Aristotele: Metafisica - Studentville

Aristotele: Metafisica

Riassunto dell'opera di Aristotele.

Non ò facile parlare della “Metafisica”. In primo luogo perchè non ci troviamo di fronte ad un’opera filosofica nel vero senso della parola, ma, piuttosto, ad un insieme di scritti di diverse età  riuniti insieme in parte dallo stesso Aristotele, in parte da editori successivi. In secondo luogo perchè, come tutte le opere aristoteliche che ci sono pervenute, si tratta di uno scritto non destinato alla pubblicazione, ma ad uso scolastico; ci troviamo cioò di fronte non ad un’opera definita, rivista ed esauriente, ma di fronte ad una raccolta di appunti stringati che Aristotele sviluppava poi a lezione. Insomma, più che di un’opera in senso pieno, si tratta di un vero e proprio zibaldone filosofico, privo di unità  letteraria e di unitarietà  di gestazione cronologica, ma unitario dal punto di vista speculativo – almeno nei suoi concetti portanti: alla tesi di Werner Jaeger, secondo cui la “Metafisica” costituirebbe un’inorganica unione di scritti diversi e composti in età  differenti si contrappone quella di Giovanni Reale, per il quale invece l’opera aristotelica ha una sua profonda unitarietà . Il primo grande problema in cui si imbatte il lettore della “Metafisica”, ò il titolo: non solo non fu Aristotele ad intitolare “Metafisica” quest’insieme di scritti, ma addirittura egli ignorava il termine, che fu invece adoperato dai suoi editori di età  successive. In particolare, pare che possa essere stato Andronico a coniare il termine e ad attribuirlo allo scritto aristotelico; in questo senso, ta meta ta fusika avrebbe un senso banalmente editoriale di “cose (meglio, “libri”) che vengono dopo quelli di fisica”; vale a dire che, nell’edizione di Andronico, gli scritti aristotelici di fisica occupavano una posizione preminente. Ma ò possibile anche una seconda interpretazione del titolo aristotelico, riferibile ad Eudemo di Rodi (discepolo di Aristotele stesso) ed esulante dal significato meramente editoriale voluto da Andronico. In questa nuova accezione, ta meta ta fusika si colora di un nuovo significato: meta in greco può sia significare “dopo” sia “sopra”, cosicchò il titolo dell’opera aristotelica vorrebbe dire “cose che stanno dopo quelle fisiche” o “cose che stanno sopra quelle fisiche”. Secondo la prima possibilità , parrebbe che il nostro spirito sia strutturato in maniera tale da indagare dapprima le realtà  fisicamente concrete e, solo in un secondo tempo (cioò dopo aver su di esse proiettato la propria indagine), passare all’investigazione su quelle non sensibili; si tratterebbe dunque di una scienza che viene dopo quella fisica. Nella seconda accezione, quella secondo cui meta starebbe a significare “sopra”, metafisica sarebbe l’indagine delle realtà  che stanno sopra quelle fisiche: si tratterebbe dunque della conoscenza di una realtà  trascendente. La sovrapposizione di questi due possibili significati (meta sia come “dopo” sia come “sopra”) ò a molti studiosi sembrata inopportuna, ma, se letta in trasparenza, pare alquanto adeguata, non solo perchè il testo aristotelico giustifica ampiamente entrambe le possibili traduzioni, ma anche perchè le due accezioni di meta sono, in qualche modo, compresenti e integrantisi a vicende. Il primo libro dell’opera, strutturata in quattordici libri, si apre con un incipit famosissimo, destinato a diventare quasi proverbiale (ancora Dante, nel Convivio, lo riprende con entusiasmo): panteV anqropoi tou eidenai oregontai fusei (tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza). Che tutti gli uomini aspirino al conseguimento del sapere, per loro inclinazione naturale, appare ad Aristotele evidente da una prova (shmeion) assolutamente inconfutabile: l’amore fine a se stesso che essi hanno per le sensazioni, alle quali non rinuncerebbero per nulla al mondo. Ammettendo per assurdo che esse non abbiano alcuna utilità , ci sarebbe qualcuno di noi disposto a privarsi delle sensazioni che l’accompagnano ogni istante? Certo che no. In particolare, quella che ò più cara agli uomini ò la vista, che non a caso ò quella che – più di ogni altra – ci permette di conoscere. Tutti gli animali sono forniti di sensazione: come precisa nel suo scritto sull’anima (Peri yuchV), tutti gli animali, anche i più semplici, sono almeno dotati del senso del tatto, indispensabile per la vita; in ciò risiede la differenza dal mondo vegetale, vivente anch’esso, ma incapace di avere sensazioni. La natura ha fornito ogni animale di sensazioni, ma non a tutti ha concesso che da esse nascesse la memoria, in virtù della quale si può imparare: ò infatti dall’ accumulo di dati nella memoria che ò possibile apprendere gradualmente. L’esser privi della memoria, però, non implica necessariamente la mancanza di intelligenza, tutt’al più comporta l’impossibilità  di imparare, impossibilità  che caratterizza anche tutti quegli animali che, seppur provvisti di memoria, mancano dell’udito. E’ questo il caso dell’ape: essa ò indubbiamente un animale intelligente, perchè agisce in vista di fini ben precisi, e per di più ò in grado di memorizzare immagini; ma, ciononostante, – specifica Aristotele – non ò dotata dell’udito e quindi non potrà  mai apprendere. L’uomo, dal canto suo, sta su un gradino superiore rispetto a tutti gli altri animali, i quali vivono di immagini sensibili e di ricordi, ma non di tecnica e di ragionamenti (tecnh kai logismoiV): dalla memorizzazione delle esperienze, gli uomini sono in grado di produrre la scienza e la tecnica, formando giudizi generali a partire da casi individuali. L’esempio che a tal proposito adduce Aristotele ò illuminante: se Callia ò affetto da una certa malattia, l’esperienza mi attesterà  che questa data cura ha precedentemente giovato ad altri uomini affetti dalla stessa malattia; la tecnica, invece, mi suggerirà  che a tutti i malati di quel tipo giova quella certa cura. Ma sembra che la differenza tra tecnica ed esperienza (differenza che risiede nel fatto che l’esperienza conosce i particolari, la tecnica gli universali) sia minima, quasi inesistente: e in effetti Aristotele nota come chi ha acquisito una nutrita serie di esperienze, pur mancando della teoria, può avere successo, di sicuro più di chi ò dotato di teoria ma privo di esperienza. Chi ha la teoria, conosce i casi universali; chi ha l’esperienza conosce invece i casi singoli e ha maggior successo in campo medico (ma non solo medico) perchè la cura ò sempre destinata ai casi singoli (Socrate, Callia, ecc: mai all’uomo, all’animale, ecc). Ciò non toglie, tuttavia, che la tecnica sia incommensurabilmente superiore rispetto all’esperienza, giacchò – a differenza di questa – rende conto delle cause ed ò trasmissibile attraverso l’ insegnamento: chi possiede esclusivamente l’esperienza, infatti, non sa nè render conto del perchè nè insegnare ad altri le proprie acquisizioni. Anche chi ne ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio alla data malattia ò stato efficace in una pluralità  di casi, ma non sa perchè e non ò in grado di trasmetterlo ad altri. Anche la tecnica, però, non rappresenta per Aristotele il vertice del sapere: questo perchò la tecnica, in tutte le sue manifestazioni, ò subordinata a fini diversi dalla conoscenza ed ò destinata – ciò vale per le prime tecniche inventate dagli uomini – a soddisfare i bisogni primari e a garantire la sopravvivenza. Il loro scopo ò dunque l’utilità , ma anche arti, inventate successivamente, come per esempio la musica, pur non avendo come fine l’utilità , hanno tuttavia un fine diverso dalla conoscenza: esse mirano infatti a produrre piacere o diletto. Al di sopra delle tecniche si colloca, dunque, una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa: il conoscere per il conoscere, ossia la conoscenza disinteressata, veramente libera, non subordinata a fini esterni ad essa. Questa ò la sofia, il sapere più alto, a cui mira la filosofia. Un autentico sapere che renda conto delle cause e dei princìpi e che non serva a nulla: proprio perchè libera da ogni vincolo di servitù, la sofia ò il sapere più nobile (degno di un Dio), che più d’ogni altro merita di essere seguito: “ò evidente che, come diciamo uomo libero colui che ò fine a se stesso e non ò asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, ò fine a se stessa” (982 b 25). Tanto più che, come Aristotele ripete anche in altri suoi scritti, l’uomo ò per natura “animale razionale”, che trova la propria massima realizzazione nel pensare. In tal modo, Aristotele ha elaborato una nozione di sapere ormai lontana dal significato arcaico di sapere come saper fare, cioò di un sapere legato e funzionale al produrre. Ma come nasce la filosofia? Aristotele, qui in sintonia con Platone, ravvisa nella meraviglia il motore dell’indagine filosofica: ò a causa della meraviglia (dia to qaumazein) che ò scattata l’esigenza di porsi domande e tentare di rispondere ad esse; ò di fronte a cose meravigliose (quali i fenomeni lunari e solari, o la generazione dell’universo) perchè inesplicabili che l’uomo ha cominciato ad esercitare la filosofia, dia to feugein thn agnoian (“per sfuggire all’ignoranza”). Di fronte ad una cosa sconosciuta, che desta in noi un senso di meraviglia, proviamo a rispondere essenzialmente a due domande: che cos’ò? perchè ò? E la filosofia nasce appunto come tentativo di fornire una risposta a queste imbarazzanti domande, che non possiamo affatto eludere, giacchò ò la nostra stessa natura di esseri miranti al sapere che ce le impone e non s’acquieta finchò non ha risposto ad esse. La filosofia ò dunque tenuta non solo a spiegare il “che cosa” (ti), ma anche il “perchè” (dioti) e, sotto questo profilo, si configura come ricerca delle cause: i medioevali diranno, con un motto divenuto proverbiale ma che rispecchia fedelmente la prospettiva aristotelica, che “verum scire est scire per causas”. Fin tanto che ignoriamo le cause che le producono, anche le cose più banali (come una marionetta che si muove, dice Aristotele) ò per noi fonte di incredibile meraviglia: una volta spiegato il “perchè” di quelle cose, la meraviglia intorno ad esse cessa, viene sconfitta e cede il passo alla conoscenza. Ma chi ò assillato dal dubbio ed ò animato dalla meraviglia, riconosce apertamente di non sapere, giacchò – se sapesse – non si troverebbe in tale condizione: ed ò per questo motivo che, in un certo senso, anche l’amante dei miti (filomuqoV) ò una sorta di filosofo; anche il mito, infatti, ò costruito intorno a cose che destano stupore e che ci spingono alla ricerca delle cause che le han prodotte, anche se – a differenza della filosofia – si tratta di un’indagine extra- razionale, che percorre vie alternative a quelle dettate dalla ragione: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà  più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed ò per questo che anche colui che ama il mito ò, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, ò costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchò, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, ò evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità  pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già  c’era pressochò tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E’ evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, ò evidente che, come diciamo uomo libero colui che ò fine a se stesso e non ò asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, ò fine a se stessa”. (A 2 982b) In questo modo, la prospettiva anassagorea, che dava maggiore importanza al “saper fare” (tecnh) rispetto al “sapere” in quanto tale (sofia), viene capovolta. Da tutte queste considerazioni, Aristotele evince che sia necessario indagare sulle “cause prime”, giacchò possiamo dire di conoscere veramente una cosa solamente se ne conosciamo le cause: ma che cosa dobbiamo intendere per “cause” (ta aitia)? Ve ne sono ben di quattro tipi, spiega Aristotele, sostenendo orgogliosamente la propria superiorità  rispetto a tutta la tradizione precedente, che non ò pervenuta a elaborare una teoria completa della causalità : se Platone aveva indicato nelle idee, ossia in oggetti puramente intelligibili, le vere cause di tutto quanto ò e avviene anche nell’ambito del mondo sensibile, Aristotele non si discosta dal mondo materiale che ci sta dinanzi; ora (ma anche nella “Fisica”, cui Aristotele stesso rimanda) spiega come, in un primo senso, la causa sia la sostanza e l’essenza delle cose (causa materiale). E’ causa della statua di bronzo il bronzo stesso di cui essa ò fatta, ossia la materia; ma esso, da solo, non costituisce ancora la statua; perchè essa ci sia, occorre che il bronzo assuma una determinata forma: anche la forma dunque ò causa (causa formale), insieme alla materia, della statua di bronzo. La forma ò data dall’essenza, che viene indicata mediante la definizione, la quale, a sua volta, denota proprio che cos’ò un oggetto (in questo caso la statua). D’altra parte, nè la materia da sè ò in grado di assumere quella determinata forma nè quella determinata forma ò in grado di imporsi da sè a quella determinata materia. Perchè avvenga questa connessione tra materia e forma occorre un agente (causa del movimento o causa motrice): nell’esempio della statua sarà  l’artefice di essa, capace con la sua azione di far assumere quella determinata forma al bronzo. L’artefice, però, non produce la forma; ò invece la conoscenza della forma a guidare la sua azione produttrice. In quanto causa efficiente, l’artefice ò infatti guidato, nella sua azione manipolatrice del bronzo, dal fine che egli intende realizzare, ossia appunto la statua di bronzo. Da questo punto di vista, la statua, nel suo compimento, ò la causa finale del processo in cui si attua l’imposizione di una determinata forma a una determinata materia: essa ò ciò a cui mira l’artefice nella sua produzione. Queste considerazioni valgono, secondo Aristotele, in generale per l’agire umano, che ò intenzionalmente diretto verso scopi, ma valgono anche per le entità  del mondo naturale. La differenza decisiva ò che nel caso della natura l’agente del processo ò interno agli stessi oggetti naturali, e non esterno come ò nel caso delle produzioni tecniche. Ma ad Aristotele pare bene ripercorrere anche le dottrine sulla causa delineate dai suoi predecessori, per poter trovare nuovi generi di causalità  o conferma di quelle da lui stesso rinvenute: ci troviamo così improvvisamente proiettati in una vera e propria “storia della filosofia”, la prima che sia mai stata stesa. Si tratta di un procedimento argomentativo caro allo Stagirita e lo ritroviamo in moltissimi altri suoi scritti (Peri yuchV, Peri ouranou, ecc): ciò ò in buona parte dovuto al fatto che per Aristotele la conoscenza ò un sapere che coinvolge in una proficua collaborazione gli uomini del presente e quelli del passato, con la conseguenza che la tradizione non ò una voce morta e spentasi per sempre, ma, al contrario, un qualcosa che ci chiama di continuo. In origine, la causa venne intesa in senso materiale, come principio da cui deriva la realtà  nelle sue più svariate sfumature: d’accordo su questo punto, gli antichi filosofi entravano però in conflitto quando si trattava di determinare quale effettivamente fosse tale principio che sta alla base della realtà . Così Talete lo individuò nell’acqua – forse perchè i semi sono sempre umidi -, Anassimene e Diogene nell’aria, Ippaso ed Eraclito nel fuoco, Empedocle in quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), Anassagora in un’ infinità  di semi, e così via. Ma l’errore che accomuna tutti questi filosofi ò da Aristotele ravvisato nel loro essersi fermati alla causa materiale, senza spingersi oltre e, soprattutto, senza render conto del mutamento dei princìpi nella realtà : essi non sono stati in grado di cogliere il principio del movimento e, pertanto, la loro ricerca si ò arenata. Con un occhio di riguardo Aristotele si sofferma sulle tesi di Empedocle e di Anassagora: il primo, intravedendo nell’Amore e nell’Odio i due princìpi motori della realtà , pare aver colto, seppure in modo sfumato e maldestro, la causa del movimento; Anassagora, dal canto suo, ò stato in grado, con straordinaria raffinatezza, di individuare in un’Intelligenza cosmica (NouV) il principio ordinatore del cosmo; ma egli ha tuttavia sbagliato nella misura in cui non si ò servito in maniera adeguata di questo principio, in particolare nel non aver riconosciuto in esso alcun finalismo (Platone stesso muoveva ad Anassagora accuse simili nel “Fedone”) ma un puro e semplice deus ex machina. L’intuizione anassagorea, insomma, era buona, ma non ò stata portata fino in fondo. Democrito, invece, e il suo collega Leucippo hanno individuato negli atomi e nel vuoto (da loro assimilati all’essere e al non-essere parmenideo) i princìpi in grado di spiegare la realtà  quale appare ai nostri occhi: anch’essi, però, non han reso giustizia al principio del movimento, nè tantomeno alla causa finale. Le aggregazioni che avvengono tra gli atomi che si muovono nel vuoto, infatti, non sono in vista di alcun fine, ma sono rette da una rigida necessità  deterministica. Dopo Democrito, Aristotele prende in considerazione le teorie dei Pitagorici, i quali hanno ravvisato nel numero il principio della realtà , forse muovendo dalla constatazione che ad accomunare tutti gli enti ò la loro misurabilità . L’impiego “mistico” che essi fanno dei numeri pare però poco convincente e, spesso, contraddittorio, come quando asseriscono che l’essenza del doppio e l’essenza del due sono la stessa cosa. Come diretta erede del pitagorismo, Aristotele indaga la filosofia di Platone, mettendone in luce la forte derivazione cratilea: muovendo dall’indagine socratica del ti estin, Platone si accorse dell’ impossibilità  di dare definizioni stabili in un mondo instabile e continuamente cangiante quale ò il nostro; e perciò ricorse ad un mondo ultrasensibile, regno dell’essere in senso pieno (l’essere parmenideo) e non soggetto al divenire. Le cose del nostro mondo sarebbero pallide copie che partecipano delle Idee della realtà  intelligibile: ma in questa sua teoria (direttamente mutuata dai Pitagorici) Platone – nota Aristotele – non ha spiegato che cosa realmente si debba intendere per “partecipazione” (meqexiV) e, soprattutto, al di là  delle sue stravaganti dissertazioni sui Numeri, ha fatto uso di due sole cause, quella formale e quella materiale. Dopo questa rapida carrellata di teorie dei predecessori, Aristotele si sofferma diffusamente, caso per caso, sugli errori da loro commessi: in generale, al di là  delle specifiche differenze, i naturalisti sbagliano a sostenere la sola esistenza di realtà  corporee, ignorano la causa del movimento e peccano di ingenuità  quando additano come principio uno qualsiasi dei corpi semplici (sia esso l’acqua, o il fuoco, o l’aria). Lo Stagirita si riserva per ultima la critica al platonismo, nella quale dà  il meglio di sè: in primis, egli nota come non sussistano prove effettive dell’esistenza delle Idee postulate da Platone; inoltre dal “Sofista” risultava anche che esistessero Idee di relazioni (l’idea di “diverso”, di “uguale”, ecc), il che appare non solo ridicolo, ma addirittura impossibile e facilmente confutabile dispiegando l’arma argomentativa del “terzo uomo”, di cui Aristotele fa più volte ricorso, nei suoi scritti, per demolire la dottrina delle Idee: se l’uomo ò tale perchè partecipa dell’Idea di uomo, quest’ultima, a sua volta, dovrà  essere tale perchè partecipa di un “terzo” uomo; e così via, all’infinito. Ma Aristotele si pone anche una domanda non da poco circa la teoria delle Idee: che vantaggio comporta agli esseri sensibili? Le Idee, infatti, non causano alcun movimento nè giovano alla conoscenza delle cose nè al fatto che esse sussistano. Se poi le Idee sono numeri, in che modo potranno mai essere cause? Aristotele sferra una serie di accuse anche piuttosto tecniche a Platone, facendo leva sulla sua dottrina dei Numeri Ideali e sulle assurdità  che ne conseguono: la nota conclusione a cui perviene ò che le Idee non hanno esistenza autonoma, ma sono, piuttosto, un’astrazione operata dal nostro intelletto; sicchò vedo tre cavalli non già  perchè vi ò una partecipazione del sensibile ad una fantomatica Idea del tre situata in qualche luogo sperduto al di là  dei sensi; al contrario, ricavo l’idea del tre dall’aver visto gruppi di tre cavalli, di tre case, e così via. Pur avendo aspramente criticato le dottrine dei suoi predecessori, Aristotele apprezza il loro lavoro, inteso come un’inesauribile fonte di spunti e di idee: la dottrina delle “quattro cause”, ad esempio, fu da essi intravista, anche se in maniera poco chiara, e questo perchè “la filosofia primitiva sembra che balbetti su tutte le cose, essendo essa giovane e ai suoi primi passi” (993 a 15). In apertura del brevissimo secondo libro (per alcuni aspetti appendice del primo), troviamo un’acuta considerazione sulla ricerca della verità : essa ò, al contempo, un qualcosa di facile e di difficile; difficile perchè ò impossibile cogliere del tutto la verità , ma facile perchè ò altrettanto impossibile non coglierla del tutto. Sebbene sia impossibile che ciascuno di noi raggiunga da solo il possesso della verità , resta vero che, collaborando, gli uomini possono riuscire a dare contributi considerevoli: per questo motivo dobbiamo essere grati ai filosofi precedenti – dice lo Stagirita -, poichè ci hanno lasciato in eredità  contributi preziosissimi per ricostruire il mosaico della verità . Quest’ultima non sarebbe di per sè difficile da scoprire, poichè essa ò riposta nelle cose e non ò nelle cose che risiede la difficoltà : siamo piuttosto noi che, come le nottole (Hegel si ricorderà  di questo paragone) non vedono alla luce del sole, non riusciamo a cogliere ciò che ci ò alla mano, sotto gli occhi. La fiducia di Aristotele nei sensi ò incredibilmente forte: mai nessun filosofo ne aveva nutrita tanta, solo Epicuro lo eguaglierà . Fatte queste considerazioni preliminari, lo Stagirita torna sui punti discussi nel libro primo, in particolare sulla causalità , che sta alla base del conoscere (“noi non conosciamo il vero senza conoscere la causa”, 993 a 23): in particolare, egli insiste su come le cause siano necessariamente finite, sia per numero sia per specie; se così non fosse, si dovrebbe andare all’infinito nella conoscenza, senza mai raggiungere alcun risultato. Il metodo da seguire, poi, non può essere unico per tutte le scienze, ma dovrà  basarsi sugli oggetti in questione: di metodi Aristotele ne individua due, uno soggettivo e uno oggettivo. Come esempio di “soggettività ” possiamo pensare all’assuefazione che ciascuno di noi ha verso un certo modo di procedere e che vorrebbe estendere a tutti gli altri: ma ciò ò, oggettivamente, impossibile, poichè non ci si potrà  muovere in ambito matematico e fisico con lo stesso metodo. Il libro terzo ò il libro delle “aporie”, ossia delle problematiche (ne vengono presentate una quindicina) in cui ci si imbatte quando si fa metafisica: la difficoltà  ha valore costruttivo, poichè ò solo attraverso essa che si può passare dal non sapere al sapere; in questo senso, raggiungere la verità  consiste nel superare la difficoltà , proprio come quando ci troviamo a dover sciogliere un nodo: la difficoltà  ò il nodo, lo scioglimento ò la soluzione. Chi non sa e non si imbatte in difficoltà  alcuna, ò pertanto condannato a rimanere nell’ignoranza. Ma da dove nascono tali difficoltà ? Soprattutto dalle opinioni degli altri pensatori, dai dubbi sollevati da essi e dalle contraddizioni in cui sono inciampati e che restano irrisolte: viene dunque ribadita la necessità  di conoscere il pensiero altrui, in particolare quello dei predecessori, poichè ò solo conoscendo ciò che essi han detto e dove hanno sbagliato che possiamo, a nostra volta, formulare soluzioni alle domande da loro poste e lasciate irrisolte. Concretamente ecco le aporie: 1] studiare i diversi tipi di cause ò ufficio di una sola scienza o di diverse? 2] Lo studio dei princìpi delle sostanze e di quelli della dimostrazione spetta alla stessa scienza o a scienze diverse? 3] Lo studio di tutte le sostanze compete ad una o a più scienze? 4] La scienza orbita intorno alle sole sostanze, o anche agli accidenti? 5] Esistono anche sostanze non sensibili? E se sì, esse sono di un solo genere oppure no? 6] I princìpi primi sono i generi o gli elementi materiali? 7] I princìpi primi sono i generi sommi oppure generi infimi? 8] Se esistono solo sostanze individuali, come ò possibile la scienza? 9] L’unità  dei princìpi ò specifica oppure generica? 10] I princìpi delle cose corruttibili sono gli stessi di quelle incorruttibili? 11] l’ Ente e l’Uno sono sostanze delle cose? 12] I numeri e gli enti geometrici sono sostanze? 13] Perchè, al di là  dei sensibili e degli intermediari, c’ò bisogno di trovare altri enti, come le Idee di Platone? 14] Gli elementi sono in potenza o in atto? 15] I princìpi sono universali o individuali? E’ facile capire come il tema centrale delle aporie sia quello delle cause e dei princìpi: ogni aporia ò presentata da una tesi (desunta dai naturalisti) a cui ò contrapposta un’antitesi (desunta da Platone), ma nessuna delle due regge (viene messa in luce l’assurdità  che deriverebbe se una delle due fosse valida). Si tratta pertanto, secondo Aristotele, di aprirsi una nuova strada, che tenga conto sia della tesi sia dell’antitesi, ma che non resti impigliata in esse e nei loro errori; ed ò ciò che lo Stagirita fa nei libri successivi, dove dipana a poco a poco il groviglio dei problemi affiorati in questo terzo libro. Di tutte e quindici, spicca la quinta aporia, con la quale ci si domanda la possibilità  dell’esistenza di realtà  trascendentali, ovvero meta-fisiche (istanza che ritorna con insistenza nell’ottava e nella tredicesima aporia). Del resto, ogni questione inerente ai princìpi può ridursi alla questione se i princìpi siano materiali o no. Il quarto libro ò uno dei più famosi, in quanto ò in esso che emergono gli aspetti salienti del pensiero aristotelico: viene data una definizione di metafisica, poi una di essere, in seguito viene affrontato il tema degli “assiomi” e, infine, viene preso in esame il “principio di non contraddizione” mediante la confutazione (elegcoV) di coloro che lo negano. Ma procediamo con ordine: in apertura del quarto libro, troviamo scritto che estin episthmh tiV h qewrei to on h on kai ta toutw uparconta kaq’ auto (“c’ò una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà  che gli competono in quanto tale”). Tale ò, appunto, la metafisica: il suo oggetto di indagine ò “l’essere in quanto essere”, ossia l’intero della realtà , e condurre una tale investigazione significa trovare le cause che lo giustificano. Dove sta la differenza tra la metafisica e le altre scienze? Nel fatto che, mentre queste ultime sono conoscenze di una “parte” della realtà  (sono cioò conoscenze settoriali e parziali della realtà ), la metafisica abbraccia con la sua indagine l’intera realtà , nel tentativo di cogliere non le singole parti e i singoli aspetti, ma i “princìpi supremi”. In connessione col concetto di “essere”, Aristotele studia quello di “uno”, giacchò quest’ultimo ò convertibile in quello di essere (“ens et unum convertuntur” diranno i medioevali): ne consegue che il metafisico dovrà  anche studiare i concetti di “diverso”, di “identico”, di “simile”, e di tutti gli altri che sono connessi a quello di uno. Prendendo le mosse dall’essere come intero compatto, lo Stagirita affronta la questione del principio di non contraddizione: ma, ancor prima, fa un excursus sui “settori” particolari dell’essere, ossia su quelle porzioni di realtà  che vengono prese in esame dalle singole scienze. Chi esercita le varie scienze fa uso di princìpi e di assunti valenti per singoli ambiti della realtà , ma, accanto ad essi, si avvale di “assiomi” validi per l’intero ambito dell’essere (“essi sono propri dell’essere in quanto essere”, 1005 a). Ma se essi sono comuni all’intera realtà , quale scienza dovrà  occuparsene? La metafisica, dice Aristotele, poichè ò l’unica ad avere come campo d’indagine l’intero essere, tanto più che le altre scienze fanno uso di tali assiomi ma non dicono nulla su di essi (proprio perchè essi non ineriscono ad un ristretto ambito di realtà ). Al contrario, la metafisica non solo fa uso di essi, ma di essi si occupa in maniera sistematica. Ma, in concreto, quali sono questi assiomi universalmente validi? Il principale di essi ò il “principio di non contraddizione”, che può essere formulato in una miriade di modi, e Aristotele così esprime: “ò impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto”. Di tutti gli assiomi, questo ò il più saldo, giacchò nessuno si sognerebbe di sostenere che una stessa cosa sia e non sia (ad es. “A ò A e non-A”); ma il principio di non contraddizione ò al contempo legge dell’essere e legge del pensiero: ò infatti impossibile sia che la stessa cosa appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, sia pensare che la medesima cosa sia e non sia. Vi ò dunque una profonda corrispondenza tra pensato e reale: del resto, essendo il principio di non contraddizione un principio valido per l’essere in quanto essere, ò naturale ch’esso valga anche per la struttura mentale dell’uomo, la quale rientra a pieno titolo nell’essere. In tempi più recenti, Kant prenderà  in un certo senso le mosse dall’identità  aristotelica di pensato e reale ricorrendo alle “dodici categorie”, valide per la mente umana ma anche per la realtà  (sarà  anzi la stessa mente umana ad impiegarle per leggere la realtà , a differenza di quanto crede Aristotele). Il principio di contraddizione ò il più valido di tutti ed ò anzi quello da cui tutti gli altri derivano: esso sta alla base di ogni possibilità  di ragionamento e di dimostrazione; in quanto ò il “principio primo” da cui derivano tutti gli altri, esso ò indimostrato e indimostrabile, ma deve necessariamente essere ammesso (a meno che non si voglia prolungare all’infinito la ricerca di un principio); qualora qualcuno, intestardito, voglia provare a dimostrarlo, si troverà  inevitabilmente a far uso di esso nella sua dimostrazione! Il che ò evidentemente assurdo. Da ciò si può evincere come tutti, intuitivamente, sappiamo cosa esso sia e ce ne serviamo abitualmente. Eppure ci sono stati filosofi che l’hanno respinto, negandogli ogni validità  argomentativa: ad avviso di costoro, ò possibile affermare che una stessa cosa può essere e non essere e, conseguentemente, pensare che una stessa cosa può essere e non essere. Contro questi avversari, non si può esibire una dimostrazione del principio di non contraddizione, giacchò – come abbiam detto – esso ò indimostrato; si può tuttavia percorrere una strada alternativa e vincente: quella dell’ elegcoV, ossia della confutazione dell’avversario, mettendo in evidenza come il discorso del negatore del principio di non contraddizione non riesca nemmeno a costituirsi, giacchò, per costituirsi, dovrebbe fare ricorso allo stesso principio di non contraddizione. Non appena l’avversario apre bocca, infatti, dice qualcosa e se a questo qualcosa annette un senso, allora dice qualcosa di determinato che, proprio perchè determinato, non potrà  essere la sua negazione. In fin dei conti, chi nega il principio di contraddizione (e Aristotele ha soprattutto in mente i sofisti, primi fra tutti Gorgia e Protagora), per essere coerente, dovrebbe star zitto e non pensare: il che equivarrebbe a regredire allo stadio di vegetale. D’accordo almeno in questo con il maestro Platone, lo Stagirita respinge senza mezzi termini le tesi dei sofisti (a cui dedica lo scritto “Confutazioni sofistiche”): alla tesi anti-protagorea “se ò tutto vero, allora ò vero anche che esiste il falso e che ciò che dice Protagora ò menzogna” e a quella anti-gorgiana “se tutto ò falso, allora anche ciò che dice Gorgia lo ò”, egli ne affianca ora una nuova: il sofista, negatore del principio di non contraddizione, non appena apre bocca sconfessa già  le proprie posizioni. Aristotele non si accontenta della dimostrazione a favore del principio di non contraddizione poc’anzi esposta e ne squaderna un’altra: nel suo significato più forte, l’essere ò sostanza, dove per “sostanza” (ousia) dobbiamo intendere tutto ciò che esiste di per sè; negare il principio di non contraddizione vuol dire, come sappiamo, negare l’essere in generale; ma vorrà  anche dire negare l’essere nel significato di sostanza. Sicchò l’essenza di “uomo” sarà  anche essenza di “non-uomo”: ma, negando la sostanza, tutto si riduce ad “accidente”, dove per accidente dobbiamo intendere tutto ciò che esiste nella misura in cui inerisce ad una sostanza (il rosso, il caldo, ecc, sono accidenti perchè esistono in riferimento ad una sostanza: una casa rossa, un libro rosso, ecc); se dunque togliamo la sostanza dovrebbe restare solo l’accidente, ma quest’ultimo, per esistere, ha sempre bisogno di una sostanza a cui inerire, cosicchò – venuta meno la sostanza – cadrà  anche l’accidente e, con esso, tutto l’essere. Molti pensatori, poi, hanno negato il principio di non contraddizione facendo leva sulla contraddittorietà  del reale, sul suo fluire incessante e sulla sua assenza di stabilità : partendo da queste considerazioni, essi hanno universalizzato la questione, arrivando a sostenere l’instabilità  dell’intero essere. Ma Aristotele avverte: “dovremo dimostrare che esiste una realtà  immobile e dovremo convincerli di questo”: la pretesa di fare dell’essere intero un qualcosa di instabile perchè instabile ò il mondo sensibile viene dunque stigmatizzata ed ò nel libro dodicesimo che lo Stagirita dimostrerà  l’esistenza dell’enigmatico “motore immobile”. Derivante dal principio di non contraddizione ò pure quello del “terzo escluso”, così formulato: “non ò neppure possibile che fra i due contraddittori ci sia un termine medio, ma ò necessario o affermare o negare, di un medesimo oggetto, uno solo dei contraddittori”. Se il primo libro costituiva la prima “storia della filosofia” mai scritta, il quinto libro si configura invece come il primo dizionario filosofico che sia mai stato realizzato: Aristotele vi discute il significato dei termini cardinali che vengono impiegati in filosofia, provando a considerarli sotto diversi punti di vista. Il primo vocabolo preso in considerazione ò quell’ arch (“principio”) alla cui ricerca si erano dedicati i fusiologoi, i primi filosofi della natura (Talete, Anassimene, Anassimandro): vediamo nel dettaglio quali sono le parole su cui lo Stagirita concentra la propria attenzione: * arch (principio): ciò da cui una cosa comincia (così l’avevano inteso i filosofi naturalisti); il punto di partenza migliore; la causa efficiente; il potere di far muovere qualcosa; ciò da cui si parte per conoscere qualcosa; * aition (causa): la materia; la forma; il principio del movimento; il fine; *stoiceion (elemento): il costitutivo primo di cui son fatte le cose; ciò che ò piccolo, semplice ed indivisibile (gli atomi di Democrito); * fusiV (natura): la generazione delle cose che crescono; il principio interno della cosa; il principio di movimento intrinseco; il principio materiale; ogni sostanza; * anagkaion (necessario): ciò senza di cui il vivente non può vivere; ciò che costringe; ciò che non può essere diversamente da come ò; la dimostrazione (in quanto le conclusioni non possono essere che come sono); * en (uno): a) unità  accidentale: sostanza con un accidente (es. “Corisco” e il “musico”), due accidenti (“musico” e “giusto”), una sostanza insieme ad un accidente ma rispetto alla medesima sostanza considerata assieme ad un altro accidente (“Corisco musico” e “Corisco giusto”), la sostanza con un accidente rispetto alla medesima sostanza (“Corisco musico” e “Corisco”), lo stesso caso di prima ma letto in universale (“uomo musico” e “uomo”); b) unità  essenziali: quando sono continue, quando ò identico di specie il loro sostrato, quando ò identico il loro genere, quando ò identica la loro definizione; c) misura prima di un genere; * to on (l’essere): in senso accidentale (“il giusto ò musico”), per sè (vi rientrano tutti i sensi delle categorie), l’essere come vero (“Socrate ò musico”: intendiamo come “ò vero che Socrate ò musico”); potenza e atto; * ousia (sostanza): i corpi semplici; la causa immanente dei corpi semplici; i limiti del corpo (vale per alcuni filosofi, non per Aristotele); l’essenza delle cose; * ta auta / diafora (identico/differente): due cose sono identiche o accidentalmente o essenzialmente; due cose sono diverse in senso opposto a quello per cui si dicono identiche; differenti sono due cose che sono diverse ma che fra loro hanno qualche identità ; simili sono due cose che hanno tutte le affezioni identiche; dissimili quelle opposte; * antikeimena / enantia / etera / ta auta (opposto, contrario, diverso, identico) * protera kai ustera (prima e dopo): anteriori e posteriori si dicono le cose a seconda che siano o no più vicine (in base allo spazio, al tempo, al movimento, alla potenza, all’ordine) ad un determinato principio; ma le cose si dicono posteriori o anteriori anche in riferimento alla conoscenza e, nella fattispecie, secondo la nozione definitoria (l’universale sta prima del particolare) oppure secondo la sensazione (i particolari stanno prima degli universali); sono poi anteriori le proprietà  delle cose anteriori; infine, anteriori sono le cose secondo la natura e secondo la sostanza (il sostrato e la sostanza vengon prima degli attributi; le cose sono anteriori per la potenza, posteriori per l’atto); * dunamiV (potenza, possibilità , possibile): principio di movimento, principio per cui la cosa ò mossa, capacità  di condurre a termine una cosa bene o secondo volontà , la capacità  di una cosa di essere mutata in bene, lo stato per cui le cose sono immutabili in peggio; impotente ò invece ciò che corrisponde all’impotenza oppure ciò che corrisponde all’impossibile (dove impossibile ò ciò il cui contrario ò necessariamente vero); * poson (quantità ): quantità  ò ciò che ò divisibile in parti ad esso interne, di cui ciascuna ò un qualcosa di determinato; la quantità  può essere a) numerabile (e allora ò una pluralità ), b) misurabile (e allora ò una grandezza). Inoltre, ci sono quantità  per sè (la linea) e quantità  per accidente (il tempo e il movimento); * poion (qualità ): differenza della sostanza di una cosa, ciò che appartiene all’essenza del numero, le affezioni della sostanza soggette a mutamento, la virtù il vizio il bene il male; * proV ti (relazione): relative sono quelle cose che stanno fra loro 1] come ciò che eccede rispetto a ciò che ò ecceduto, 2] come l’agente rispetto al paziente, 3] come il misurabile rispetto alla misura; * teleion (perfetto): perfetto (o completo) ò ciò che ha tutte le parti che deve avere, ciò che non ò superato da altro nell’abilità  che gli ò propria, ciò che possiede il fine che gli compete; * peraV (limite): limite ò il termine estremo di ogni cosa, la forma di una grandezza, il fine di ogni cosa, la sostanza delle cose; * to kaq’ o / to kaq’ auto (ciò per cui / per sò): “ciò per cui” designa l’essenza di ogni cosa, il sostrato, la causa finale, la causa efficiente, la posizione; “ciò che ò per sè” significa invece l’essenza, le note nell’essenza, le proprietà  originarie di una cosa, ciò che non ha altra causa fuori di sè, ciò che appartiene ad un solo tipo di soggetto; * diaqesiV (disposizione): disposizione vuol dire ordinamento di parti a) secondo il luogo, b) secondo la potenza, c) secondo la forma; * exiV (abito): abito significa 1] l’attività  di ciò che possiede e di ciò che ò posseduto; 2] la disposizione per la quale una cosa ò ben o mal disposta, 3] ciò che ò parte di una disposizione del tipo tratteggiato sopra; * paqoV (affezione): affezione significa una qualità  per cui una cosa può alterarsi, le alterazioni medesime già  in atto, le alterazioni dannose, le grandi sventure; * sterhsiV (privazione): privazione designa a) una cosa priva di qualche caratteristica che dovrebbe (o potrebbe) avere per natura in un dato momento, b) quando c’ò sottrazione violenta di qualcosa, c) quando troviamo la a privativa, d) quando una cosa ò difficile a farsi, e) quando vi ò assoluta mancanza di una cosa; * to ecein (l’avere): avere significa tenere in propria balia, l’avere da parte del ricettacolo ciò che ò nel ricettacolo, il contenere del contenente rispetto al contenuto, tenere qualcosa in modo tale che non possa muoversi; * to ek tinoV einai (il derivare da qualcosa): derivare vuol dire 1] il derivare dal proprio sostrato, 2] il derivare da causa efficiente, 3] derivare dall’insieme di materia e forma, 4] derivare dalla forma, 5] il derivare da una parte delle cose appena indicate, 6] il derivare temporalmente da un evento; * meroV (parte): parte significa ciò in cui la quantità  ò divisibile, ciò in cui la forma ò divisibile, ciò in cui il tutto ò divisibile, gli elementi che costituiscono la definizione; * olon (intero): intero vuol dire ciò che non manca di alcuna parte, ciò che contiene le cose che contiene, quando le parti mutano senza produrre differenze; * kolobon (mutilo): vengono presi in esame i requisiti che una cosa deve avere per potersi dire mutila (dev’essere una quantità , dev’essere continua, dev’essere privata di una parte non essenziale); * genoV (genere): genere indica la generazione continua di esseri della stessa specie, la stirpe, il sostrato delle differenze, il costitutivo primo delle definizioni; * yeudoV (falso): falso indica una cosa falsa, una cosa non unita o non unibile (perchè illusoria), una enunciazione o una nozione falsa, un uomo che ama mentire; * sumbebhkoV (accidente): accidente ò ciò che può essere detto di una cosa e le appartiene ma non sempre o per lo più; ma ò anche ciò che inerisce ad una cosa pur non rientrando nella sua essenza. E’ evidente come tutti questi termini siano focali nell’ indagine che Aristotele ha fin qui condotto e condurrà  oltre: troviamo l’uno, la sostanza, le cause, e molti altri. Puo’ sembrar strano, almeno al lettore moderno, che venga improvvisamente interrotta la ricerca sulla metafisica e ci sia una pausa in cui viene delineato un lessico filosofico: ciò risulterà  più comprensibile se facciamo riferimento al valore polisemantico e troppo spesso ambiguo di quei termini; sicchò pare quasi che Aristotele abbia voluto momentaneamente sospendere la sua indagine per delucidare quelle parole poco chiare, gettando luce – una volta per tutte – sui reali significati da attribuire ad esse. L’indagine aristotelica riprende il suo cammino con il sesto libro, che si apre all’insegna di una netta divisione tra le scienze e con l’assoluta preminenza della metafisica, ora però intesa come teologia: tutte le scienze, pur nella loro fondamentale importanza, sono segnate dall’imprescindibile limite di indagare esclusivamente su porzioni che abbracciano una parte della realtà  (così la matematica si occupa dei numeri, la fisica del mondo sensibile, e così via), mentre l’ investigazione metafisica investe l’essere in quanto essere ed ha per oggetto proprio le cause e i princìpi dell’essere stesso, nonchè l’essenza: quest’ultima, infatti, ò dalle altre scienze data per scontata, cosicchò esse partono da essa senza dimostrarla. La metafisica dimostra princìpi validi in assoluto, per tutto l’essere; le altre scienze, viceversa, si occupano di princìpi valevoli solamente per determinati ambiti dell’essere: esse, poi, fanno uso di postulati, ossia accettano princìpi senza dimostrarli, mentre invece la metafisica (“filosofia prima”) rende conto di ogni cosa e, soprattutto, dell’essenza e della sostanza. Aristotele, a differenza di Platone, prospetta un’incredibile varietà  di scienze, ciascuna dotata del proprio campo di indagine: le scienze possono essere di tre tipi, a) teoretiche (fisica, matematica, metafisica) b) poietiche c) pratiche (etica, politica) ed ò partendo da questa tripartizione che muove ora lo Stagirita. La fisica si occupa di enti esistenti di per sè e dotati di materia e movimento; la matematica ha per oggetto enti non esistenti di per sè ma immobili. Infine, la terza e la più elevata delle scienze teoretiche ò quella che si occupa di enti separati (esistenti di per sè) e immobili, quindi nè materiali nè sensibili: si tratta della teologia. La “filosofia prima”, dunque, pare ora passare da scienza universalissima, occupantesi dell’essere in quanto essere, a scienza “particolare” (teologia), che si occupa esclusivamente dell’immobile e dell’immateriale. Aristotele si accorge di questa contraddizione e cerca di superarla: non c’ò alcuna contraddizione, perchè la filosofia prima ò universale e lo ò proprio in quanto si occupa della sostanza sovrasensibile (Dio, il “motore immobile”), la quale altro non ò se non “sostanza prima”; da ciò consegue che la teologia ò necessariamente “filosofia prima” e, poichè “prima”, le compete l’indagine di tutto l’essere e delle proprietà  che ad esso competono. Ribadito dunque, con rinnovato vigore, come il compito della “filosofia prima” (intesa sia come teologia sia come metafisica) sia l’ investigazione sull’essere, Aristotele passa concretamente alla trattazione dell’essere, riprendendo molti punti dei libri precedenti e, soprattutto, la distinzione operata nel libro quinto tra 1) essere accidentale, 2) essere come “vero” (e non- essere come “falso”), 3) essere come categorie, 4) essere come atto (enteleceia) e potenza (dunamiV). Sono questi i quattro significati precipui dell’essere: partendo dal primo – essere “accidentale” -, lo Stagirita nota come esso non possa assolutamente costituire l’oggetto proprio della metafisica per due ordini di ragioni: a] perchè si tratta di un essere “debolissimo”: di esso non può esserci non-essere, dal momento che le cose naturali (che sono esseri sostanziali) si generano e si corrompono, mentre questo non avviene nell’accidente. Si tratta allora di chiarire quale sia la natura dell’accidente: e Aristotele distingue rigorosamente tra esseri che sono “di necessità  e sempre” (ex anagkhV kai aei) ed esseri che sono “per lo più” (epi to polu). Ma se non tutto avviene necessariamente ed esistono cose che avvengono “per lo più” (e non sempre), allora esisteranno anche esseri che sono solo “talvolta” (pote). Da ciò deriva che l’accidente, propriamente, non ò nè sempre nè per lo più, ma talvolta: “per esempio, nè sempre nè per lo più il bianco ò musico; ma, poichè talvolta accade, allora sarà  per accidente” (E 2 1027 11). La causa dell’accidente viene da Aristotele individuata nella materia, che – in quanto essere potenziale ed indeterminato – dà  luogo alle possibilità  che qualcosa sia in modo diverso dal sempre o dal per lo più; b] dell’ essere “accidente” – ò facile arguirlo – non può esserci scienza alcuna, giacchò la scienza riguarda ciò che ò sempre (aei) o per lo più (epi to polu): se così non fosse, come sarebbe possibile imparare ed insegnare ad altri? Del resto, che non possa esserci scienza dell’accidente, lo attesta il fatto stesso che nè la scienza pratica, nè la poietica nè la teorica si occupano di esso. Tuttavia, se esistono gli accidenti, allora vorrà  dire che esisteranno anche cause accidentali, cioò diverse da quelle che producono ciò che ò “sempre” o “per lo più”: per chiarire questo punto, Aristotele ricorre ad esempi concreti, in riferimento ad eventi sia passati sia futuri; egli mette in luce come, risalendo nella catena delle cause ed effetti, si giunga ad “un certo evento” da cui prende le mosse la catena dei successivi eventi. Tale “certo evento”, pertanto, costituisce la causa di essi, ma non ò tale da possedere una determinata e precisa ragione d’essere: ò un qualcosa che esula da ogni regola necessaria ed ò, dunque, fortuito (potrebbe verificarsi come non verificarsi). Ma questo evento – causa dell’accidente – rientra nella sfera delle cause formali, finali o efficienti? Aristotele lascia irrisolto questo interrogativo, poichè esso richiederebbe un’apposita trattazione: sia sufficiente l’aver stabilito il funzionamento dell’ “accidentale”, il quale impera nell’agire umano, giacchò ogni nostra azione potrebbe avvenire diversamente da come avviene (a differenza di quanto avviene nel mondo che sta sopra la luna). Aristotele, in chiusura del libro sesto, rivolge l’attenzione all’essere concepito come “vero” e al non-essere come “falso”: il vero sta nel connettere le cose connesse (o anche nel dividere quelle divise), il falso sta nel dividere le cose non divise (o nell’unire quelle non unite); ma tutto questo avviene solo all’interno della mente umana e, perciò, l’essere come vero e il non-essere come falso si riducono ad “affezioni” della mente e da ciò consegue che, oltre all’ essere come accidente, anche l’essere come vero non merita di essere oggetto dell’indagine del metafisico: “questi modi di essere dobbiamo dunque lasciarli da parte e, invece, dobbiamo indagare le cause ed i princìpi dell’essere in quanto essere” (E 4 1028 a 3). Agli altri significati dell’essere ò in buona parte dedicato il libro settimo, che si apre con la constatazione che “to on legetai pollacwV” (“l’essere ha molteplici significati”): se nel sesto libro si erano trattati i significati “deboli” dell’essere (accidentale e come vero), ora si prendono in esame quelli “forti”, in primo luogo l’essere delle categorie. La prima cosa da notare ò che, pur essendo dieci, tutte le categorie, nel loro essere, dipendono direttamente dall’ essere della prima, che ò la sostanza (ousia): di un soggetto, per esempio Socrate, ci si può chiedere che cos’ò o quali sono le sue qualità  o quanto ò alto o dov’ò e così via e le risposte a queste domande indicano ciò che si può predicare del soggetto. Ognuna di esse indica un tipo diverso di predicati, ciascuno dei quali ò una categoria, ossia un modo di kathgoreuein (“predicare”) intorno al soggetto. Secondo Aristotele esse sono dieci: sostanza (per esempio, Socrate o uomo), quantità  (un metro e mezzo), qualità  (bianco o filosofo), relazione (figlio di Sofronisco), luogo (nel carcere), tempo (l’anno della morte), situazione (star seduto), avere (indossare il mantello), agire (bagnare), subire (essere bagnato). Classificare queste categorie o predicati equivale, per Aristotele, a classificare cose o eventi: per esempio, dire che Socrate ò nel carcere, dove la categoria di luogo ò predicato del soggetto Socrate, comporta che il carcere ò un luogo. Il mondo stesso, allora, si configurerà  agli occhi di Aristotele come un insieme di sostanze individuali (Socrate, la casa, il cavallo, ecc), ciascuna delle quali ò un todh ti, un “questa cosa qui” che ho dinanzi. Tutte le altre categorie esistono in riferimento alla categoria di sostanza: se non ci fosse quella, non potrebbero nemmeno esserci esse. Infatti, forse che potrebbe esistere il “bianco” se non ci fosse una sostanza a cui inerire? Similmente, potrebbe esistere “l’essere alto un metro e mezzo” se non in riferimento ad una sostanza (ad esempio, Socrate)? Certo che no, risponde Aristotele. Da tutto ciò deriva che il problema dell’essere può e deve essere inteso come problema della sostanza, cosicchò la domanda “che cos’ò l’essere? ” deve essere letta come “che cos’ò la sostanza? ” ed ò, di fatto, ciò che hanno fatto sempre anche i filosofi precedenti; Heidegger noterà  come l’intuizione di Aristotele, ossia l’esigenza di indagare l’essere in quanto essere, ò brillante, ma il filosofo greco ha peccato quando dall’ indagine dell’essere ò scivolato a quella della sostanza. Aristotele, nel tentativo di connotare la sostanza, fornisce una miriade di definizioni, che spesso sembrano perfino contraddittorie: il primo problema ch’egli si pone ò di marca teologica e consiste nel domandarsi di qual genere siano le sostanze esistenti. Dobbiamo ammettere che esistano solo sostanze “materiali”, cioò di genere sensibile, o ò meglio ipotizzare che, accanto ad esse, ve ne siano anche di sovrasensibili? Questa problematica era già  affiorata nel terzo libro, quello delle aporie, in cui la tesi “naturalistica” di chi non vedeva altra sostanza all’ infuori di quella materiale era contrapposta all’antitesi platonica del mondo delle idee. Non sembra sbagliato sostenere che ò questo il problema centrale della “Metafisica”, quello intorno al quale ruota l’intera opera, e che troverà  una definitiva soluzione in positivo nel libro dodicesimo, quando verrà  ammessa l’esistenza di un Dio assolutamente immateriale. Ma, oltre a chiarire di quale genere sia la sostanza (materiale? sovrasensibile? ambo le cose? ), ò bene domandarsi anche che cosa essa sia: che cos’ò la sostanza? E’ materia? E’ forma? E’ sintesi delle due cose (sunolon)? A rigore, nota Aristotele, dev’essere prima affrontato il problema del “che cosa” sia la sostanza rispetto a quello del “di che genere” essa sia: poichè ò solo muovendo dalla comprensione dell’essenza di una cosa che si possono predicare le caratteristiche che le competono. L’indagine di Aristotele, come sempre, parte anche in questo caso dai fainomena, ossia dalle cose come sembrano: e, sotto questo profilo, a tutti (filosofi passati e presenti) sembra che le cose sensibili siano sostanze, cosicchò sarà  opportuno avviare l’ investigazione a partire da quelle. La domanda sull’essenza della sostanza ò duplice: a) quali sostanze esistono? (e la risposta verrà  data nel libro dodicesimo); b) che cos’ò la sostanza in generale? A questa seconda domanda, lo Stagirita prova a rispondere in questo libro, anche se – in verità  â€“ le risposte ch’egli fornisce tendono ad aprire più problemi di quanti non ne risolvano. In prima istanza, pare che cinque possano essere le definizioni di sostanza: 1] ciò che non inerisce ad altro e che, pertanto, non si predica di altro; 2] ciò che sussiste separatamente dal resto (cwriston); 3] ciò che ò un alcunchò di determinato (todh ti); 4] ciò che ò dotato di intrinseca unità  (una molteplicità  disposta in maniera unitaria); 5] ciò che ò dotato di atto e di attualità  (energeia). In base alle cinque definizioni fornite, si potrà  dire che la materia (ulh) ò sostanza? Se guardiamo alla 1° definizione, parrebbe di sì: la materia, infatti, non inerisce ad altro nè di altro si predica; eppure, concentrando l’attenzione sulle successive definizioni, si apre un ventaglio di problemi non da poco: la materia non può sussistere separatamente dal resto (come vorrebbe la 2° definizione), giacchò la troviamo sempre congiuntamente con la forma (non troviamo mai materia amorfa). La 3° definizione, poi, dice che dev’essere qualcosa di determinato la sostanza: ma la materia non lo ò, o, meglio, ò determinata solo nella misura in cui ò accompagnata dalla forma; e non ò neppure qualcosa di intrinsecamente unitario (4° definizione), poichè se a noi pare unitaria ò solo in virtù della forma. Infine, non risponde neppure alle richieste della 5° definizione: infatti la forma, non la materia ò atto; dal canto suo, la materia ò potenza: infatti, un blocco di marmo (materia che supponiamo priva di forma) ò potenzialmente tantissime cose (una statua, una mensola, ecc), ossia può (dunatai) diventare una statua, una mensola, ecc. a patto che intervenga la forma: la quale farà  sì che la materia, da statua in potenza, diventi statua in atto. Da questo percorso fra le note definitorie della sostanza si evince come la materia sia sostanza solo in senso debolissimo (cioò solo stando alla 1° definizione). A loro volta, la forma (morfh) e il sinolo (sunolon) rispondono alle richieste delle cinque definizioni? Sì, risponde Aristotele, e pertanto possono essere tranquillamente qualificati come sostanze. Al contrario, le Idee di Platone – ridotte dallo Stagirita a meri “universali” – non rientrano affatto nel novero delle sostanze. Da un punto di vista strettamente empirico, il sinolo sembra essere la sostanza per eccellenza, ma, se spostiamo il baricentro dell’indagine su un piano metafisico, ci accorgeremo di come la forma sia principio, causa e ragion d’essere, cioò fondamento, con la conseguenza che il sinolo stesso ò da essa causato e fondato. Appare dunque evidente come per noi, empiricamente, il sinolo sia la sostanza in senso pieno, giacchò abbiamo sempre e comunque a che fare con composti (aggregati di materia e forma), ma come “in sè e per natura” – ovvero metafisicamente – sia la forma a rivestire il ruolo di sostanza in senso preminente. In questo modo, viene istituita una specie di scala gerarchica in base alla quale la materia ò la sostanza in senso “debole”, il sinolo ò un gradino al di sopra, poichè costituito da materia e forma; e, infine, al vertice della scala, sta la forma, in quanto principio, ragion d’essere e causa del sinolo. A questo punto, Aristotele fa un’affermazione quasi solenne e mistica, asserendo che la forma ò “la causa prima dell’essere”, giacchò ò la forma che, collegando e determinando gli enti materiali, fa essere le varie cose. L’inizio del libro ottavo vuol presentarsi come una sorta di ricapitolazione dei punti discussi nel libro precedente, un’appendice ragionata: la ricerca si ò spostata dall’essere alla sostanza, sulla cui natura però permangono forti dubbi e ambiguità , tant’ò che – al di là  degli elementi comuni ravvisati da tutti i pensatori – ogni filosofo l’ha intesa in modo pressochò diverso da ogni altro. La materia – definita nel libro settimo come una sostanza “debole” – ò ora additata da Aristotele come di fondamentale importanza per poter capire il mutamento a cui son soggetti gli enti fisici, poichè – affinchò ci sia mutamento – deve per forza esserci materia: il mutamento (metabolh) consiste appunto nel passaggio da un sostrato ad un altro. Come potrebbe verificarsi il mutamento locale, quello di accrescimento e di diminuzione, quello di generazione e corruzione, nonchè quello di alterazione, senza la materia? Rispetto al settimo, l’ottavo libro guarda la materia e la forma alla luce della distinzione tra potenza e atto: la superiorità  della forma sulla materia viene ribadita nella nuova veste della superiorità  dell’atto sulla potenza; sembrerebbe che ogni cosa, per passare in atto, debba prima attraversare lo stadio della potenza, ma questo non ò vero in assoluto: al contrario, ogni cosa in potenza, per poter passare in atto, necessita l’azione di un qualcosa che sia già  in atto (così l’uovo – gallina in potenza – ha bisogno dell’azione di una gallina già  in atto per poter raggiungere anch’esso lo stato attuale). Aristotele spiega che l’essenza (ousia) e la forma (morfh) coincidono, ovvero che l’essenza e la cosa intesa come forma sono la stessa cosa (così l’essenza dell’anima e l’anima sono un tutt’uno). Il libro nono ò dedicato pressochò interamente alle nozioni di potenza (dunamiV) e atto (enteleceia): sembrerebbe, allora, non avere rapporti con le parti precedenti dell’opera, ma non ò così; infatti, se guardiamo ai vari significati dell’essere, tracciati nel libro sesto, ci accorgiamo che, tra i tanti, campeggiava anche quello dell’essere secondo la potenza e l’atto. Ora Aristotele concentra proprio su tale problematica la propria attenzione: nel libro sesto aveva trattato dell’essere nei suoi significati “deboli” (accidente e vero), nel settimo e nell’ottavo aveva invece indagato sull’essere come categoria e come sostanza. Ora, a conclusione del percorso preannunciato nel libro sesto, non resta che esaminare l’essere come potenza e come atto: per capire che cosa sia l’essere secondo potenza e atto sarà  tuttavia opportuno comprendere preventivamente che cosa realmente si debba intendere per potenza e atto, in modo tale da dissipare ogni dubbio a riguardo. Abbiamo già  accennato a come l’atto stia prima della potenza (perchè ogni cosa in potenza ha bisogno di qualche cosa in atto che la faccia a sua volta passare in atto), ma ciò non toglie che nella sua trattazione Aristotele si soffermi prima sulla potenza, poichè siamo abituati a vedere le cose prima in potenza, e poi in atto (pensiamo all’uomo come attualizzazione del bambino: il bambino, per noi, viene cronologicamente prima, giacchò ciascuno, prima di diventare uomo, deve passare per la fase di bambino). Quali sono, dunque, i significati di “potenza”? Innanzitutto essa significa il principio di movimento o mutamento attivo che ò in un altro o nella cosa in quanto altra; in secondo luogo, significa il principio di movimento o mutamento passivo che ò in un altro o nella cosa in quanto altra; in terzo luogo, “potenza” significa la proprietà  per cui un ente ò in grado di non patire mutamento in peggio, cioò distruzione per opera di un altro ente o di sè in quanto altro. Infine, “potenza” designerà  tanto la capacità  di agire o patire in generale, quanto quella di agire o patire in modo conveniente. Ma potenza attiva e potenza passiva finiscono per coincidere, soprattutto se pensiamo che un qualsivoglia ente ò dotato di potenza se può far patire un altro ente o patire esso stesso ad opera di un altro ente. Impotenza sarà  invece la privazione (sterhsiV) di potenza. Esistono poi potenze razionali (dunameiV meta logou) e potenze irrazionali (dunameiV alogoi), dove la differenza sta nel fatto che quelle razionali sono reperibili esclusivamente in quegli enti equipaggiati della ragione (rientrano in questa categoria anche le scienze poietiche); solo le potenze razionali, poi, possono produrre ambedue i propri contrari, mentre le irrazionali solo uno: così il freddo (potenza irrazionale) può produrre solo il freddo e in nessun caso il caldo, mentre la medicina (potenza razionale) ò al contempo scienza della salute e della malattia. Ciò comporta che, nel caso delle potenze razionali, intervenga un principio tale da decidere l’attualizzazione di uno dei contrari: tale principio risponde al nome di desiderio e di scelta razionale. La potenza, oltre ad essere principio del movimento, corrisponde alla materia: tuttavia, ogni movimento ò atto e, contemporaneamente, la forma e la sostanza sono “atto” (energeia e enteleceia hanno il medesimo significato). Ciò però non comporta che atto e potenza si identifichino, come invece credevano i Megarici, ad avviso dei quali c’ò la potenza quando c’ò l’atto (per cui ha potenza di costruire solo chi sta costruendo in atto). La dottrina megarica, se accettata, porta a conseguenze assurde, in quanto – se la potenza ò l’atto – nessuno potrà  mai possedere alcuna arte, dal momento che il costruttore, non appena smette di costruire, viene a perdere la sua arte, e così via; inoltre, non potrà  esistere alcun sensibile (freddo, caldo, ecc) se non sarà  sentito in atto e, contemporaneamente, non sarà  possibile dire che possiede sensibilità , se non chi sente in atto (chi cessa di vedere o sentire diventa così immedia

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