Aristotele: Fisica - Studentville

Aristotele: Fisica

Riassunto dell'opera "Fisica" di Aristotele.

Introduzione Le dottrine fisiche elaborate da Aristotele occupano una posizione assolutamente centrale nella cultura che va dal mondo greco fino alle soglie dell’età  moderna, quando s’ò verificata quella “rivoluzione scientifica” che ha avuto in Copernico e in Galilei i suoi eroi: Platone aveva rigettato la possibilità  di una scienza della natura, in quanto convinto che questa fosse soggetta a quell’incessante fluire tematizzato da Cratilo, e aveva sostenuto che del mondo naturale potesse esservi non già  episthmh, bensì doxa; lo stesso Timeo, che pure era un dialogo interamente dedicato alla fusiV, si configurava come un racconto immaginifico privo di ogni qualsivoglia carattere veritativo. E’ stato Aristotele ad assumersi il compito di fondare la fisica come scienza, ancorchò la fisica da lui fondata sia lontanissima da quella moderna, che tutto matematizza: si tratta, al contrario, di una fisica qualitativa (anche qui in contrasto con Platone), che non di rado tende a trapassare in metafisica. Ed ò nel VI libro della Metafisica che lo Stagirita, proponendo la sua classificazione delle scienze, non solo presenta la fisica come scienza a pieno titolo, ma addirittura la inserisce nel novero delle “scienze teoretiche” (insieme alla matematica e alla proth filosofia, ossia la metafisica), le quali, avendo per fine il sapere stesso, sono disinteressate e, in ciò, risiede la loro superiorità : dal canto loro, invece, le “scienze pratiche” (etica e politica) hanno per fine un’azione, mentre le “scienze poietiche” mirano alla produzione di poioumena, ossia di oggetti. Proprio in Metafisica VI, 1025 b 25 scrive Aristotele: “Pertanto, se ogni conoscenza razionale ò o pratica o poietica o teoretica, la fisica dovrà  essere conoscenza teoretica, ma conoscenza teoretica di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente considerata come non separabile dalla materia. […] Se tutti gli oggetti della fisica si intendono in modo simile al camuso, come per esempio naso, occhio, viso, carne, orecchio, animale in generale, foglia, radice, corteccia, pianta in generale (infatti non ò possibile dare definizione di alcuna di queste cose senza il movimento, ma esse hanno sempre materia), allora ò chiaro come si debba ricercare e definire l’essenza in sede di ricerca fisica, ed ò altresì chiaro perchè sia compito del fisico speculare anche su una parte dell’anima che non esiste senza la materia. Da tutto ciò risulta allora evidente che la fisica ò una scienza teoretica”. Per Platone, proprio perchè rivolta alle cose transeunti e passeggere di questo mondo, la fisica non può assurgere al grado di scienza: ciò non vale per Aristotele, ad avviso del quale ò possibile studiare le cose nel loro divenire. Ciò non toglie, però, che la fisica – a differenza della metafisica, che studia l’essere in quanto tale – sia una scienza particolare, giacchè si occupa solo dell’essere in movimento e, perciò, difetta di universalità : oltre ad occuparsi dei corpi terreni, caratterizzati dall’essere passeggeri e non eterni, Aristotele fa rientrare nel campo d’indagine della fisica anche lo studio dei corpi celesti. Con quest’operazione, egli pone l’astronomia come scienza fisica e non come scienza matematica (quale era per Platone), poichè gli astri sono anch’essi corpi in movimento, benchè – a differenza dei corpi terrestri – non siano soggetti al divenire, ma esistenti sempre e necessariamente (in quanto composti non già  dei quattro elementi, bensì dell’ etere). Ne segue che gli orizzonti della fisica finiscono per spaziare dalla terra al cielo, dai corpi viventi degli animali all’anima. Il confine tra il mondo terrestre – popolato dai corpi in divenire – e quello celeste – popolato dai corpi eterni – ò segnato dalla luna, che divide appunto il mondo sublunare da quello sopralunare. Le scienze teoretiche riguardano cose esistenti necessariamente, ma all’interno della fisica ò ritagliato uno spazio anche per i corpi passeggeri e non eterni: le pietre, gli uomini e gli animali possono infatti non esistere e, in ogni caso, sono perituri; essi tuttavia rispondono ad una modalità  dell’essere che ò epi to polu (per lo più), per cui gli uomini, invecchiando, diventano per lo più canuti. Nell’ambito del mondo fisico terrestre, allora, pur non valendo la necessità  assoluta, ciò non di meno vale la necessità  condizionale, tale per cui, se si verifica una tale condizione, si verifica un tale effetto (ad esempio: se invecchio, mi vengono i capelli bianchi). Sicchò i corpi del mondo fisico di questa terra presenta caratteristiche fluttuanti (il colore degli occhi, dei capelli, l’altezza, ecc), con l’inevitabile conseguenza che, a differenza della matematica, la conoscenza fisica non potrà  mai essere esatta nè potrà  fare ricorso a dimostrazioni analitico/deduttive (Platone riduce invece nel Timeo gli elementi fisici a enti geometrici matematicamente studiabili). La fisica difetta dunque di universalità , di esattezza e di necessità : come ogni altra conoscenza, anche quella fisica procede per cause e quali siano tali cause Aristotele lo spiega nel II libro cap. 3 della Fisica, per poi riprenderlo nel I della Metafisica: le quattro cause che egli individua non sono che le risposte da fornire quando ci si interroga sulla natura di qualche cosa e tale dottrina ò evidentemente dedotta dall’osservazione diretta dei corpi: osservandoli, si nota infatti che essi rispondono a quattro diversi punti di vista, ovvero risultano dalla convergenza di quattro cause. Infatti, le cose hanno una materia, sono prodotte da qualcuno, sono tali perchè hanno una forma che le individua e hanno uno scopo per il quale sono venute ad essere: qui in sintonia con Platone, Aristotele crede che la struttura eretta sia stata data all’uomo affinchè egli possa contemplare le realtà  superne; ma Aristotele non dimentica che le cose hanno anche una materia che le condiziona: così l’uomo può stare in piedi perchè possiede calore e il calore tende appunto verso l’ alto. La materia e la forma non sono – secondo Aristotele – separabili l’una dall’altra, col che egli si distingue nettamente dalla posizione platonica, per cui le forme (eidh) sarebbero radicalmente distinte dalla materia (ulh); inoltre l’assetto fisico di ogni cosa ò tale perchè deve rispondere ad un dato fine e la forma ò quella che ò perchè ò stata organizzata in vista di tale fine. Solo chi conosce tutte e quattro le cause delle cose può essere insignito del titolo di fusikoV (fisico), giacchò egli solo ò in grado di indicare di che cosa le cose sono fatte, a quale fine tendono, quale forma hanno, che cosa le ha messe in moto. Il punto nodale nella trattazione fisica condotta dallo Stagirita riguarda la teleologia: la natura tende a un fine, o, piuttosto, in essa tutto avviene secondo le bizzarre regole del caso? A questa domanda, Platone aveva risposto giocando la carta del finalismo provvidenzialistico, ipotizzando l’esistenza di un “Divino artefice” (il Demiurgo del Timeo) tale da contemplare le idee eterne e calarle nella materia nel miglior modo possibile: il mondo che ne derivava era il migliore tra i mondi possibili, interamente retto da fili divini, una sorta di opera d’arte infallibile in cui tutto era retto da fili divini. La soluzione di Aristotele ò assai diversa: il provvidenzialismo platonico ò messo al bando per due ragioni. In primis, perchè la natura non ò affatto divina e Aristotele ne paragona l’attività  a quella tecnica; a differenza della tecnica divina (che ò infallibile), la tecnica umana ò soggetta a fallire: similmente, in natura non tutto avviene in maniera perfetta. Come il grammatico può commettere errori o come il medico può prescrivere farmaci inadeguati, così la natura può parimenti compiere errori, benchè il suo agire sia sempre e comunque orientato al meglio: tale principio viene da Aristotele dedotto a partire dalla biologia, dove si registrano casi di veri e propri mostri (ad esempio esseri con parti mancanti o in sovrappiù) e devianze dalla norma della natura che vuole che gli uomini nascano per lo più in un certo modo. La possibilità  dell’errore della natura ò resa possibile dal fatto che si tratta di un ambito di cose materiali e, come abbiamo poc’anzi detto, la materia non sempre si lascia dominare dalla forma, a volte le oppone resistenza (tale ò ad esempio il caso della mano con quattro dita anzichè cinque). Sicchò, a partire da queste considerazioni, lo Stagirita dovrà  prendere in esame il fattore “casualità â€, e lo farà  nel libro II cap. 4-5-6, addivenendo alla conclusione che “il caso rientra nel novero delle cause”, intendendo con ciò dire che anche quel che accade per caso ha pur sempre una sua causa, anche se l’effetto risulta derivare da una causa diversa da quella in forza della quale solitamente accade: ossia avviene per accidente (kata sumbebhkwV). Può dunque accidentalmente accadere che, nel corso della generazione, la materia non si lasci plasmare e ne nasca un mostro. L’individuo di sesso femminile ò esso stesso agli occhi di Aristotele un caso di errore della natura, un mostro prodotto dal caso: agendo sul sangue mestruale, il seme maschile forma la materia ed ò a questo punto che può verificarsi la devianza; nascere femmina ò, appunto, una devianza, ma si tratta pur sempre di una “mostruosità  necessaria” al fine di perpetuare la specie. Occupandosi la fisica di corpi in movimento, Aristotele si affatica a lungo sulla nozione di movimento (l’intero libro III ò dedicato a tale tematica): riconoscendo quattro possibili modalità  di kinhsiV (locale, sostanziale, quantitativo, qualitativo), egli smaschera definitivamente l’eleatismo parmenideo. Il moto locale ò caratterizzato da un’unica direzione dall’alto verso il basso, o viceversa. A ciò vale per il mondo sublunare, poichè i corpi di quello sopralunare sono invece dotati di moto semplice (ovvero circolare: spuntano e tramontano sempre nel medesimo punto) in forza della particolare materia che li costituisce: si tratta non già  dei quattro elementi empedoclei che stanno alla base dei corpi sublunari, bensì di quella materia incorruttibile che Aristotele chiama etere. Agli occhi di Aristotele, i corpi si distinguono in semplici e in composti, ed entrambe le categorie cadono nel campo d’indagine della fisica: alla base di tutti i corpi che popolano il mondo sublunare stanno i quattro elementi individuati da Empedocle: a tal proposito, Aristotele rigetta tanto gli atomi di Democrito quanto i solidi del Timeo platonico. Se infatti alla base dei corpi fossero gli atomi, allora i corpi risulterebbero meri insiemi di punti, cosicchè potrebbero disgregarsi in qualsiasi momento. Platone compie innegabilmente un passo avanti quando assume come elementi i solidi scomponibili, ma ciononostante la sua proposta resta insufficiente poichè i solidi non sono in grado di subire alcunchè nè di aggregarsi per dare composti. Solo Empedocle, ravvisando nell’acqua, nella terra, nel fuoco e nell’aria i quattro elementi stanti alla base del reale ha colto la verità : tali quattro elementi, infatti, rendono perfettamente conto e del divenire e dell’aggregarsi dei corpi, giacchò si tratta di elementi divisibili in parti che mantengono lo stesso nome dell’elemento di partenza (ogni parte di terra ò sempre terra, e così via). Inoltre essi sono elementi primi nel senso che non sono composti da altri, possono subire affezioni e trasformazioni reciproche (l’acqua che passa allo stato aeriforme), accrescere, diminuire, mutare luogo. Non stupisce pertanto che Aristotele dedichi buona parte della Fisica al loro studio. Tuttavia sbaglia Empedocle nella misura in cui li concepisce come principi (e non come meri elementi), giacchè, così facendo, egli finisce per riconoscerli come eterni: ma da ciò che ò eterno non può in alcun caso nascere il mutevole e il transeunte, ovvero tutto ciò che popola questo mondo. I quattro elementi rappresentano per Aristotele materia in un determinato stato (allo stato di terra, di acqua, di fuoco, di aria) e presuppongono un sostrato potenziale comune da cui vengono ad essere per effetto di fattori ambientali come il caldo e il freddo. Tale sostrato materiale non esiste indipendentemente da essi: di per sè, i quattro elementi non sono eterni; eterna ò invece la loro vicenda di trasformazione, poichè eternamente si trasformano l’uno nell’ altro. Dal moto dei corpi semplici dipende direttamente anche l’assetto di del mondo terrestre, risultante costituito in base alla disposizione dei quattro elementi stessi (la cui disposizione ò legata alle caratteristiche fisiche di ciascun elemento). Il mondo sublunare (di natura sferica, che ò la migliore tra quelle possibili) viene così a configurarsi come una serie di cerchi concentrici al cui centro sta l’elemento più pesante (la terra) e alla periferia quello più leggero (il fuoco), con in mezzo l’acqua e – più leggera – l’aria. In base a tale disposizione si spiegano anche i moti che si verificano nel mondo sublunare, che possono essere moti secondo natura (fusei) e moti violenti (bia): una pietra lasciata cadere tende a muoversi di un moto naturale verso il basso, ma se la scagliamo verso l’alto essa procede per un tratto in direzione opposta al suo luogo naturale (muovendosi con un moto contro natura), fino a che non avrà  esaurito la spinta e ricadrà  a terra. I corpi celesti, invece, si muovono di moto circolare. La luna segna il confine tra i due mondi (sublunare e sopralunare), ma tra essi non c’ò separazione netta: c’ò anzi una zona intermedia in cui si situano i fattori meteorologici, che sono da Aristotele spiegati con le vicissitudini cui vanno incontro i quattro elementi. Pur verificandosi una tantum (il terremoto o l’arcobaleno non accadono certo quotidianamente), sono fenomeni dotati di una loro spiegazione razionale facente capo ai quattro elementi: sono secondo Aristotele causati dal particolare moto del Sole, il quale avvicinandosi o allontanandosi dalla Terra fa sì che gli elementi si trasformino e diano vita alle stelle cadenti, alle comete, ecc. Aristotele parla a più riprese del moto solare come causa dei moti sublunari: egli si guarda bene dal parlare di “calore” o di “luce” del Sole, giacchè ciò significherebbe ammettere che anch’esso – stante al di sopra della luna – ò costituito dai quattro elementi. Ne segue allora che il garante della vicenda ciclica del mondo sublunare (il Sole) ò esso stesso sopralunare, e dunque dotato di moto circolare e perfetto. Gli individui sublunari che popolano il nostro mondo (uomini, animali, piante) sono mortali come individui (poichè costituiti dai quattro elementi), ma eterno ò il loro processo di generazione e corruzione, cosicchè il singolo uomo ò perituro, ma la specie umana ò eterna (l’atto stesso con cui si ama e ci si riproduce non ò che un anelito all’eternità ). I corpi celesti non si muovono però tutti allo stesso modo: ciascuno di essi descrive nel suo tragitto una sfera e l’insieme complessivo di tali sfere dà  un insieme concentrico che ha al suo centro la Terra stessa (in ciò risiede il geocentrismo aristotelico). Come la Terra occupa il centro del mondo, così la periferia ò occupata dal “cielo delle stelle fisse”, che chiude l’estremità  del mondo. Le stelle fisse hanno moto eterno, circolare e semplice: via via che dall’alto si scende verso la luna, i moti dei pianeti presentano sempre maggiori irregolarità  (tali sono appunto i moti apparenti) di velocità  e di regradazioni. Per rendere conto di essi, Aristotele ricorre a più espedienti e argomentazioni teoriche: il problema che più di ogni altro lo interessa ò che ciascuno di tali corpi celesti ha anche più d’un solo moto, cosicchè diventa difficile spiegare quale realmente sia la causa prima che sta alla base di tali moti. In tale ottica, Aristotele si domanda perfino se gli astri abbiano un’anima – giacchò l’anima, come insegnava Platone stesso, ò principio del movimento – e, nel rispondere negativamente, egli chiude definitivamente i conti col Timeo, nel quale si affermava esplicitamente che i pianeti fossero animati, intelligenti e divini. Pur negando l’anima ai corpi celesti, resta intatto il problema riguardante la causa del loro moto: quale ò il principio motore che mette in movimento i corpi celesti? Nel XII libro della Metafisica, Aristotele propone ben due diverse possibili risoluzioni del problema: dapprima egli riconosce che ogni sfera ha un proprio motore dotato di determinate caratteristiche: deve essere una sostanza – sennò non può causare il moto di un’altra sostanza -, deve essere anteriore al corpo mosso e deve muovere sempre – altrimenti non può causare l’immutabile e perenne moto degli astri -, deve essere atto puro, giacchò se fosse potenza potrebbe ora muovere, ora no. Ma se ò solo atto ed esclude la potenza, allora esclude anche il movimento e il mutamento (che della potenza sono tipici): sarà  allora un motore immobile, che muove senza essere mosso. Dopo aver esposto questa teoria secondo la quale molteplici sarebbero i motori immobili (uno per ogni sfera), Aristotele – appena un capitolo dopo – cambia radicalmente prospettiva e riconosce esplicitamente la possibilità  di un motore immobile unico per tutte le sfere celesti. Questo primo motore immobile, in quanto privo di potenza, ò anche privo di materia ed ò da Aristotele identificato con la divinità . Da ciò segue una struttura gerarchica del cosmo, poichè dall’unico motore immobile “si dirama” l’intero universo: la metafora del diramarsi ò impiegata da Aristotele anche in sede biologica per spiegare il rapporto tra le vene e il cuore, che ò un rapporto di unione tale per cui le vene si diramano dal corpo senza distaccarsene; similmente, il motore immobile non ò staccato dal mondo, e l’ universo stesso non ò che una totalità  in movimento incessante. L’identificazione del motore immobile con la divinità  non implica tuttavia un rapporto provvidenziale tra quest’ultima e il mondo, come invece era nel Timeo: il dio di Aristotele, lungi dall’organizzare provvidenzialmente il mondo, sta fermo ed ò causa finale del moto del “primo mobile”, ovvero del “cielo delle stelle fisse”, che a lui tende come al proprio fine. In accordo col libro XII della Metafisica, Aristotele sostiene nel libro VIII della Fisica che il motore immobile deve essere presupposto come causa in grado di spiegare il moto del mondo: la divinità  muove il mondo stando ferma, ovvero causa il moto dell’universo come causa finale (giacchè, se fosse causa efficiente, sarebbe essa stessa in movimento), poichè a lei tende – come l’amante verso l’oggetto amato – il “primo cielo”. Ma se la divinità  ò immobile, in che cosa consiste la sua attività ? Essendo il pensiero la migliore attività  in assoluto, la divinità  non farà  altro che pensare (essa ò, in questo senso, la proiezione a livello cosmico del filosofo) e, più precisamente, non farà  altro che pensare a se stessa, poichè, se pensasse ad altro, ritornerebbe quella nozione di potenza che abbiamo bandito dalla sfera divina: dio ò per Aristotele nohsiV nohsewV (“pensiero di pensiero”). In netta opposizione all’atomismo e alla sua infinità  dei mondi, Aristotele difende a spada tratta l’unicità  del mondo: il mondo ò uno ed eterno, assolutamente incorruttibile (l’errore del Timeo ò ravvisato nell’aver posto il mondo come generato e, insieme, eterno, senza tener conto che il generato ò necessariamente perituro). In difesa dell’unicità  del mondo, Aristotele dice – nel De caelo – che, se ci fossero altri mondi, essi sarebbero necessariamente costituiti dagli stessi quattro elementi che formano il nostro; ma allora tali elementi tenderebbero a disporsi nei luoghi naturali del nostro mondo, cosicchè se ne deve concludere che tutta la materia ò già  contenuta nel nostro unico mondo. Commento Libro I Nel primo capitolo dell’opera, Aristotele esordisce asserendo che vi ò scienza soltanto laddove vi ò conoscenza dei principi, degli elementi e delle cause: poichè la fisica ò una scienza, allora anch’essa dovrà , di necessità , conoscerli. Sicchò vedere le cose nel loro manifestarsi fenomenico non ò ancora una forma di sapere in senso pieno, pur avendo una sua dignità  nel processo cognitivo: occorre invece individuare con precisione quei principi insiti nelle cose stesse che, se colti, guidano la nostra conoscenza, che sarà  dunque immanente alle cose perchè immanenti ad esse sono i principi stessi (la critica a Platone ò evidente). Per natura, il processo conoscitivo muove da ciò che ò più conoscibile per noi a ciò che ò più conoscibile di per sè: e ciò che per noi ò dapprima più conoscibile ò l’insieme confuso, ossia l’indifferenziato: solo in un secondo tempo, grazie alla scoperta dei principi, degli elementi e delle cause, si può pervenire alla conoscenza dell’articolato e del differenziato, che ò più conoscibile di per sè. L’ambito dell’indifferenziato a cui qui Aristotele allude ò quello dell’esperienza sensibile e della sensazione, che sono le vie conoscitive più immediate e, in ogni caso, da non rigettare: come Aristotele spiega nel De anima, la conoscenza sensibile degli oggetti ò assolutamente veritiera, almeno per i “sensibili propri” di ciascun senso: infatti, quando gli occhi vedono il giallo, lo percepiscono secondo verità , e ciò in virtù del fatto il giallo in potenza diviene giallo in atto e, al contempo, gli occhi, da veggenti in potenza, diventano veggenti in atto. E’ pur vero che un margine d’errore si ha quando nel processo conoscitivo sono coinvolti più sensi, come quando si percepiscono oggetti in movimento. Da tutto ciò appare ovvio che la conoscenza non può che partire dalla sensazione: dalla reiterazione della sensazione sorge l’esperienza, che ò appunto una collezione di sensazioni che mi portano a conoscere il “che” delle cose. Ma l’esperienza tende ancora ad avere carattere indifferenziato e non connesso casualmente, ragion per cui ò opportuno spingersi al di là  di essa. Il fatto che ciò che per noi ò inizialmente più chiaro sia in realtà  confuso e indistinto ò da Aristotele avvalorato con due esempi calzanti: i bambini, nei loro primi anni di vita, chiamano “mamma” tutte le donne indistintamente e solo col passare del tempo introducono distinzioni; similmente, la parola “cerchio” può essere riferita a più cose, prima che se ne dia una definizione. Il primo capitolo, dunque, chiarisce come la conoscenza scientifica abbia per oggetto principi, elementi e cause e come dunque anche la fisica – che ò scienza a tutti gli effetti – non si sottragga a ciò. La conoscenza procede dal più chiaro per noi al più chiaro per natura: ma il più chiaro per noi ò un caotico indistinto privo di differenziazioni, ò l’esperienza allo stato puro; spetta alla scienza – che ò conoscenza del “perchè” – porre ordine, in forza della conoscenza dei principi, delle cause e degli elementi. Il capitolo secondo si interroga su quali effettivamente siano tali principi: con un procedimento tipico del suo filosofare, Aristotele fa ora una ricognizione sulle tesi sostenute in merito dai predecessori, per desumere da esse quanto hanno di buono e per criticare ciò che esse presentano di inaccettabile. A tal proposito, egli elabora una vera e propria “matrice dei principi”, prospettando tutte le possibili posizioni sulla questione: chi sostiene che il principio ò uno, può assumerlo come immobile (l’eleatismo) o in movimento (gli Ionici); chi sostiene che i principi siano molti, può assumerli come infiniti (Anassagora) o finiti (Empedocle). Si tratta ora di considerare una per una queste possibili posizioni storicamente sostenute dai predecessori: quella che resisterà  al fuoco della confutazione, sarà  quella autentica, giacchò, oltre ad esse, non ve ne sono altre. Quella che Aristotele qui intraprende ò un’indagine dialettica, volta a mostrare l’inconsistenza delle tesi sostenute dagli altri: in particolare, egli prende le mosse dall’eleatismo, che, con la sua presa di posizione, aveva segnato un’intera epoca: la presa di posizione parmenidea aveva destituito di ogni legittimità  la fisica, bollando come doxastica ogni presunta conoscenza di questo mondo; la via di quanti parlano di divenire, perchè abbagliati dai sensi, ò per Parmenide l’erronea via della doxa, quella via in cui si finisce per mescolare indebitamente l’essere al non essere ammettendo il divenire. Dalla confutazione dell’eleatismo dipende la vita della fisica, come Aristotele sa bene: e non ò un caso che egli, spesso benevolo verso chi l’ha preceduto, riveli un’acuta insofferenza (come ha rilevato Emanuele Severino) verso Parmenide. Stando all’asserto parmenideo, “ciò che ò, ò uno e immobile”: propriamente, non ò una tesi sui principi, ma, di fatto, contiene una presa di posizione su di essi. E’ dunque un dovere prioritario smascherare l’eleatismo, se si vuole salvare la fisica. Ma non ò impresa facile, poichè l’asserto parmenideo pare incrollabile sul piano logico: per vincere la battaglia, Aristotele deve far ricorso a tutto il proprio armamentario filosofico, dalla nozione di categorie a quella di potenza/atto (il che avvalora la tesi secondo cui la Fisica sarebbe uno scritto composto nella maturità ). In primo luogo, Aristotele valuta il tenore degli argomenti eleatici: “ricercare se l’essere ò uno e immobile non ò fare ricerche sulla natura”, egli rileva, poichè la natura – come attesta l’induzione – ò il regno della varietà  e del movimento; indagare alla maniera eleatica equivale a eliminare i principi: la nozione stessa di principio, infatti, comporta dualità , in quanto implica un principio e, accanto ad esso, la cosa di cui ò principio; sicchò gli eleati, riducendo all’unità  i principi, finiscono per neutralizzare la fisica stessa, giacchè non ò più possibile render conto del mutamento nè della pluralità . Aristotele sostiene di trovarsi nella stessa posizione di un geometra a cui sono contestati i principi della sua scienza: egli non deve chiarire i suoi principi a chi li nega, ma ciò non di meno deve fare ricorso ad una scienza comune (la dialettica) con cui smascherare in maniera confutatoria (elegktikwV) il negatore di tali principi, giacchò essi sono discutibili solo “dall’esterno” (in quanto mai dimostrabili). In questo modo, ossia confutando la negazione eleatica dei principi, procederà  Aristotele: egli mostra come tanto Melisso quanto Parmenide conducano ragionamenti “inconcludenti” (asullogistoi) e sostenuti “per amor di discussione” (logou carin), cosicchè la loro viene a configurarsi come una posizione eristica, volta cioò – per usare la riuscita immagine dell’Eutidemo platonico – a stordire a suon di pugni in faccia l’avversario, con una verbosità  vuota e capziosa. Essendo Melisso oltremodo “rozzo” (fortikoV) – e tale aggettivo infamante lo accompagna per tutto il primo libro – nell’argomentare, sarà  bene partire da lui: innanzitutto, Aristotele ci chiede di assumere per il momento (in seguito lo dimostrerà ) che le cose di natura sono – o tutte o alcune – in movimento, come attesta l’induzione. Già  qui la tesi eleatica – che va contro l’induzione – potrebbe dirsi sconfessata: ma lo Stagirita non si accontenta e, per riportare una vittoria su tutta la linea, accampa altri argomenti. Ancor prima di appuntare la sua attenzione sul “rozzo” Melisso, egli fa un rilievo sull’eleatismo in generale: poichè “l’essere si dice in molti modi” (to on legetai pollacwV), in che senso, per gli eleati, tutte le cose sono una? L’uno in questione ò sostanza, qualità , quantità , o altro? Tutte le cose sono un’unica sostanza o, piuttosto, l’uno ò una sola qualità  (bianco, caldo, freddo, ecc)? Aristotele sta qui facendo leva sulla propria dottrina delle categorie, dietro alle quali c’ò la fondamentale distinzione del verbo essere che nella categoria della sostanza ha valore esistenziale (ad es. Socrate ò), mentre in tutte le altre ha valore copulativo (Socrate ò bianco, ò alto, ò di 30 anni, ecc): la distinzione dei due valori – esistenziale e copulativo – del verbo essere ò in realtà  una scoperta del Sofista platonico, in cui era salvata la molteplicità  del mondo delle idee a non quella del mondo reale, che veniva a configurarsi come un mostruoso miscuglio di essere e di non-essere, secondo la bella immagine (Repubblica, V 478 e seguenti), secondo cui c’ò un uomo che non ò un uomo (ò un eunuco), che tira una pietra che non ò una pietra (una pomice) ad un uccello che non ò un uccello (un pipistrello) che sta su una pianta che non ò una pianta (una canna). Aristotele, dal canto suo, grazie alla coppia potenza/atto e alle categorie, salva l’intera realtà  nella sua variegata pluralità : il mondo quale ci si manifesta nella natura ò in senso pieno e il suo essere si dice in una pluralità  di modi (pollacwV), tutti in qualche modo connessi fra loro, così come si dice che ò salutare tanto una cura quanto l’aria di mare o una lezione (in tutti i casi v’ò riferimento ad un quid di unico). Se gli eleati dicono che ciò che ò (to on) ò uno nel senso di qualità  o di quantità , allora si cade nell’assurdo, poichè la qualità  e la quantità  esistono solamente nella misura in cui si riferiscono ad una sostanza; e ciò vale anche nella sfera linguistica, oltre che in quella fisica (in virtù del fatto che pensiamo e predichiamo l’essere che ò): si può infatti dire che Socrate ò bello o che ò musico nella misura in cui v’ò un soggetto (Socrate) a cui i predicati (l’esser bello e musico) ineriscono. Se invece per gli eleati ciò che ò, ò come sostanza, allora non potrà  avere alcuna quantità  o qualità , sennò non sarebbe più uno, bensì sarebbe due (appunto la quantità  e la qualità ). In questo modo, crolla la tesi eleatica: non ò ragionevole affermare che ciò che ò sia uno. Melisso, nella sua rozzezza, ò precipitato in assurdità  anche maggiori: egli sostiene che ciò che ò, ò infinito (apeiron), ossia illimitato, giacchò se avesse limiti, allora avrebbe qualcosa fuori di sè e quel qualcosa sarebbe il non-essere. Stando così le cose – nota Aristotele -, ne consegue che ciò che ò ò una quantità , dal momento che l’infinito rientra in tale categoria: ma se ò solo una quantità , allora non esiste (poichè non v’ò quantità  senza sostanza); se invece ò quantità  di una sostanza, allora non ò più uno (ò quantità  ed ò sostanza, ossia ò due cose). Del resto, come l’essere, anche l’uno si dice in molti modi: si può infatti dire che una cosa ò una nel senso della continuità  (ò cioò un aggregato unitario comprendente al proprio interno diverse parti), oppure dell’indivisibilità  (tali erano gli atomi di Democrito: assolutamente indivisibili), o ancora della definizione (“l’uomo ò animale bipede”: la definizione, pur essendo unitaria, ricomprende al proprio interno varie parti). In quale di questi sensi, allora, gli eleati sostengono l’unicità  dell’essere? Nel senso dell’indivisibilità ? Se così fosse, allora l’ essere sarebbe uno in senso assoluto e non potrebbe essere infinito o finito (quale lo intendeva Parmenide): più in generale, non potrebbe avere alcuna qualità  o quantità . E’ allora uno nel senso della continuità ? In tal caso, non sarebbe più uno, giacchò sarebbe un coacervo di parti tenute insieme. Sarà  dunque uno nel senso della definizione, come quando si dice che “l’ uomo ò animale bipede”? Se così fosse, gli eleati finirebbero per sostenere la stessa posizione confusionaria di Eraclito: se infatti per definizione tutto ò uno, allora ne segue che “uomo” ò “cavallo”, “buono” ò “cattivo”, ecc. Ci si troverebbe insomma costretti ad ammettere la coincidenza degli opposti fatta valere da Eraclito e ne emergerebbe – per dirla con Hegel – una notte in cui tutte le vacche sono nere. L’unica soluzione possibile pare allora, in siffatta prospettiva, quella di Antistene e dell’oikeioV logoV (“discorso appropriato”), per cui sarebbero possibili solamente “giudizi identici” del tipo: “uomo ò uomo”, “bello ò bello”, “Socrate ò Socrate”. Sul finale del capitolo, Aristotele fa una pausa, perchè consapevole dello spessore delle tesi eleatiche: esse sollevano problemi non solo per l’episthmh fusewV, ma anche per il linguaggio. Proprio per queste ragioni (in particolare per non contravvenire al divieto parmenideo), Licofrone – un sofista della seconda generazione e, dunque, particolarmente attento ai problemi linguistici – eliminò l’espressione “ò” dal giudizio, e molti altri, per non dire “l’uomo ò bianco”, dicevano “l’uomo biancheggia”. La soluzione che Aristotele avanza di fronte al gravoso ostacolo eleatico ò racchiusa in due punti centrali: in primis, si deve comprendere – sulla scia del Platone “parricida” di Parmenide – che il verbo essere ha due diverse valenze (una copulativa, l’altra esistenziale), per cui dire “il tavolo ò” ò cosa ben diversa dal dire “il tavolo ò rosso”; in secundis, si tratta di tenere a mente che l’essere e l’uno si dicono in molti sensi e che il divenire non implica quell’indebito passaggio dall’essere al non-essere e viceversa: il blocco di marmo che diventa una statua non passa dall’essere (marmo) al non essere, per poi tornare all’essere (come statua); esso invece passa dall’essere statua in potenza all’essere statua in atto. In questo modo, in forza dei concetti di potenza e di atto, ò aggirata l’aporia eleatica. Le cose sono molte per definizione (dire che “Socrate ò bello e musico” il bello e il musico sono due cose diverse, ma riferentisi entrambe alla medesima sostanza) e per divisione (una totalità  ò sempre una totalità  comprendente molte parti). Occorre poi operare una distinzione – rileva lo Stagirita – tra la “generazione assoluta” e la “alterazione”: caso di “generazione assoluta” ò quello della nascita di un vivente che viene generato: esso viene ad essere da qualcosa che in certo senso già  ò (ò in potenza) e che al contempo non ò (non ò in atto), senza che ciò implichi quel passaggio dal non essere all’essere stigmatizzato da Parmenide; la stessa alterazione (che si ha quando una sostanza muta le proprie qualità , come nel caso in cui “Socrate diventa musico”) comporta il permanere della sostanza e il mutare esclusivamente delle qualità  che le ineriscono. Perchè mai, poi, il rozzo Melisso ha sostenuto che l’essere ò uno e, per ciò stesso, immobile? Se anche supponiamo che l’acqua sia una, non ò forse lecito ammettere che essa si muova in sè? Melisso obiettava ai suoi contestatori che, se l’essere si muovesse, si muoverebbe verso ciò che non ò, ossia verso il non-essere: da ciò egli inferiva l’immobilità  assoluta dell’essere. Anche qui Aristotele obietta con un argomento ad personam: occorre operare una distinzione tra i casi in cui a muoversi ò il tutto (come nel caso in cui cammino) e quelli in cui a muoversi ò la parte (come nel caso in cui, stando fermo, muovo il braccio); da ciò egli fa seguire che anche ciò che ò uno può muoversi, a patto che si muova in sè (come il braccio rispetto al corpo). Inoltre l’essere non potrà  nemmeno essere uno neppure per specie (eidoV), giacchè “specie unica” ò quella del cavallo, del leone, dell’uomo ecc. e se l’essere fosse uno nel senso della specie, allora tutte le cose sarebbero cavalli, o leoni, o uomini. Rispetto a quella eleatica, ò assai più corretta la via battuta dai fisici, ad avviso dei quali l’uno ò principio materiale stante alla base di ciò che ò e diviene: dai moti dell’arch materiale deriva la realtà  nella sua molteplice interezza. Dopo aver distrutto le tesi accampate da Melisso, Aristotele passa all’esame di quelle fatte valere dal venerando Parmenide, il cui “scioglimento” (lusiV) si risolve nel mettere in luce come il suo ragionamento sia asumperatoV, ossia tale da non addivenire ad una conclusione cogente. Falsa ò la premessa per cui to on legetai aplwV, e altrettanto false e fuorvianti sono le conclusioni raggiunte: erra Parmenide nel sostenere che l’essere si dice in un solo modo, giacchò l’induzione attesta che esso si predica in più modi. A questo punto, Aristotele ci invita a supporre che to on sia uno nel senso di essere bianco: anche in questo caso, non se ne potrà  inferire che v’ò una sola cosa bianca, poichè in natura le cose bianche sono tante; ne segue allora che la nozione di bianco non ò uno nè per continuità  (si riferisce infatti a molte cose) nè per definizione (il bianco si predica sempre di una sostanza: non esiste il bianco, bensì esistono sostanze bianche). Non avendo colto la distinzione tra essere come sostanza ed essere come predicato, Parmenide ò facilmente confutabile: egli confonde gli accidenti (sumbebhkoi) con la sostanza (upokeimenon), azzerando la possibilità  di far entrare ciò che ò in una qualunque mediazione; il riconoscere stesso che to on ò un sostrato con accidenti significa parlare pollacwV dell’essere. Liquidate le tesi eleatiche nei capitoli secondo e terzo, Aristotele passa ad esaminare quelle dei fisici in senso proprio, rilevando, in apertura del capitolo quarto, che sussistono due grandi scuole di pensiero sulla natura: da un lato, v’ò chi pone un sostrato unico e fa derivare il molteplice dai processi di modificazione che coinvolgono quest’unico sostrato: ò questo, ad esempio, il caso di Anassimene, che ha ravvisato nell’aria l’arch originario, e ha poi individuato nella rarefazione e nella condensazione i due stati contrari assumendo i quali il principio origina l’intera realtà . L’aver ravvisato nella materia il principio del reale ò un aspetto altamente positivo – nota Aristotele nel primo libro della Metafisica -, anche se il limite di questi antichi filosofi dev’essere scorto nel loro essersi limitati alla causa materiale, senza neppure intravedere le altre tre. Al pari dell’upokeimenon ammesso da Aristotele, l’arch riconosciuto da questi antichi permane stabilmente e identico a sè al di sotto dei mutamenti che interessano le sue proprietà , cosicchè nulla nasce, nulla perisce e tutto si trasforma. Così Socrate diventa bello e musico senza che il sostrato vari: a cambiare non ò la sostanza, ma le qualità  che ad essa ineriscono. La seconda grande scuola di pensiero sulla natura ò quella costituita da quanti hanno ammesso un originario sostrato indistinto da cui sarebbero nate in seguito le diverse articolazioni del reale: tale era l’apeiron di Anassimandro, il migma di Anassagora e il caos primitivo ammesso da Empedocle. Secondo costoro, tutte le cose sono già  presenti nell’indistinto iniziale ed emergono dalla struttura profonda della realtà  in virtù di un processo che qui Aristotele qualifica come “secrezione”. Tralasciando Anassimandro, lo Stagirita si concentra su Empedocle e su Anassagora: il primo ha fatto derivare dall’indistinto originario quattro “radici” che, dotate delle caratteristiche parmenidee dell’immutabilità  e dell’eternità , si combinano e danno vita, per processi di generazione e corruzione, al reale quale ci si manifesta; dal canto suo, Anassagora ha fatto derivare dall’ indistinto originario infiniti “semi”. Aristotele, a questo punto, deve confutare una delle due tesi: ed egli non esita ad attaccare quella anassagorea degli infiniti principi, mettendo in evidenza le assurdità  che derivano dalla sua ammissione. Ne segue, allora, che la tesi vera ò quella di Empedocle, l’unica che ha retto al fuoco della confutazione: i principi non sono nè uno nè infiniti, bensì molti; e in seguito lo Stagirita spiegherà  quanti e quali sono. Se si assume un’infinità  di principi, come fa Anassagora, allora ciò che da essi deriverà  non potrà  in alcun caso essere un alcunchè di determinato e, pertanto, sfuggirà  sempre alla conoscenza. La tesi anassagorea, pertanto, deve essere rigettata. Improvvisamente e a sorpresa, Aristotele cita anche Platone, inserendolo a pieno titolo fra quanti hanno condotto indagini sulla natura: il che non può non cogliere alla sprovvista, in quanto – come ò noto – Platone non ha mai inserito, nei suoi dialoghi, la fisica fra le scienze; in realtà , tutto si spiega se teniamo a mente che quello che qui Aristotele ci presenta non ò il Platone scritto dei dialoghi, ma ò invece quello degli agrafa dogmata, ossia delle “dottrine non scritte” dibattute oralmente nell’Accademia (e dunque udite da Aristotele stesso). In particolare, stando a quanto Aristotele qui (ma anche in Metafisica, I) riferisce, Platone avrebbe agito in maniera simile ai fisici: come materia, egli avrebbe assunto il grande e il piccolo, come forma avrebbe invece assunto l’ uno. E’ questa quella che ò passata alla storia come la dottrina non scritta della “diade indefinita”, secondo cui al Bene – coincidente con l’unità  assoluta e con la forma – sarebbe contrapposto il Male, coincidente con la dualità  e l’indeterminatezza della materia. Tuttavia vi sono anche notevoli differenze rispetto ai fisici ionici: se questi assumevano un solo principio materiale e due diverse forme, Platone, invece, ammette un solo principio formale e ben due principi materiali. Così facendo, però, egli scivola in assurdità  incredibili: se infatti si ammette la duplicità  della materia, nello spiegare il mutamento si dovrà  riconoscere che essa ò passata da uno stato ad un altro, ossia si ò annullata, il che ò assurdo. Molto più corretta ò la posizione dei fisici, delineando la quale Aristotele chiarisce anche la propria: occorre ammettere un numero finito di principi, nella fattispecie tre, giacchè se se ne ammette uno (alla maniera eleatica) non si può render conto della natura, se se ne ammettono infiniti (sulle orme di Anassagora) tutto diventa inconoscibile e indeterminato, se se ne ammettono solo due allora, nel divenire, uno dei due si annulla. Tre ò il numero dei principi: in particolare essi sono la materia (ulh), la forma (eidoV) e la privazione di forma (sterhsiV). La materia ò sempre materia dotata di forma in atto, ma in potenza può assumere la forma contraria: così un blocco di marmo in potenza può essere tanto una statua quanto un tavolo; assumendo la giusta forma, cessa di essere tavolo (in ciò sta la privazione della forma) e diventa statua in atto. Ogni sostrato ha in atto una data forma e non la sua opposta, sicchò v’ò privazione (sterhsiV) di quest’ultima: così, Socrate ò bianco in atto e, dunque, non ò nero (solo in potenza possono convivere le due forme contrarie). Libro II Nel secondo libro della Fisica Aristotele entra in medias res ed indaga sulla natura, forte delle acquisizioni guadagnate nel primo libro: per chiarire che cosa si debba intendere per natura, egli instaura un efficace raffronto con l’ambito delle tecnai, un campo indubbiamente a noi più vicino; anche qui, vale l’assunto secondo cui la conoscenza deve procedere da ciò che ò più chiaro per noi (in questo caso, le tecniche) a ciò che ò più chiaro per natura (la fusiV). L’accostamento della natura al mondo della tecnica non ò una novità  in sede filosofica: già  Platone vi aveva fatto largamente ricorso, allorchè nel Timeo e nelle Leggi (libro X) qualificava il mondo stesso come un’opera d’arte infallibilmente perfetta, in quanto realizzata da un artefice divino. Dal canto suo, Aristotele capovolge il modello platonico e studia la natura in analogia con la tecnica non già  sulla base di una presunta identificazione tra le due, bensì sulla base della loro comune fallibilità : infatti, tanto la tecnica quanto la natura non sono sorrette da fili divini e, per ciò, sono suscettibili di errori; mirano sempre al raggiungimento di un fine identificatesi con il bene, ma non sempre riescono a concretizzarlo, giacchè ostacolate dall’indeterminatezza recalcitrante della materia. E così, come un medico può sbagliare nel somministrare una data medicina, similmente la natura può commettere errori, dando vita a vere e proprie mostruosità . Per chiarire che cos’ò la natura, nel capitolo primo Aristotele opera un’importante distinzione tra le cose che sono “per natura” e quelle che sono “per tecnica”: per natura sono gli animali e le loro parti, le piante, gli uomini e gli elementi; e ciò che non ò per natura, ò per tecnica: infatti, un tavolo o un mantello sono il frutto della produzione da parte di qualcosa di ad essi esterno (l’artigiano) ed ò da quel qualcosa che dipende il loro essere e il loro non essere. Al contrario, le cose di natura hanno in se stesse il principio del moto e della quiete, ossia possono autonomamente spostarsi (tale ò il caso dell’uomo che cammina), accrescersi e diminuire, alterarsi, ecc. Aristotele qualifica questa innata tendenza delle cose “per natura” a muoversi con il termine ormh, che letteralmente significa “impulso”, “tendenza”: ciò sta a significare che “le cose per natura” hanno in sè tale impulso a mutare e si tratta di una tendenza non accidentale, ma che anzi appartiene prwtwV kai kata auto (in maniera originaria e di per sè). Per meglio chiarire questo punto oscuro, Aristotele paragona la natura a un medico: quando questi cura se stesso, lo fa in maniera accidentale (si trova infatti per accidente ad essere e medico e paziente), mentre quando cura gli altri ciò avviene in maniera propria e non accidentale; e la natura si trova per l’appunto nelle stesse condizioni di un medico che cura gli altri: essa possiede dunque le proprie caratteristiche in maniera non accidentale. Nelle opere biologiche, l’immagine della natura come un medico ritorna, ma stravolta, giacchè in tali scritti Aristotele va accostando la natura ad un medico che cura se stesso, a significare che la natura, lungi dall’essere infallibile (quale invece la concepiva Platone), commette errori ma sa anche curarli da sè, proprio come il medico che si auto -medica. Ben diversa ò la situazione per quel che concerne gli oggetti della tecnica: essi hanno il principio del moto e della quiete non in sè, bensì in un oggetto esterno, come rivela il caso del letto che si muove esclusivamente se mosso dall’ artigiano. Così concepita, la natura ò il regno della mobilità , della processualità  e dell’attività . Le cose che sono per natura possono essere o secondo natura (kata fusin) o contro natura (para fusin), così come – ritorna l’analogia con le tecniche – un paio di scarpe possono essere prodotte o a regola d’arte o in disaccordo con l’arte, nel caso in cui abbiano la suola mal fatta; in maniera del tutto analoga, nella riproduzione umana – che ò un processo di natura – può nascere un uomo come natura richiede (e ciò avviene epi to polu) oppure può nascere un mostro con due cuori o con una mano avente quattro dita anzichè cinque. Ciò avviene in virtù del fatto che in natura v’ò un margine di accidentalità  dipendente dalla materia, la quale non sempre si lascia plasmare dalla forma: in questa maniera, ò riconfermata la tesi antiplatonica secondo cui la natura non ò un’opera d’arte perfetta, ma ò piuttosto l’insieme delle cose che sono per natura e che mirano al meglio (ossia all’ acquisizione della forma che ad esse si addice) e che non sempre lo raggiungono perchè ostacolate dalla materia. Così, epi to polu l’uomo nasce dotato di una data forma, ma ciò non esclude una zona d’ombra entro la quale il processo generativo devia e nasce un mostro rientrante anch’esso nelle cose di natura, ancorchè nell’accezione di “contro natura”. E’ questo il “finalismo imperfetto” (perchè non sempre tale da realizzarsi) che Galeno ravvisava in Aristotele, preferendo in forza di ciò Platone con suo modello provvidenzialistico. Un ipotetico oppositore potrebbe chiedere ad Aristotele di dimostrare l’esistenza della natura. Ma – chiediamoci – ò dimostrabile che ci sia la natura? Aristotele risponde negativamente: una siffatta dimostrazione sarebbe ridicola e, insieme, assurda, in primis perchè l’evidenza stessa attesta l’esistenza di una pluralità  di enti forniti del principio del movimento e, in secundis, perchè chi volesse intraprendere tale dimostrazione si troverebbe nella stessa condizione di un cieco che volesse disquisire sui colori, rivelando di non saper distinguere tra evidenza e non evidenza; come si può, infatti, dimostrare l’evidente (la natura) attraverso ciò che evidente non ò? Riconosciuta dunque l’indimostrabilità  della natura, Aristotele si interroga su quanti e quali siano i sensi in cui di essa si può parlare. Gli antichi ionici hanno tutti ammesso che la natura si identificasse con la materia; ad esempio, il sofista Antifonte, nel suo scritto Sulla verità , spiegava che se si seppellisse un letto di legno e, per putrefazione, potesse nascere qualcosa, allora ne nascerebbe del legno, e non un letto: da ciò egli evinceva come, propriamente, la natura ò la materia, mentre la forma si riduce al rango del nomoV. Dal canto suo, Aristotele non nega affatto che la natura sia la materia, ma si spinge oltre: a suo avviso, infatti, l’ assunzione di una forma da parte della materia non ò un qualcosa di accidentale (come credeva invece Antifonte), ma ò anzi l’ attualizzazione di una determinata potenzialità , il realizzarsi in senso pieno del fine per cui il processo si ò avviato. In questo senso, lo Stagirita si colloca a metà  strada tra il materialismo e l’idealismo, senza abbracciare integralmente nessuna delle due posizioni. Come un prodotto della tecnica ò tale solo se si realizza in accordo con la tecnica stessa e acquisisce in atto la forma (cioò il fine), ugualmente i prodotti della natura sono in accordo con la natura stessa quando acquisiscono la forma (ossia il fine) che ad essi compete per natura; e così, prodotti come ossa o sangue non sono ancora propriamente natura fino a che non passano all’atto, acquisendo la giusta forma. Ne segue allora che natura ò soprattutto la forma, giacchè si può parlare in senso pieno di prodotti naturali solo quando essi sono in atto, ossia quando sono dotati di forma, e ciò in base all’acquisizione aristotelica (tematizzata in Metafisica, IX) secondo cui l’atto si identifica con la forma, la potenza con la materia. La potenzialità  della materia, infatti, ò tale per cui essa può essere diversamente da come dovrebbe ed ò per questa ragione che può capitare che nascano mostri. Nell’esempio del letto addotto da Antifonte, si può per assurdo ammettere che sia vero che, in senso proprio, la tecnica ò materia; ma nel caso della natura ciò non ò valido, poichè dall’uomo non nasce materia informata, bensì nasce l’uomo (anqrwpoV genna anqrwpoV, “uomo genera uomo”, ama ripetere Aristotele), che ò appunto materia formata. Il fatto stesso che la fine e il fine (dunque la forma) del prodotto coincidano, avvalora ulteriormente la tesi secondo cui la natura ò forma. Mentre la medicina e, in generale, le tecniche mirano a produrre qualcosa di esterno (la statuaria produce statue, la medicina la salute, ecc), dal canto suo “la natura ò una via verso la natura”, il che sta a significare che in natura il processo va da natura a natura (l’uomo genera l’uomo, il cavallo il cavallo, ecc). Si apre a questo punto un problema non da poco: che dobbiamo fare della “privazione di forma” ammessa nel primo libro come terzo principio accanto alla forma e alla materia? Su questo punto Aristotele ò come non mai enigmatico: “anche la privazione di forma ò, in certo senso, forma”, egli dice, forse a sottolineare come anch’essa sia determinante nel processo, giacchè se si dice “Socrate non ò caldo” (dove il “non essere caldo” ò privazione della forma) ò come se stessi effettuando una determinazione, ancorchè in senso negativo. Per questa via, ò recuperata e mantenuta valida anche la privazione della forma. Riconoscere in natura la priorità  della forma sulla materia non significa ammettere che il fisico debba limitarsi a studiare le forme: la natura infatti si dà  sempre come forme calate nella materia, ossia come “sinoli” di materia e forma, ragion per cui il fisico dovrà  per l’appunto occuparsi di composti di materia e forma. Per meglio chiarire che cosa sia la natura, Aristotele traccia – nel secondo capitolo – una serie di distinzioni tra la fisica, la matematica e la filosofia prima, come egli fa anche nel libro sesto della Metafisica (che forse ò coevo). Nel VI libro della Metafisica, tuttavia, il referente della partizione delle scienze ò la “filosofia prima” (là  identificata con la teologia), cui in questo secondo capitolo del libro II della Fisica dedica poco spazio; molto ne dedica invece alla matematica e alla fisica, concedendosi anche il lusso di dileggiare gli “amici delle idee” (ovvero i Platonici), chiamandoli con distacco “loro”. Come ò noto, nel VI della Metafisica, Aristotele esaltava la superiorità  della filosofia prima sulle altre scienze in forza della sua universalità  e finiva poi per farla coincidere con quella teologikh episthmh avente per oggetto niente poco di meno che Dio. Ora, in questo passo della Fisica Aristotele asserisce che la metafisica si occupa non già  di Dio, bensì delle forme, rinnegando quanto aveva a suo tempo detto nel VI della Metafisica: come si può spiegare questa mutata prospettiva? Forse ammettendo che lo Stagirita, ai tempi del VI della Metafisica, fosse ancora nella cerchia dei Platonici e, dunque, portato ad ammettere la separazione tra forma e materia e a dare ampio spazio all’investigazione teologica. Quando compone la Fisica, egli si ò ormai definitivamente congedato dal platonismo e, pertanto, egli torna a tracciare le differenze tra le tre scienze teoretiche alla luce delle nuove acquisizioni da lui guadagnate: le tre discipline – egli ora argomenta – si atteggiano diversamente verso la natura e il crinale della distinzione tra le tre ò da individuarsi nella nozione di separazione. La fisica e la matematica paiono, prima facie, avere un comune campo d’indagine e di applicazione, giacchò entrambe proiettano la loro indagine sulle figure fisiche: eppure, se esaminate in trasparenza, esse rivelano notevoli differenze nella misura in cui la matematica studia quelle proprietà  dei corpi (studiate anche dal fisico) facendo astrazione dai corpi naturali, ovvero studiandole come se fossero forme a sè stanti (dai corpi quadrati ricava, per astrazione, la forma di quadrato e opera su di essa); ciò significa che il matematico separa le forme dai corpi (che sono dotati di moto e di materia) e le ipostatizza, cosicchè egli finisce per indagare sull’essere non in movimento. Dal canto suo, il fisico studia forme nella materia, ossia corpi materiali e dotati di moto. A questo punto, tracciata la distinzione tra fisica e matematica, Aristotele scocca i suoi dardi contro i sostenitori delle idee: anch’essi, alla stregua dei matematici, operano astrazioni, privando i corpi fisici delle loro proprietà  materiali e considerandoli come Idee (le quali, così intese, non sono se non sensibili considerati in sè e senza materia). Anch’essi, dunque, fanno astrazione, ma in maniera meramente inconsapevole e illegittima, dal momento che – rileva Aristotele – le forme non sono mai separabili, se non per “sottrazione” astrattiva (afairhsiV). Tra la matematica e la fisica vi ò uno stuolo di scienze intermedie, tutte degne di attenzione: vi ò la geometria, che studia le linee fisiche in maniera matematica; vi ò l’ottica, che studia in modo matematico la luce del sole; vi ò l’armonica, avente per oggetto i suoni, studiati su base matematica; e, infine, vi ò l’ astronomia, che investiga sui corpi celesti. Tutte queste discipline, collocate da Aristotele a metà  strada tra fisica e matematica, erano state dal Platone della Repubblica ascritte nel curriculum del filosofo. Resta ora da chiarire, in via definitiva, che cosa studi realmente la fisica: materia? Forma? O, piuttosto, sinoli di materia e forma? Se la fisica studia sinoli, allora studia la natura sia come materia sia come forma. Ma indagare e sulla materia e sulla forma ò compito di una o di due diverse scienze? Se studiasse esclusivamente la materia, allora avrebbero ragione gli antichi fisici ionici, che avevano identificato la materia con la natura; ma – rileva Aristotele – se la tecnica imita la natura, allora si dovrà  assumere che la fisica studia sia la forma sa la materia. Infatti, nel campo delle tecniche, l’artigiano che deve produrre un artefatto, deve innanzitutto sapere con precisione cosa fare, ossia deve avere in mente la forma da conferire alla materia; parimenti, il fisico dovrà  considerare e la materia e la forma. Ne segue allora che la fisica ò la scienza avente per oggetto la natura intesa sia come forma sia come materia. L’acquisizione della forma, infatti, ò in ogni processo naturale il teloV cui tende il processo, avviatosi appunto per la realizzazione di un fine coincidente con l’acquisizione della giusta forma. Successivamente Aristotele argomenta che vi sono tecniche “che fanno la materia” (ò il caso del vasaio che produce l’argilla con cui fabbrica il vaso) e tecniche “che plasmano la materia” trovandola già  esistente (ò il caso del fabbro che plasma il bronzo): questa distinzione rivela come le tecniche abbiano sempre e comunque a che fare con la materia, alla quale tentano di conferire una data forma e in ciò risiede il fine del loro operato. Similmente, anche la natura ha sempre a che fare con la materia, anche se, rispetto alla tecnica, presenta una notevole differenza: infatti, se nella tecnica la produzione degli oggetti non ò il fine ultimo, il quale invece siamo noi uomini (produciamo infatti sedie, tavoli, carri, ecc in vista del nostro utile), nel caso della natura, viceversa, il fine ultimo ò l’acquisizione della forma da parte delle cose che sono per natura. In questa maniera, lo Stagirita ha individuato due diverse nozioni di fine: da un lato, il “fine per sè”, e, dall’altro, il “fine per noi” (coincidente con l’utile); così dicendo, egli fa crollare il mito dell’antropocentrismo greco, secondo cui l’intera attività  della natura avverrebbe, al pari di quella tecnica, in vista dell’uomo. Inoltre Aristotele – sulla scia del Platone del Cratilo – opera un’altrettanto importante distinzione tra “tecniche di produzione” e “tecniche d’uso”: tecnica di produzione ò quella del falegname, il quale, per plasmare il timone, deve sapere che materiale impiegare e quale forma conferirgli; tecnica d’uso ò invece quella del timoniere, il quale deve sapere come usare il timone. Pur essendo più sfumata che in Platone, anche in Aristotele ò in certa misura presente un’assiologia in forza della quale le tecniche d’uso sono superiori a quelle di produzione, giacchò solo le prime conoscono realmente il fine e la forma dell’oggetto prodotto. Anche in sede etica Aristotele parla di gerarchia dei fini: in particolare, egli nota come le azioni umane tendano sempre a dei fini (al vivere bene, all’onore, ecc), tutti riferiti al fine supremo: la felicità . Dal capitolo secondo del secondo libro della Fisica emerge dunque in maniera definitiva quanti e quali siano gli oggetti studiati dal fisico: egli ò chiamato ad occuparsi di sostanze materiali (sinoli di materia e forma) in movimento, sicchè la sua indagine spazia dalla terra al cielo. Anche gli astri, infatti, rientrano nel suo campo di investigazione, in quanto sono anch’essi corpi in movimento, ancorchè si tratti di un movimento sui generis: se gli oggetti del mondo sublunare si muovono lungo direzioni contrarie (l’alto e il basso) ed ò proprio da ciò che nascono i movimenti contrari di generazione e corruzione, gli oggetti del mondo sopralunare, dal canto loro, sono composti di etere, una particolare materia non soggetta a corruzione e tale da spiegare il loro moto circolare. Per render chiaro il campo di indagine del fisico, Aristotele fa ricorso ad un’immagine enigmatica: “l’uomo genera l’uomo e anche il sole”; con ciò, egli intende dire che la generazione dell’uomo ò influenzata anche dall’ambiente e, non da ultimo, dagli astri. Addirittura nello studio proprio del fisico rientra anche l’indagine intorno alla salute e alla malattia, come Aristotele rileva nei suoi scritti a carattere biologico: così facendo, egli si oppone a quella tradizione inaugurata da Ippocrate nella Medicina antica, secondo la quale spetterebbe al medico lo studio della natura. Da quanto finora detto, appare chiaro che il fisico di Aristotele deve occuparsi della forma e della materia: ma – domandiamoci – sono sufficienti queste due cause o occorre trovarne altre? A rispondere a questo interrogativo provvede il capitolo terzo del libro secondo, dedicato alla celebre dottrina delle quattro cause: essa ò presentata (seppur cursoriamente) anche nel primo libro della Metafisica, ove lo Stagirita rimanda direttamente alla Fisica. Eppure, anche leggendo la Fisica si ha l’impressione che la dottrina delle quattro cause venga affrontata come se già  codificata altrove: si può pertanto supporre che si trattasse di una teoria a lungo discussa oralmente nel Liceo, anche alla luce del fatto che essa, pur con qualche differenza, ò presentata da Platone stesso nel suo Filebo. Sorvolando su tali questioni filologiche, passiamo all’esame della dottrina: come Aristotele aveva annunciato nell’ incipit dell’opera, si può avere reale conoscenza delle cose solo quando si ò in grado di mostrare le cause che le hanno portate ad essere; questa concezione sarà  espressa dai Medievali nella formula verum scire est scire per causas. L’esperienza, che nasce dalla reiterazione della sensazione, ci dice solo che (oti) il fuoco brucia o che i gravi cadono, senza mai spiegarci perchè (dia ti) ciò avvenga: non ci fornisce cioò la causa. Per rispondere alla domanda “perchè il fuoco brucia? ” o “perchè i gravi cadono? ” occorre individuare le quattro cause, aventi fra loro relazioni specifiche: la prima ò la causa materiale, la quale spiega di che cosa ò costituito l’oggetto in questione. La seconda ò la causa formale, che rende conto della forma assunta dall’oggetto in questione, cogliendone l’essenza, il ti hn einai (letteralmente “che cos’era l’essere”: l’imperfetto segnala la permanenza della sostanza). C’ò poi la causa efficiente, ovvero ciò ad opera di cui una cosa viene ad essere. Infine, v’ò la causa finale, ossia il fine in vista di cui la cosa viene ad essere. Dopo aver presentato le quattro cause e aver chiarito che non sono riducibili le une alle altre, Aristotele rileva che ogni cosa può avere più cause: ad esempio, causa della statua bronzea sono tanto il bronzo quanto lo scultore che l’ha prodotta. Inoltre, egli nota che la causa di una cosa può al contempo essere effetto di un’altra: ad esempio, la fatica ò causa (efficiente) dell’irrobustirsi, e l’irrobustirsi ò causa (finale) della fatica. Inoltre una causa può dare effetti opposti: così la presenza del nocchiero ò causa della salvezza della nave, mentre la sua assenza ò causa della distruzione della nave; col che, ò reintrodotta a pieno titolo la “privazione della forma”. Aristotele ci tiene poi a precisare i rapporti che legano indissolubilmente tra loro le quattro cause: affinchè si realizzi il fine, occorre che vi sia una materia e che acquisisca una data forma; ma, affinchè il processo si avvii, occorre che vi sia una causa tale da metterlo in moto: tale ò la causa del movimento (detta anche causa efficiente). In questo modo, lo Stagirita si contrappone all’intero mondo greco, che, seppur in maniere diverse, non aveva mai legato tra loro le cause: in particolare, Platone si era ostinato a tenere tra loro disgiunte la materia e la forma, senza accorgersi di quella loro unione resa possibile dalla causa efficiente. A questo punto, Aristotele inizia una discussione molto tecnica e particolareggiata sulle varie cause: in primis, egli distingue tra “cause generali” (ad esempio, l’arte medica) e “cause particolari” (ad esempio, il medico); in secundis, egli distingue tra “cause pro

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