatto che solo i primi sono dotati di percezioni. Aristotele non si trova d’accordo con l’inferenza tratta da chi sostiene che il movimento sia ciò che distingue l’animato dall’inanimato: ad avviso di costoro, infatti, dalla constatazione che ciò che si muove da sè ò dotato di anima, deriva necessariamente che l’anima stessa sia in movimento incessante, partendo dalla premessa che una cosa può muoverne un’altra solamente se essa stessa ò già  in movimento. Ma Aristotele smaschera queste posizioni servendosi della causa finale e mettendo in luce come vi siano casi in cui ciò che muove non ò mosso: in particolare, nel XII libro della “Metafisica”, per spiegare l’immobilità  del “motore immobile”, ricorreva ad un esempio particolarmente soddisfacente: un oggetto che amiamo ci fa muovere verso di lui senza che esso debba per forza muoversi. Il primo dei predecessori su cui Aristotele si sofferma ò Democrito, ad avviso del quale ” l’anima ò una specie di fuoco e di calore “: il pensatore di Abdera era probabilmente giunto a questa conclusione partendo dalla constatazione che un corpo morto (e quindi privo di anima) ò inevitabilmente freddo. Al contrario, un’entità  viva ò calda, sicchè dev’essere l’anima a fornire tale calore. Secondo Democrito l’anima, come ogni altra cosa, ò costituita da atomi; gli atomi di cui essa ò composta, però, sono sferici e quindi più mobili e veloci; e, potendosi muovere rapidamente, producono calore: ecco perchè l’anima ò calore e gli atomi che la compongono assomigliano, in qualche misura, al pulviscolo sospeso in aria che noi scorgiamo quando penetrano dalle finestre i raggi del sole. In tale prospettiva, ad avviso di Democrito, la respirazione ò ciò che contraddistingue gli esseri animati da quelli inanimati: espirare significa buttar fuori atomi di anima, e se non ci fosse l’inspirazione, attraverso la quale vengono introdotti atomi di anima, il nostro corpo si disgregherebbe in brevissimo tempo (perchè verrebbero espulsi tutti gli atomi dell’anima). Secondo Aristotele, anche l’interpretazione dell’anima data dai Pitagorici ò, grosso modo, su questa linea. Anassagora, invece, ha identificato l’anima con l’Intelletto cosmico, che mette in movimento ogni cosa. Dal canto suo, Platone rientra nel novero di quei pensatori che hanno inteso l’anima come un’entità  che si muove da sè: soprattutto nel “Fedro”, egli dimostrava l’immortalità  dell’anima a partire dal suo movimento, mettendo in evidenza come un qualcosa che per sua natura partecipa del movimento non può in alcun modo partecipare della morte (intesa come negazione del movimento stesso). Senocrate, discepolo di Platone, aveva invece enigmaticamente asserito che l’anima fosse un numero che muove se stesso. Dopo essersi soffermato sull’attribuzione, effettuata dai pensatori a lui precedenti, del movimento all’anima, Aristotele si sofferma dunque sull’anima intesa come capacità  di percepire. In questo secondo gruppo di posizioni rientrano tutti coloro che hanno letto nella percezione la caratteristica peculiare dell’anima e tra questi pensatori spicca la figura di Empedocle da Agrigento, il quale (anche se nei suoi frammenti che possediamo non compare mai la parola yuch) individua un parallelismo tra macrocosmo e microcosmo in virtù del quale l’anima umana ò costituita da quattro elementi (“radici”) e percepisce la realtà  esterna perchè anche quest’ultima ò composta dai medesimi quattro princìpi. Nella sua trattazione, Aristotele riporta integralmente un passo dal poema di Empedocle: ” con la terra conosciamo la terra, con l’acqua l’acqua, col fuoco il fuoco distruttore, con l’etere l’etere divino, con l’amore l’amore divino, con la discordia la malvagia discordia “; ò il simile che conosce il simile. Accanto ad Empedocle, Aristotele pone Platone e le sue teorie presenti nel “Timeo”, in cui l’anima ò concepita come un insieme costituito da elementi che (e qui sta la differenza precipua rispetto ad Empedocle), a loro volta, sono costituiti da poliedri. E’ interessante il fatto che lo Stagirita, all’improvviso, citi il suo proprio scritto Peri filosofiaV (“Sulla filosofia”) – andato perduto – in cui troviamo una bislacca commistione di teorie geometriche ed aritmetiche impiegate per spiegare l’anima e il mondo. Ma, accanto a questi due gruppi di pensatori, ve n’ò un terzo, composto da tutti coloro che hanno riconosciuto come caratteristiche fondamentali dell’anima sia il movimento sia la percezione: il principale esponente di questa compagine ò Senocrate, che successe a Speusippo nella direzione dell’Accademia e che definì l’anima come ” numero che muove se stesso “; da un lato, l’anima ò, ai suoi occhi, in movimento, ma, dall’altro, ò numero. Ma tra i pensatori antichi – nota Aristotele – alcuni hanno inteso l’anima come corporea (Democrito), altri invece come incorporea (Platone, Senocrate), altri hanno mescolato le due componenti; alcuni, poi, l’hanno concepita come unica, altri invece come composta da molte parti. Ora Aristotele, dopo aver fatto questa carrellata di opinioni illustri, può, al principio del II libro, esporre la propria tesi: in particolare, egli attua la tecnica della confutazione per dimostrare l’inconsistenza delle posizioni di coloro che hanno sostenuto che l’ anima ò in movimento. Forse – egli nota – non solo ò falso che l’anima sia in movimento, ma addirittura impossibile; ragionando per assurdo, ammettiamo che l’anima si muova: ne consegue quanto segue. In primo luogo, due sono i possibili modi in cui essa può muoversi: o per virtù propria o perchè mossa da un’altra cosa. Per comprendere meglio questo punto, pensiamo ad una nave: essa si muove da sè; ma il passeggero che sta seduto su di essa si muove perchè ò la nave che si muove. L’anima, dal canto suo, muove e si muove: ma in che senso? Nel senso della nave o del passeggero su di essa? Ammettiamo che si muova da sè, come la nave: ma allora dobbiamo fare un’altra distinzione, poichè la kinhsiV (“movimento”) avviene in quattro modi diversi. Infatti, ò spostamento da un luogo ad un altro, ma non solo; ò anche qualunque forma di mutamento: ad esempio, l’ingrassare o il dimagrire implicano uno spostamento di materia. E ciò vale anche per qualsiasi assunzione o perdita di qualità ; infine, il quarto ed ultimo (nonchè il più radicale) modo in cui avviene la kinhsiV consiste nel nascere e nel morire (movimento sostanziale). Ma allora l’anima di quale di questi quattro tipi di kinhsiV si muove? Ed ò tutta l’anima a muoversi di tutti questi movimenti o solamente di uno o di alcuni? Ammettiamo che, oltre a muoversi da sè, essa si muova di tutti e quattro questi movimenti: occorre ammettere che il movimento implica uno spazio, poichè senza di esso il movimento non può avvenire (gli atomisti ammettevano il vuoto ma Aristotele lo rifiuta). L’anima, pertanto, dovrà  avere uno spazio in cui muoversi: chi sostiene l’ immaterialità  dell’anima si trova a questo punto in serie difficoltà , perchè ò assurdo dover ammettere che un qualcosa di immateriale si muova nello spazio. Inoltre, le potrà  accadere ciò che accade a qualunque cosa in movimento: i moti violenti (o costrittivi). Esempio di moto violento ò quello della pietra scagliata verso l’alto: essa, dopo essere salita per un tratto in virtù dell’impeto impressole, cade a terra, verso il suo luogo naturale; anche l’anima, quindi, ò soggetta a moti violenti? E se sì, di che genere di moto violento? Attribuendo all’anima il movimento autonomo e, con esso, i movimenti violenti, ci si trova sotto scacco: il movimento secondo natura dell’anima tende verso l’alto (come quello del fuoco) o verso il basso (come quello della terra)? Ammettiamo, poi, che essa muova il corpo e che questo si muova per traslazione (spostamento da un luogo all’altro): ne consegue che anche l’anima cambia luogo, ma ciò contraddice coloro che propugnano l’immortalità  dell’anima. E se essa muta luogo, lo muta nella sua totalità  o solo in parte? Se si riconosce che l’anima ò in grado di spostarsi, bisogna per forza riconoscere anche che essa possa uscire dal corpo: quindi, dopo la morte, l’anima può uscire dal nostro corpo e infilarsi in un altro. Se l’anima muove se stessa, anch’essa si muoverà  e quindi dovrà  necessariamente sdoppiarsi (compie e subisce il movimento) e in tal modo essa uscirebbe da sè, sarebbe una ekstasiV (“venir fuori di sò”). Lo stesso modo in cui si muovono gli animali genera parecchie difficoltà , nota Aristotele; come causa motrice, l’anima ha la proairesiV, la “scelta libera” e, in tale prospettiva, il meccanicismo democriteo, che non lascia spazio alla libertà , va respinto. Anche il “Timeo” platonico ò, sotto questo profilo, problematico: in quest’opera, Platone ammette che il cosmo stesso sia dotato di un’anima che, muovendosi circolarmente, metta in moto anche l’universo corporeo; l’anima sarebbe composta di elementi in rapporti armonici, per cui ai rapporti del cielo corrisponderebbe il movimento dell’anima. Ma ciò ò riduttivo, in quanto induce a identificare l’anima con l’intelletto: secondo tale definizioni, gli animali e le piante sarebbero inanimati, alla stregua delle pietre. Platone, in realtà , sosteneva l’esistenza di altre anime (sensitive) che non si muovevano circolarmente: contro questa posizione, Aristotele muove una sfilza di obbiezioni che invocano la divisibilità  all’infinito delle grandezze; gli stessi rapporti armonici su cui Platone costruisce il suo ragionamento restano poco chiari e alquanto problematici. Ma si deve paragonare il pensiero ad un movimento o ad uno stato di quiete? Platone connette il movimento dell’anima a quello rotativo del cielo ma non spiega nè la causa finale nè quella efficiente di tale moto rotatorio. Tuttavia, si può anche ammettere che l’anima si muova non già  per virtù sua, bensì perchè mossa da altro: ciò sembra possibile soprattutto in riferimento alla percezione, in quanto percepiamo un oggetto nella misura in cui esso agisce su di noi. E poi c’ò un’altra grave lacuna: tutti i pensatori anteriori rispetto ad Aristotele, hanno connesso l’anima al corpo, senza però spiegare con chiarezza la causa di tale collegamento; perchè, dunque, l’anima ò collegata al corpo? Quale ò la condizione del corpo alla quale l’anima ò legata? Aristotele dice che ” sembra ” (dokei) che ciascun corpo abbia una forma propria e ciò implica che non ò detto che ogni corpo abbia un’anima. I pensatori del passato, nota con sdegno Aristotele, dovevano allora spiegare quali corpi potessero avere l’anima e quali no, sennò si potrebbe essere indotti a ritenere che anche una pietra possa esserne dotata. Quale dovrà  essere, quindi, la struttura del corpo suscettibile di possedere un’anima? Nel capitolo 4 del libro I, Aristotele prosegue con le obbiezioni, scagliandosi soprattutto contro la concezione secondo la quale l’anima altro non ò se non un’armonia che tiene uniti gli elementi che costituiscono il corpo; si tratta di una tesi platonica, esposta nel “Fedone”, ma criticata da Platone stesso, poichè, come conseguenza, porta alla negazione dell’immortalità  dell’anima (venuto meno il corpo, infatti, cessa di esistere anche l’armonia tra i suoi elementi). Se invece intendiamo l’anima come una sostanza che viene ad aggiungersi al corpo, alla pari di un vestito, non si deve ammettere – notava Platone – che essa, col trascorrere del tempo, si logori fino a dissolversi? Aristotele, memore di queste riflessioni del suo maestro, dice: ” sembra poi che l’intelletto sopraggiunga come una sostanza e che non si corrompa. In effetti, potrebbe corrompersi specialmente per l’indebolimento che consegue alla vecchiaia ” (A 4, 409). Secondo quanto afferma qui Aristotele, l’intelletto, una volta che sia venuto meno il corpo, non potrà  più svolgere la propria attività ; certo, l’intelletto come sostanza non si corrompe, ma, ciononostante, l’attività  di pensiero che egli svolge ò possibile solo in relazione al corpo dotato dell’intelletto; sicchè, quando viene a mancare il corpo, l’intelletto permane ma non pensa più: esso ò una sostanza che non si logora, poichè – come dice Aristotele – ò ” sopraggiunto ” (ò però difficile capire da dove sia giunto). Le funzioni che esso svolgeva, infatti, non erano solo sue, bensì condivise con il corpo: e se ammettiamo l’incorruttibilità  dell’intelletto, allora possiamo dire che esso ò ” forse qualcosa di più divino e di impassibile “. Il corpo muore, l’intelletto no: ma Aristotele non sta parlando dei singoli intelletti (il mio, il tuo, quello di Socrate, ecc), ma di qualcosa di più profondo (nella comprensione del quale la critica si ò sbizzarrita, soprattutto quella araba). Nel libro II, dicevamo, Aristotele propone la sua concezione dell’anima e la correda di potenti argomentazioni. Proprio nelle prime righe, egli asserisce: “riprendiamo ora la strada come dall’inizio “, nel tentativo di determinare che cosa sia l’anima e quale sia il suo concetto ” più generale “, più comune, ossia quello che può abbracciare sotto di sè tutti i tipi di anima. Lo Stagirita afferma che, fra i tanti significati del verbo “ò” ve n’ò uno primario, da cui tutti gli altri derivano, un “significato focale”, come ha detto uno studioso di Aristotele: tale significato profondo sta nella sostanza (ousia); una cosa ò se ò una sostanza. Per capire meglio ciò, esaminiamo una sostanza qualunque, ad esempio una sfera di bronzo: che cosa ò? Posso rispondere in svariati modi: in primo luogo, posso dire “ò bronzo”, indicando il materiale di cui ò costituito l’oggetto (colgo cioò l’oggetto sotto l’aspetto della materia, ulh); ma limitarsi a rispondere dicendo “ò bronzo” ò evidentemente sbagliato, poichè esistono altre cose di bronzo che non sono quella sostanza. Oltre alla materia, dunque, si deve anche indicare la forma (morfh): nel caso della sfera di bronzo, l’essere sferico. La sostanza, secondo Aristotele, ò sempre un tode ti, un “questa cosa qui”, ossia la cosa materialmente presente sotto i miei occhi. Nel II libro, dunque, Aristotele prova a dare una definizione generale di anima e ad analizzarla criticamente: anima sarà , a suo avviso, l’avere la funzione del riprodursi e la possibilità  di avere percezioni sensibili. Si tratta, però, di definire in concreto cosa sia l’anima e, per farlo, lo Stagirita introduce la nozione di ousia (“sostanza”), ossia quel qualcosa che fa sì che un ente sia ciò che ò propriamente. Tale concetto può essere, tuttavia, inteso secondo svariate modalità : ad esempio, posso dire che “sostanza” del tavolo ò essere materia (legno), oppure essere forma rettangolare, o, ancora, essere una materia connessa ad una forma, ossia un insieme (sunolon) delle due cose. Da questa concezione emerge un universo popolato da un enorme numero di sostanze individuali. Ora, Aristotele traccia un’identità  tra la materia e la potenza (dunamiV), poichè nota come dalla materia (ad esempio, un pezzo di marmo) possa (dunatai) derivare una molteplicità  di cose (il tavolo, la statua, il tempio, ecc); e a far sì che il pezzo di marmo diventi un preciso oggetto (ad esempio, una statua) ò la forma, la quale corrisponde quindi all’atto, ossia alla realizzazione. E con quest’attrezzatura concettuale Aristotele può dare una spiegazione (e di fatto lo fa) dell’ intera realtà : egli paragona il rapporto tra potenza e atto al rapporto tra il possedere una scienza e farne effettivamente uso. Se, ad esempio, ho appreso la grammatica, posso dire di possederla allo stato potenziale: solo quando la applico concretamente essa viene messa in atto operativamente. Ora, per tratteggiare una definizione dell’anima, riprende questi precetti e, in particolare, quello di sostanza: comunemente si intendono come sostanze i corpi, cioò quelle realtà  che sussistono effettivamente; tra essi, poi, constatiamo che alcuni hanno la vita, altri no. E, nota Aristotele, in prima analisi ciò che ci induce a dire che alcuni corpi sono animati e altri no ò il fatto che solo quelli animati crescono, si nutrono, deperiscono, si riproducono, ecc. Ed ò a questo punto che diventa lecito chiedersi che cosa sia a conferire a tali corpi la vita: saranno vivi perchè possiedono la materia? O perchè hanno la forma? Aristotele risponde che essi sono vivi perchè dotati di entrambe le cose, sia della forma, sia della materia, dove la materia ò costituita dal corpo, la forma dall’anima. Quest’ ultima, infatti, ò quel qualcosa che fa sì che la materia si animi, abbia vita e sia un corpo vivente: ” di conseguenza ogni corpo naturalmente dotato di vita sarà  sostanza e lo sarà  precisamente nel senso di sostanza composta [di materia e forma] “. Ma, poichè si tratta di un corpo di una determinata specie, e precisamente di un corpo che ha la vita, allora ne conseguirà  che l’anima non ò il corpo, giacchò altrimenti anche le pietre – dotate di corpo – dovrebbero avere un’anima. Allora il corpo ò un sostrato (upokeimenon, “che giace sotto”), un soggetto (dal latino “sub-iactum”), ossia ò la materia che “sta sotto”, che soggiace alla forma e, in quanto tale, ò indeterminata. Il corpo, quindi, accoglie l’anima, cioò la forma: ” necessariamente dunque l’anima ò sostanza, nel senso che ò forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora, tale sostanza ò atto, e pertanto l’anima ò atto del corpo che s’ò detto “. L’anima, pertanto, ò sostanza nel senso di “forma” di un corpo dotato potenzialmente (e non attualmente) della vita: ma di poter accogliere la forma “anima” non sono in grado tutti i corpi (ad esempio, non lo ò una pietra), ma solo i corpi di un certo tipo, quelli cioò che hanno la potenzialità  di ricevere la forma “anima” che porta all’attualizzazione della vita. In particolare, deve essere un corpo tale da possedere organi: ed ò grazie all’anima che la vita, da in potenza, passa in atto, anche se questa distinzione potenza/atto ò semplicemente concettuale, non cronologica. Ma in che senso l’anima ò atto? Nello stesso senso in cui noi facciamo grammatica in atto? Aristotele si rende conto che ciò non ò possibile e che ò assolutamente assurdo dire che, durante il sonno, l’uomo non ha l’anima, assurdo come dire che quando non si pratica la geometria non la si possiede. Al contrario, noi abbiamo l’anima sempre, anche se quando dormiamo essa non ò attiva nelle sue funzioni, c’ò ma non ò in atto: ” atto poi si dice in due sensi: o come la conoscenza [= possesso della conoscenza] o anche come esercizio di essa; ed ò chiaro che l’anima ò atto nel senso in cui lo ò la conoscenza […]. Perciò l’anima ò l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma tale corpo ò quello che ò dotato di organi “. E la parola organon presente nel testo (che ò poi la stessa con la quale verranno denominati gli scritti aristotelici di logica) significa, letteralmente, “strumento”, sicchò un corpo ò dotato di parti, ciascuna delle quali ò “strumento” dotato di una sua funzione, una sua operazione psichica, cioò propria dell’anima. Ecco che comincia a farsi più chiara la connessione tra anima e corpo: e, in quest’ottica, Aristotele trae una prima importante conseguenza, enunciando che, in quanto dotate di vita, anche le piante hanno un’anima e ciò ò provato dal fatto che esse abbiano organi (le radici, ad esempio), ossia “parti” che consentono loro di crescere, di assumere nutrimento e di riprodursi: ” organi sono anche le parti delle piante, ma incredibilmente semplici ” (412 b). Il nutrirsi, il crescere e il riprodursi sono funzioni semplicissime, che vengono svolte – seppur in modi diversi – anche da altri esseri animati, quali gli animali e l’uomo: oltre alle piante, infatti, anche agli uomini e agli animali compete, evidentemente, la funzione nutritiva dell’anima; solo che non ò l’unica presente in essi – e qui sta la differenza rispetto alle piante. Infatti, nell’animale troviamo anche la funzione sensitiva, e nell’uomo – oltre a quella nutritiva e a quella sensitiva – quella razionale. In tale prospettiva, quindi, il problema dell’unità  anima-corpo non si pone neanche, poichè la vita si ha sempre e solo come insieme delle due cose, che non possono mai stare tra loro separate, alla pari della cera e della figura. ” E’ quindi manifesto che l’anima (ed alcune sue parti, se per sua natura ò divisibile in parti) non ò separabile dal corpo, giacchè l’attività  di alcune sue parti ò l’atto delle corrispondenti parti del corpo “: in altri termini, secondo Aristotele, gli occhi possono vedere, le orecchie udire solo se c’ò l’anima, e così via; ciò significa che l’occhio, l’orecchio, ecc., non può vedere o sentire in potenza, e perchè veda o senta in atto occorre che ci sia l’anima. ” Ciononostante nulla impedisce che almeno alcune parti siano separabili, in quanto non sono atto di nessun corpo “; la definizione di anima come corpo che può avere la vita in potenza ò una definizione generale, valida universalmente per tutti i corpi viventi. E ora Aristotele scende nei particolari, domandandosi quale sia l’anima delle piante, quale quella degli animali e, infine, quale quella dell’uomo. Quindi, dopo la qualificazione generale della nozione di anima, ò giunto il momento di indagare su che cosa caratterizzi le singole classi di viventi (piante, animali, uomo). Aristotele, tuttavia, si sofferma ancora (nel II e nel III paragrafo) sulla nozione di anima, precisando come una buona definizione non si limiti a mostrare che cosa sia una determinata cosa, bensì esibisca anche la causa, ovvero il perchè quella cosa ò tale: ” gli enunciati delle definizioni sono simili alle conclusioni ” (413). Per lo Stagirita, un buon ragionamento deve partire da premesse vere per approdare a conclusioni altrettanto vere: un ragionamento di questo tipo rende conto della causa. Se infatti dico che “tutti gli uomini sono mortali”, posso motivarlo adducendo come causa il fatto che “tutti gli uomini sono animali” e che “tutti gli animali sono mortali”. Quindi, come si evince facilmente dall’esempio che abbiamo appena fatto, una buona definizione corrisponde alla conclusione di un sillogismo, giacchè ò solo in tal modo che si può render conto delle cause. Fatte queste considerazioni, Aristotele riprende la ricerca da lui lasciata in sospeso, ritornando su punti già  assodati e arricchendoli: riprendendo, in particolare, la distinzione tra essere animato ed essere inanimato (distinzione racchiusa nel fatto che l’uno vive, l’altro no), nota acutamente come l’espressione “vita” sia carica di svariati significati. Allora Aristotele spiega come sia lecito dire che un essere vive se ad esso appartiene anche una sola di queste caratteristiche: l’intelletto, la sensazione, il movimento e la quiete del luogo, e inoltre il mutamento nel senso della nutrizione e della crescita. Ne consegue, naturalmente, che ad essere viva non ò solo l’entità  pensante, ossia l’uomo: anche le piante vivono, poichè crescono in più direzioni, anzi ” in tutte le direzioni ” e ciò vale finchè riescono ad assorbire nutrimento. La funzione nutritiva, pertanto, costituisce già  essa stessa una prima forma di anima e Aristotele nota come vi siano parecchi corpi che vivono in virtù di quest’unica funzione: ” questa facoltà  può esistere indipendentemente dalle altre, mentre ò impossibile negli esseri mortali, che le altre esistano indipendentemente da essa “. Affiora efficacemente come il vivente si strutturi come una lunga scala di esseri animati (la “scala naturae”), tant’ò che vi sono animali che si trovano ai confini del regno vegetale: pensiamo a certi animaletti dotati di conchiglia, che non si muovono, abbarbicati agli scogli. Ma ciò che, in ogni caso, contraddistingue l’ animale dalla pianta ò la sensazione, garantita dal possesso di organi di percezione: non c’ò animale che ne sia sprovvisto, perfino il più semplice che si possa immaginare; tutti, anche quelli più prossimi alle piante, hanno almeno un organo di percezione: il tatto. E in una pagina magnifica del “De partibus animalium”, Aristotele dice che non vi ò nessuna cosa che sia indegna di essere conosciuta, perfino un verme. “L’anima ò il principio delle facoltà  che abbiamo detto” ed ò da esse determinata (anima nutritiva perchè si nutre, sensitiva perchè ha sensazioni, intellettiva perchè formula pensieri). A questo punto, il filosofo greco si domanda se l’anima sia suddivisa in parti e se esse – ammettendo che esistano – siano da essa separabili e, nel caso lo siano, se lo sono solo concettualmente o anche materialmente. E l’analisi che Aristotele conduce tiene conto delle distinzioni acquisite tra piante, animali e uomini: una prima cosa da constatare ò un atteggiamento peculiare delle piante, in virtù del quale ò possibile staccare da esse dei pezzi ed essi continueranno a vivere indipendentemente dalla pianta (pensiamo agli “innesti”). Perfino i vermi possono essere tagliati in parti e ciascuna di esse continuerà  a vivere per conto suo. Ciò sembra avvalorare l’ipotesi della costituzione in parti dell’anima e della separabilità  delle medesime: l’anima di questi vermi o di tali piante ò, pertanto, una in atto, ma molteplice in potenza. Se l’anima ha sensazioni, poi, si può pensare che abbia la fantasia, la capacità  di conservare le immagini acquisite con i sensi. L’animale, nota Aristotele, si muove verso qualcosa, in primo luogo verso il cibo: anche nell’uomo troviamo una orexiV, un’ “appetizione”, ma in tal caso ò l’intelletto ad essere il motore. Dove ci sono il piacere e il dolore c’ò anche il desiderio, inteso come ricerca di ciò che procura piacere e di ciò che scaccia il dolore: a un tale desiderio, dunque, si associa la orexiV, che si esprime mediante il movimento. Preso atto dell’inseparabilità  dell’anima dal corpo, pare che solamente l’intelletto possa essere da esso disgiunto: l’intelletto, infatti, ò eterno, c’ò da sempre, alla pari della specie “cavallo”, “uomo”, “cane”, ecc. Ma sorge spontanea la domanda: allora tale intelletto ò unico o ce ne sono tanti, uno per ciascuno di noi? Essendo esso una forma e per di più unica, ne consegue che l’intelletto ò unico per tutti gli uomini (tesi sulla quale insisteranno soprattutto – in età  medioevale – gli interpreti arabi di Aristotele). Ne risulta che le singole parti che formano l’anima (nutritiva, sensitiva, razionale) sono separabili solo a livello concettuale (ossia per funzioni), ma non a livello concreto: e a conclusione del paragrafo II, lo Stagirita tenta di dare una definizione di anima che tenga in considerazione la causalità : l’anima ò ciò in virtù di cui viviamo e percepiamo, dove la causa sta appunto nel “ciò in virtù di cui”. Tale espressione, però, ò bivalente, poichè non spiega cosa sia ciò mediante cui conosciamo. Cos’ò, dunque, quel qualcosa che ci fa conoscere? Conosciamo perchè possediamo le conoscenze, ma anche perchè abbiamo l’anima: così come siamo sani perchè abbiamo la salute, ma anche grazie ad una determinata parte del corpo. In tale prospettiva, la conoscenza e la salute vanno intese come atto del soggetto ricettivo (upokeimenon) che accoglie la conoscenza (funzione dell’anima razionale) e la salute (funzione del corpo). Dunque, la conoscenza e la salute sono le forme connesse all’anima e al corpo. Ciò mediante cui viviamo e percepiamo ò l’anima, intesa come causa di determinate operazioni connesse ad un dato corpo. ” Perciò ò corretta l’opinione di quelli che sostengono che l’anima non ò un corpo, ma non esista senza il corpo “: l’anima, senz’altro, non ò un corpo; essa ò, piuttosto, una proprietà , un “qualcosa” (ti) del corpo; naturalmente, non ogni corpo può accogliere una determinata funzione, come invece avveniva secondo i colleghi di Aristotele a lui precedenti. Si deve trattare, viceversa, di un corpo adatto, dotato degli organi appropriati. Focalizzando l’ indagine sull’uomo, ad esso competono tutte e tre le funzioni dell’anima: egli, infatti, si nutre e cresce (funzione nutritiva), ha sensazioni (funzione sensitiva) e, in più, ò dotato del pensiero (funzione intellettiva), che può essere quindi individuato come caratteristica tipicamente umana, che contraddistingue l’uomo da ogni altro ente (tant’ò che la definizione più appropriata di uomo ò quella di “animale razionale”). Grazie alla funzione sensitiva, l’uomo prova il piacere e il dolore e, di conseguenza, anche il desiderio ( epiqumia ), ossia l’ orexiV verso ciò che dà  piacere. La volontà , invece, non ò intendibile come epiqumia, ma come orexiV, in quanto ò tendenza non solo verso il piacere, ma anche – talvolta – verso il dolore: ad esempio, posso volermi sottoporre ad un doloroso inrervento chirurgico. Nel paragrafo IV, Aristotele concentra la propria attenzione sulla facoltà  nutritiva dell’anima, provando a darne una definizione e indagando su tutto ciò che ò legato ad essa. Prima di poter dire che cosa sia tale facoltà , occorre descriverne l’attività  connessa: infatti, solamente se so cos’ò il nutrimento potrà  capire che cos’ò la funzione nutritiva, giacchò ” le attività  e le funzioni dal punto di vista logico sono anteriori alle facoltà  “. Ciò perchè la nutrizione ò in atto, la facoltà  di nutrirsi ò in potenza: non ò un caso che, in greco, dunamiV designi tanto la “potenza” quanto la “facoltà “. Ma vi ò un’altra priorità : rispetto all’attività  stessa, ci devono già  essere prioritariamente gli oggetti con cui la facoltà  in questione ha a che fare; cosicchò ò vero che il nutrirsi sta prima della facoltà  di nutrirsi, ma ciò non toglie che il nutrirsi venga dopo al fatto che esistano oggetti di cui nutrirsi (il cibo). Similmente, perchè io veda occorre che vi siano oggetti da vedere; perchè io senta, oggetti da sentire. Detto questo, ò bene puntualizzare come anche le piante si riproducono (oltre a nutrirsi), ossia generano esseri viventi a loro simili (” uomo genera uomo “, ama ripetere Aristotele). Da questa concezione, ò facile capire come l’immortalità , negata ai singoli, sia invece garantita alle specie: e ciò grazie alla ri-produzione, ossia alla possibilità  che ogni esemplare ha di produrre un altro sè (ri-produzione), rendendo possibile l’eternità  della sua specie. La riproduzione, pertanto, ò la funzione più naturale degli esseri viventi, i quali la attuano per realizzare un “fine” dal duplice valore: assicurare la continuità  della specie e partecipare all’eterno. ” Poichè questi esseri non possono partecipare con continuità  dell’eterno e del divino, in quanto nessun essere corruttibile ò in grado di sopravvivere identico e unico di numero “: tematica, questa, che riaffiora nel X libro dell’ “Etica nicomachea”; la natura sa che ciascuno vorrebbe protrarsi in eterno e allora concede, come unica possibilità  affinchò ciò avvenga, la riproduzione: ” ciascuno ne partecipa per quanto gli ò possibile, chi più e chi meno, e non sopravvive a se stesso, ma in un individuo simile “. Da queste considerazioni, si evince come, per Aristotele, perfino il fatto che un essere generi un essere a sè simile non ò cosa ovvia, ma genera quella meraviglia che costituisce la causa scatenante dell’ indagine filosofica. Analogamente, egli chiarisce in che senso si può dire che l’anima ò causa e principio del corpo vivente: se vogliamo attribuirle tale funzione di causalità , allora dobbiamo capire che cosa effettivamente intendiamo per “causa” ( aitia ), con un procedimento affine a quello seguito nella definizione di “sostanza” e di “anima”. Essa non risponde al “che cosa? “, ma al “perchè? “: ciò significa che non rende conto dell’ oti (“che”), ma del dioti (“perchò”). In particolare, la causa ò quel qualcosa che permette di spiegare il perchè di una cosa, ma, al contempo, ò anche ciò che la fa essere in senso compiuto. Tre sono i significati attribuibili al termine “causa”: altrove, Aristotele ne attribuisce anche un quarto, corrispondente alla causa materiale, ma in questo contesto lo tralascia, giacchò non ha senso parlare di “materia” a proposito dell’anima. ” Causa e principio si dicono in molti sensi e in confronto a ciò l’anima si dice causa nei tre modi che abbiamo distinto “: come “principio del movimento” (oqen kinhsiV), come “fine”, come essenza (ousia) dei corpi animati. E Aristotele analizza caso per caso queste tre definizioni in riferimento all’anima: ” che l’anima sia causa come essenza ò evidente: infatti, la sostanza ò per tutte le cose la causa del loro essere [cioò del fatto che esistano e siano quel che sono] “; ma, nel caso specifico degli esseri viventi, il loro essere sta nel vivere e causa del vivere ò appunto l’anima, non il corpo (poichè infatti di esso anche le pietre sono dotate). ” E’ poi evidente che l’anima ò causa anche come fine “: a tal proposito, Aristotele fa un parallelo tra il modo in cui agisce l’intelletto e quello in cui agisce la natura. Così come l’intelletto agisce in vista di qualcosa, ossia mi induce ad agire affinchò finalisticamente io raggiunga un obiettivo, similmente anche la natura ” non fa nulla invano “, non ò frutto del caso (per quel che riguarda gli avvenimenti che si verificano sempre o epi to polu, “per lo più”). Tutti i processi naturali, dunque, si verificano secondo una certa regolarità  e in vista di determinati fini, come avviene per la generazione degli animali: così certi viventi hanno i polmoni per poter respirare e l’uomo non ò l’ animale superiore perchè ha la mano (come credeva Anassagora), ma ha la mano perchè ò l’animale superiore, ossia per poter esplicare al meglio le sue funzioni che lo rendono superiore. ” Tutti i corpi naturali sono strumenti (organa) dell’anima “, strumenti nel senso che servono per realizzare quelle determinate funzioni psichiche; in quest’ottica, l’anima ò il fine del corpo, ciò che fa sì che esso sia sfruttato in quel modo. Sicchò Aristotele potrà  affermare, in altri scritti, che la mano ò ” lo strumento degli strumenti “, poichè serve all’uomo da strumento per utilizzare gli altri strumenti. Sbaglia, dunque, Anassagora a ritenere che l’organo crei la funzione; al contrario, ò la funzione che crea l’organo (per vedere abbiamo gli occhi, per udire le orecchie, e così via): e tutto ciò per compiere le funzioni psichiche (nutrirsi e riprodursi per le piante; nutrirsi, riprodursi e avere sensazioni per gli animali; nutrirsi, riprodursi, avere sensazioni e pensare per gli uomini). Infine, il terzo tipo di causa ò quella da cui ha origine il movimento: ” l’anima costituisce la prima origine del movimento locale “; si muove perchè tende a qualcosa. Successivamente, Aristotele critica alcune concezioni di come avvengono i processi di nutrizione e crescita: in particolare, la prospettiva di Empedocle, ad avviso del quale sarebbe il movimento dei quattro elementi che compongono il mondo a far sì che si verifichi la nutrizione; ma anche la teoria di coloro che hanno visto in un solo elemento (il fuoco) il fattore che dà  la nutrizione. Del resto, Aristotele stesso, in alcuni scritti, parla di peyiV, di cozione del cibo che avviene grazie ad un calore interno (quasi come se ci fosse il fuoco in noi) che riscalda il cibo che ingeriamo. La vera causa della nutrizione, a dispetto di tutte queste stravaganti fantasticherie, ò l’anima (nutritiva), la quale permette al corpo di nutrirsi e di svilupparsi: ed ò a questo punto che lo Stagirita si chiede se la nutrizione avvenga per assunzione di ingredienti a noi simili o contrari a quelli del nostro corpo. Già  Anassagora si domandava come fosse possibile che, mangiando pane, noi cresciamo in carne ed ossa e rispondeva sostenendo che, in qualunque oggetto – anche se in diverse proporzioni -, sono presenti infiniti “semi” di tutte le cose, cosicchò mangiando un pezzo di pane ingoio anche semi di carne, di ossa, ecc. Ora, Aristotele dice che, nel momento in cui si forma un organismo, esso ha bisogno anche del suo contrario, ma, una volta diventato adulto, assume solo più il simile a se stesso. Fatte queste considerazioni, l’attenzione del filosofo greco viene proiettata sulla funzione sensitiva dell’anima, funzione che presiede ai cinque organi di senso: in particolare, il paragrafo V ò dedicato all’aisqhsiV, e, in primo luogo, Aristotele chiarisce come la percezione sensibile consista in un kineisqai, in un “essere mosso”, in un pascein, un “subire” qualcosa: precisamente, subisco l’azione di un oggetto esterno che mi altera. Ne consegue che la sensazione sarà  un qualcosa di passivo, ricettivo che accoglie ciò che proviene da fuori. ” Infatti la sensazione consiste nell’essere mossi e nel subire un’azione, giacchò sembra che sia una sorta di alterazione “: e Aristotele si serve di un’aporia per chiarire la passività  della sensazione. Infatti egli si chiede: perchè non ha luogo la percezione degli organi percettori? Perchè quando vedo coi miei occhi gli oggetti del mondo non vedo i miei occhi stessi? Perchè essi, se non ci sono oggetti esterni, non percepiscono nulla (pur essendo costituiti dagli stessi quattro elementi che compongono il resto del mondo)? La risposta ò che la facoltà  sensitiva propria di questo tipo di anima ò una dunamiV, una “potenzialità “; infatti, abbiamo la facoltà  percettiva ma non nel senso che percepiamo costantemente in atto, bensì nel senso che la esercitiamo in certi momenti ma, anche quando non la esercitiamo, ne restiamo pur sempre in possesso. E da che cosa dipende che in certi casi percepiamo e in certi altri no? Dal fatto che in quel momento ò presente in atto l’ oggetto corrispondente a quella determinata facoltà  percettiva: ho di fronte a me una casa e, dunque, posso percepirla visivamente e a far passare la potenzialità  del vedere in atto ò l’oggetto esterno (cioò la casa), così come il combustibile non può bruciare senza il comburente. Tutto cambia, però, se parliamo dell’intelletto: grazie ad esso, pensiamo secondo il nostro volere, senza che le cose pensate siano concretamente di fronte a noi. La percezione si trova quindi in una duplice condizione (in potenza e in atto) e lo stesso vale per un oggetto sensibile: qualsiasi oggetto può (potenzialmente) essere visto e se, effettivamente, viene visto, allora ò visibile in atto. ” Il movimento ò una specie di atto, benchè imperfetto “: qui Aristotele fa riferimento alla nozione di movimento, il quale ò passaggio dalla potenza all’atto, e diventa compiuto solo alla fine. Ora, ogni essere che subisce un’azione ed ò mosso, lo ò ad opera di un oggetto in atto. Ma come mai, allora, vedo un oggetto giallo? Esso ò diverso rispetto alla mia pupilla: a tal proposito, c’ò un passo in cui Aristotele sembra suggerire che la mia stessa pupilla diventa gialla, cioò simile all’oggetto visibile, come se ci fosse qualcosa che assimila le proprietà  dell’oggetto visto e la funzione. Aristotele fa ancora una volta presente come il concetto di potenza sia complesso, poichò articolato in più livelli non facilmente distinguibili: così l’uomo in quanto uomo, fin dalla nascita, ò potenzialmente dotato del sapere, anche se non ha ancora acquisito nessuna nozione. Ma anche l’uomo dotato di sapere, non potrà  applicarlo incessantemente: nel momento in cui non lo applica, ne ò dotato potenzialmente; quando poi lo applicherà  concretamente, allora il suo sapere passerà  dalla potenza all’atto. ” Riguardo alla potenza e all’atto ò necessario operare una distinzione, poichò ora ne abbiamo discusso in maniera sommaria. Un essere ò conoscente o al modo che diremmo conoscente l’uomo, perchò ò uno degli esseri che conoscono e che detengono il sapere; oppure al modo che diciamo ormai conoscente colui che possiede la conoscenza della grammatica. Costoro non si trovano in potenza alla stessa maniera, ma il primo perchò il suo genere e la sua materia sono di un certo tipo, il secondo perchò, qualora lo desideri, può esercitare la sua conoscenza, purchò qualche cosa di esterno non glielo impedisca. ” [417 a]. E Aristotele dice che colui che acquisisce il sapere che, in quanto uomo, possedeva potenzialmente fin dalla nascita, ” subisce un’alterazione mediante l’apprendimento “: anche quest’espressione – come il termine “potenza” – presenta un duplice significato. Infatti, posso subire un’azione o in modo tale che essa mi danneggi o, viceversa, che mi rafforzi: sicchò il ” to pascein ” (“il subire”) può designare una particolare forma di distruzione che io subisco per l’azione di un qualcosa a me contrario o può designare un rafforzamento del mio stato. In quest’ottica, colui che conosce passa da conoscente in potenza a conoscente in atto, ma non per alterazione distruttiva, bensì rafforzativa: ” pertanto non ò corretto affermare che chi pensa, quando pensa, come pure l’architetto, quando costruisce, subiscono un’alterazione “. Sottolineando come l’apprendimento non sia tanto dato dall’azione di un oggetto esterno, quanto piuttosto da un passaggio, tutto interno al soggetto, da ignoranza a conoscenza, Aristotele ò mosso da suggestioni platoniche (pensiamo a quando nel “Menone” si diceva che conoscere ò ricordare). Dunque, se c’ò un solo significato della parola “alterazione” (intesa come distruzione), allora nella conoscenza, propriamente, non può esserci alterazione: se invece diamo a tale termine anche il significato di “rafforzamento”, di cambiamento in meglio, allora si potrà  dire che anche il processo conoscitivo ò una forma di alterazione, di passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. E il primo mutamento a cui ò soggetto un ente dotato di anima sensitiva ò l’essere prodotto dal genitore: una volta generato, l’individuo possiede già  la sensazione allo stesso modo in cui possiede – potenzialmente – la scienza. Tuttavia, vi ò una differenza imprescindibile tra la sensazione e la conoscenza: nella prima, a produrre l’atto sensitivo sono gli oggetti esterni (vedo perchò ci sono oggetti esterni che producono in me il passaggio da vedente in potenza a vedente in atto); sarà  invece la fantasia a lavorare pur senza la presenza di oggetti esterni. La scienza, invece, non ha di fronte a sò oggetti esterni: cosicchò, se la sensazione ha a che fare con oggetti singolari (le entità  individuali) – e la stessa ossatura dell’universo ò costituita da entità  singole -, la scienza ha per oggetto gli universali, i quali si trovano nell’anima stessa e non esternamente (come invece credeva Platone, che attribuiva esistenza autonoma alle Idee). Il soggetto – nota Aristotele – può pensare qualsiasi oggetto quando lo vuole, ma ciò non toglie che non pensa l’oggetto in carne e ossa, bensì l’immagine di quell’oggetto. E’ infatti il sensibile in atto che fa sì che l’immagine in potenza passi anch’essa in atto e, in questa prospettiva, ò di fondamentale importanza capire che cosa siano gli oggetti sensibili e in quanti modi possa essere percepita una cosa. La prima grande distinzione operata dallo Stagirita ò tra oggetto sensibile “per sò” ( kaq’ auto ) e oggetto sensibile per accidente ( kata sumbebhkoV ). Propri ( idia ) sono poi quei sensibili che competono a ciascun senso, giacchò ciascuno dei cinque sensi ha come oggetto qualcosa di specifico, che può essere solo da esso percepito. Così solo l’udito può percepire i suoni, solo il gusto i sapori, solo l’olfatto gli odori: e la vista? Quali sono i suoi “sensibili propri”? Aristotele risponde che essa ha per oggetto i colori. Egli introduce poi, sul piano gnoseologico, un’importante novità , asserendo che il senso – se funzionante – non sbaglia mai. Infatti, l’udito non potrà  mai sbagliare nell’attestare che sta percependo un suono, e lo stesso vale per gli altri sensi: ciascuno di essi giudica ( krinei ) il suo oggetto proprio e non si inganna nel dire che sente un suono, vede un colore, fiuta un odore, ecc. Tuttavia, l’errore nasce quando, ad esempio, ci si domanda “che cos’ò che ha quel colore? ” o “dov’ò quella cosa che ha quel colore? “. Ma, se ogni senso percepisce solo i suoi sensibili propri, come si spiega il fatto che percepiamo gli oggetti nel loro complesso? Aristotele risolve questa apparente contraddizione introducendo, accanto ai sensibili propri, i sensibili comuni ( koina ), i quali non sono legati ad un solo senso. Di sensibili comuni Aristotele ne individua parecchi: il movimento, la quiete, il numero, la figura, la grandezza. Aristotele, però, non dà  indicazione sugli errori: ò tuttavia verosimile pensare ch’egli ritenga che già  coi sensibili comuni siano possibili errori (posso ingannarmi nel percepire un movimento). Gli errori si verificano soprattutto nei sensibili per accidente: se, infatti, vedo una macchia bianca e dico “ò il figlio di Diare”, la vista percepisce il colore bianco, ma che quel bianco sia il figlio di Diare lo percepisce per accidente. Infatti, se effettivamente ò il figlio di Diare, allora si tratta di una percezione corretta; se, invece, non ò il figlio di Diare, allora si tratta di una percezione sbagliata. In altri termini, la vista non sbaglia nel vedere la macchia bianca, ma sbaglia nell’associarla alla persona, visto che al bianco capita per accidente di essere il figlio di Diare. ” Perciò non subiamo alcuna azione dell’ente sensibile in quanto tale “: ma l’ente sensibile cui allude Aristotele ò il colore o il figlio di Diare? E’ verosimile che sia il figlio di Diare. Sensibili per accidente sono quegli oggetti che possono essere percepiti casualmente, ossia può succedere che vengano percepiti: e Aristotele si sofferma diffusamente su ciascuno dei cinque sensi e sui loro sensibili propri. Il sensibile proprio della vista ò – come abbiamo detto – il colore che si trova sulla superficie dell’oggetto visto, ma, accanto al colore, Aristotele pone anche il fosforescente (cioò la luminosità  che si percepisce al buio); tra l’oggetto percepito e l’organo percipiente si trova un medium, un qualcosa di intermedio che Aristotele chiama “il trasparente” ( ti diafaneV ), che ò connesso alla luce: quest’ultima, infatti, ò l’attualizzazione del trasparente stesso. Ed ò grazie al medium che vediamo la luce: perchè si possa vedere, infatti, ci vuole la luce e, oltre ad essa, il medium trasparente che sta tra il colore e l’occhio: nel caso della vista tale medium ò dato dall’aria (ma anche dall’acqua). In altri termini, il medium ò mosso dall’oggetto e a sua volta muove il soggetto percipiente. Ne consegue che il colore dell’oggetto esercita un’ azione non tanto sull’occhio, quanto piuttosto sul medium, modificando il trasparente illuminato: e questa modificazione produce a sua volta un’azione sull’occhio. Aristotele fa riferimento al medium anche per poter spiegare la visione di oggetti a distanza e per differenziarsi dall’atomismo (per il quale la percezione era data da pellicole atomiche che si allontanavano dagli oggetti per raggiungere i nostri sensi). Naturalmente, il discorso del medium interposto tra gli oggetti e i sensi vale non solo per la vista, ma per tutti i sensi: ogni senso ha il suo medium privilegiato, così ad esempio per la vista ò l’aria, per l’udito anche, e così via. Aristotele mostra qualche riserva per l’olfatto, perchè ò vero che sembra che esso abbia il suo medium nell’aria, però ò anche vero che – attraverso i suoi studi zoologici – Aristotele ha scoperto che diversi animali acquatici hanno l’odorato. Dopo essersi soffermato sulla vista (che di tutti i sensi ò quello che gli pare più importante, come egli stesso confessa nella “Metafisica”), lo Stagirita passa all’udito, avente per sensibile proprio i suoni. Esso ò la percussione di un corpo solido su un altro corpo solido e il medium ò dato dall’aria (ma anche dall’acqua). L’orecchio stesso contiene aria congenita in movimento e la voce ò prodotta da tutti quegli animali in grado di respirare. L’olfatto, dal canto suo, ha per sensibile proprio l’odore. Più complicato ò invece il gusto, che ha per oggetto il sapore: infatti sembra essere un qualcosa ai confini con il tatto, poichè per avvenire ha bisogno del contatto con l’oggetto; ma Aristotele dimostrerà  – e lo vedremo poco più avanti – come tatto e gusto siano due sensi diversi. Di tutti e cinque, il tatto ò, a suo avviso, il senso più problematico, poichè sembra che il suo sensibile proprio non sia uno solo: gli altri quattro sensi, infatti, hanno solo un sensibile proprio; eppure – se ci pensiamo – ò vero che, ad esempio, la vista ha per oggetto esclusivamente il colore, tuttavia, di fatto, ne vede una quantità  illimitata, così come l’udito ode un’infinità  di suoni diversissimi (acuti, gra

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