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Arnold Gehlen

Pensiero e vita.

Il “caso” Gehlen: un filosofo “conservatore” Arnold Gehlen ò un autore di una ponderosa opera antropologica, sviluppatasi in Germania dal 1927, anno della sua tesi di laurea, sino alla morte, avvenuta nel 1976. Gehlen resta un filosofo “problematico”, lontano dalle fascinazioni di “scuola” del XX secolo, capace di interessarsi dei più recenti sviluppi delle scienze, mentre ancora si sentiva legato alla tradizionale antropologia filosofica d’inizio ‘900, inaugurata da M. Scheler ed H. Plessner. Un “filosofo” nel senso etimologico del termine, che si ò reso, nel tempo, antropologo, biologo, etologo, sociologo ed infine teorico delle istituzioni e “moralista”. Le controverse scelte teoriche di Gehlen riflettono, d’altra parte, una biografia difficile da raccontare senza tener conto degli sconvolgimenti politici subiti dal suo paese nel secolo appena trascorso. Nato a Lipsia nel 1904, Gehlen visse, negli anni della sua giovinezza, l’ascesa di Hitler al potere e la costituzione del regime nazionalsocialista in Germania. Iscrittosi nel 1933 al Partito nazional-socialista, divenne da allora un docente universitario rappresentativo del partito e venne assegnato a ricoprire, di volta in volta, cattedre da cui venivano allontanati intellettuali invisi al regime, come il “pacifista” p. Tillich, dell’università  di Francoforte, e successivamente il suo stesso maestro di Lipsia, H. Driesch. In breve tempo Gehlen, grazie alla sua vicinanza al partito, raggiunse l’apice della carriera accademica con il trasferimento, nel 1940, come docente “tedesco”, all’università  di Vienna, recentemente occupata dal nascente “Terzo Reich”. Proprio in quell’anno, però, iniziava ad allontanarsi ideologicamente dal nazionalsocialismo, per via della fredda accoglienza ricevuta dal suo scritto L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, opera fondamentale della sua antropologia, in cui il tentativo di una fondazione filosofica, oltre che biologica, dell’Uomo conduce a smentire – a parte qualche marginale ed opportunistica citazione da Rosenberg – le illazioni pseudo-scientifiche sulla presunta “bestia bionda” ariana, che costituivano la base della propaganda razzista del regime. Il “libro” dell’antropologia filosofica Il 1935 rappresenta nella lunga ricerca gehleniana l’anno della svolta in senso antropologico. Dopo aver per lungo tempo polemizzato nei suoi scritti sia contro l’idealismo attardato di una parte della scuola tedesca, sia contro il nascente esistenzialismo di stampo heideggeriano, colpevoli, a loro modo entrambi, di dimenticare la vitalità  dello spirito umano, e quindi di essere incapaci di cogliere realmente la condizione dell’Uomo contemporaneo, Gehlen avvertì, finalmente, che l’Uomo occidentale rischiava inesorabilmente di escludersi dalla possibilità  di una determinazione responsabile della propria natura. Seguendo così l’esempio della filosofia nietzscheana, Gehlen tentò un avvicinamento all’esperienza umana che fosse capace di comprenderla evitando le barriere della teorizzazione, ed allo stesso tempo la superficialità  e la mera “presa di coscienza” della “riflessione immediata” esistenzialista. Ovviamente, qui s’intende riferire il senso della ricerca gehleniana, senza entrare nel merito delle sue asserzioni, che rientrano d’altra parte, almeno nella prima fase della sua “svolta” antropologica, nel quadro della cosiddetta “Critica della cultura” – Kulturkritik –, nata con lo scritto di O. Spengler del 1920, “Il tramonto dell’Occidente”, che teorizzava la fatale decadenza della nostra civiltà  “faustiana”, entrata ormai nella sua fase “cesariana”, “militare” e “tecnica”. Le considerazioni pessimistiche sul declino e la “decadenza” della nostra cultura conducono Gehlen verso un tentativo di riappropriazione del senso dell’umanità  dell’Uomo. “Der Mensch” giustifica la necessità  di un’antropologia “filosofica” proprio a partire dall’urgenza di questa riappropriazione. C’ò un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale ò necessaria un’”immagine”, una formula interpretativa. (A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Milano, Feltrinelli, 1983, p. 35) La necessità  di un’interpretazione conduce il filosofo a pensare la sua antropologia come risposta latamente “pedagogica”: a. riconduzione delle diverse ricerche delle scienze cosiddette “umane” e “biologiche” alla domanda fondamentale sul senso della nostra esistenza e della nostra appartenenza alla natura; b. avvertimento della ineludibilità  di una “questione antropologica”; ed infine c. riscoperta del senso di un essere che vive costantemente come conflitto l’estraneità  del mondo nel quale si trova a dover sopravvivere. Ma l’intento “pedagogico” gehleniano si rivela particolarmente diretto, infine, ad una nuova concezione della “socialità ” umana, come sviluppo determinante della nostra natura. La domanda… circa se stesso significa: circa le proprie pulsioni e qualità  percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi. Questo però vuol dire che l’Uomo deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri. (A. Gehlen, L’ Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 35) “L’argomento Uomo ò il più complesso che si dia in generale ” Quest’avvertimento ricorre spesso negli scritti gehleniani, ed indica chiaramente come la ricerca antropologica, quando voglia essere condotta in modo “filosofico”, cioò sovradeterminata rispetto alle singole interrogazioni sull’Uomo, risulti inevitabilmente stratificata e non possa condurre ad una “risposta” semplice alla sua urgente interrogazione. Quello che interessa qui ò però mostrare come sia stato possibile, per un intellettuale del Novecento, concepire un progetto, che potrebbe definirsi “ingenuo”, di una unitaria sistemazione “elementare”, “biologica”, “generale” e quindi “filosofica” dell’Uomo, e come, nell’ingenuità  di questa “visione complessiva”, si riveli la profonda difficoltà  della filosofia a raccontare l’”esperienza” dell’umano. Nietzsche (…) definì l’”Uomo” come l’”animale non ancora definito”. Quest’espressione ò esatta, e ha un senso duplice. In primo luogo vuol dire: non sussiste ancora un accertamento di ciò che l’ Uomo ò propriamente; e, in secondo luogo: l’essere umano ò per qualche verso “incompiuto”, non “costituito una volta per tutte”. (A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 36) Eppure l’antropologia deve partire dalla possibilità  che il proprio oggetto d’indagine sia univoco, unico, unitario. Si giunge così a dover ammettere che, se pure la filosofia gehleniana tende ad un qualche “monismo” rappresentativo, il metodo antropologico non può che essere immerso in una pluralità  di metodi, che a loro volta indagano una pluralità  di “possibili” Umanità . L’antropologia gehleniana, nel tentativo di evadere dalla particolare situazione di impasse epistemologico si vuole a questo punto come “antropo-biologia”: Penso io stesso in termini biologici. Mi si conceda, infatti, il presupposto (…): che nell’Uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato. (A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 41) La costituzione del corpo umano risulta “originale” ed “imprevista”, una sorta di “deviazione” dalla legge evolutiva naturale che vuole l’organismo “adattato” ad un “ambiente” particolare. Di fatti, secondo Gehlen, l’Uomo rappresenta in generale un “essere manchevole” (sorprendentemente richiamandosi qui al Mà¤ngelwesen marxiano), sprovvisto di organi specializzati con cui “adattarsi” alla natura di un “ambiente” particolare. All’Uomo non corrisponde un ambiente, un habitat (Umwelt) particolare ed ò stato costretto, da questa essenziale deficienza, ad “aprire” letteralmente la propria costituzione, “maneggiando” il mondo esteriore, adoperandolo al fine di “costruire” un Mondo (Welt) che si confacesse alla sua sopravvivenza. L’essere umano risulta quindi essere “ingenuo” per eccellenza, costretto a “fare esperienza” del Mondo, per renderselo “familiare”, ovvero “assoggettarlo”. L’appropriarsi del mondo ò un’appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno ò una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo in uno con la sua costituzione ò sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita. (A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 78) L’esigenza di una “conduzione” (Zuchtung: che significa essenzialmente, “disciplina”), deriva dalla mancata specializzazione, oltre che strettamente “organica”, dell’essere umano dal punto di vista “pulsionale”. Di fatto, l’assenza e l’inutilità  di comportamenti “istintivi”, in un essere che non possiede un “ambiente” a lui con-specifico, costituisce il motivo della sfrenata vita “pulsionale” umana. Il desiderio umano non conosce limiti “naturali”, in quanto propriamente non conosce “desideri naturali”. Eppure, poichè l’Uomo non ò in grado di “re-agire” all’ambiente, egli deve “agire”, e l’Azione, per poter essere condotta ad un esito favorevole, deve essere in qualche modo posta sotto una “guida” che sia estranea alle esigenze del presente, deve poter essere “progettata”. La sua stessa “eccedenza pulsionale” aiuta, a questo punto, l’essere umano che riesce a “godere” dei propri movimenti di “maneggio sul mondo”, e quindi a “desiderare” letteralmente di apprendere le “possibilità  esecutive” del proprio corpo in esse. Secondo Gehlen, la particolare “plasticità ” del corpo umano, non “specializzato” dal punto di vista strettamente naturale, ed in particolare la creatività  insita nel sistema di collaborazione dell’occhio con la mano, consentono infine all’Uomo di creare i presupposti per lo sviluppo “tecnico” delle proprie funzioni elementari, in vista del passaggio alle cosiddette funzioni “superiori”, o meglio “secondarie”, quelle del linguaggio, in primo luogo, quindi del pensiero, ed infine della socializzazione. Plasticità  (…) significa: da un ventaglio non ancora operante di possibilità  occorre far risaltare, mediante l’autoattività  nel maneggio delle cose, una scelta e costruire un variabile ordine di conduzione (…) essa significa sempre questa connessione di scelta automediata, architettonica (cioò rapporti variabili di conduzione e di subordinazione) e di adattabilità  a quasi ogni situazione, a differenza dell’adattamento già  predisposto. (A. Gehlen, L’ Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 200) “Con grande facilità  â€” avverte Gehlen — si commette l’errore d’ ordine generale di localizzare l’intelligenza dell’Uomo nella sua testa” (p. 397). Di fatti, condizione indispensabile della nostra intelligenza risulta essere la nostra particolare costituzione morfologica e sensoria, biologica in senso lato, il modo cioò “particolare” e “problematico” in cui l’Uomo giunge alla “vita”. La possibilità  di un padroneggiamento delle proprie azioni, in vista del “padroneggiamento” dell’ambiente circostante, deriva in effetti dalla particolare “situazione” esistenziale dell’Uomo. Mentre l’animale “vive” il Mondo a partire ed in vista del proprio corpo, l’essere umano ò in grado di “situare” la propria coscienza, in vista dell’azione futura, al di là  dell’immediatezza del presente. L’Uomo ò cioò in grado di “ignorare” il proprio corpo, e proprio in questa sua capacità , per così dire “ascetica”, risiede il segreto della sua “vitalità ” e del suo sviluppo. Il principio che di fatto caratterizza maggiormente l’antropologia gehleniana in senso “pragmatico” ò quindi quello dell’ Esonero (Ent-lastung: ovvero lo “s-gravarsi” dal peso della situazione contingente in vista di una sua futura soluzione). L’Uomo deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioò trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità  di conservarsi in vita. (A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 63) Il nostro “vedere” (sehen) tende immediatamente a divenire “visione panoramica” (à¼ber-sehen: che ò anche tralasciare, non vedere, vedere di scorcio) delle cose in vista della loro “utilizzabilità ” pratica in quanto “oggetti” a noi disponibili. L’intelligenza umana consiste nella capacità  di ridurre la “resistenza della cosa” (“Sach-zwang”: imposizione della “cosa”) ad “Oggettività ” (“Sachlichkeit”: cosalità ), ad “abitudine” cui ò premessa una “presa” di posizione spontanea verso la “cosa” stessa, considerata nell’ambito del Mondo propriamente “tecnico”, ovvero “culturale”, che l’Uomo ha saputo costruire per se stesso. Il “dopoguerra” Mai A. Gehlen si presentò in divisa di partito ai propri studenti, nè si può dire che rimanesse particolarmente affascinato dai desideri di conquista dei “pangermanisti”. Egli apparteneva piuttosto a quell’alta borghesia tedesca che aderì al nazionalsocialismo per un’ideale conservatore e patriottico, frustrato dalla situazione post-bellica. La sua collusione con il partito fece in modo comunque che, dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del regime nazista, Gehlen venisse senz’altro allontanato dall’insegnamento in Austria e quindi assegnato a coprire cattedre di minor rilievo in Germania. Nel 1945, spinto da interessi di ricerca nuovi, e forse anche dalla particolare situazione tedesca nel secondo dopoguerra, Gehlen dichiarò infine di aver abbandonato la filosofia – a suo dire capace, ormai, di risolvere unicamente questioni dogmatiche – in favore di studi sociologici che lo avrebbero condotto ad una profonda revisione dei suoi scritti filosofici, nonchè a nuove polemiche con gli intellettuali tedeschi che lo considerarono un filosofo di regime divenuto, con la democrazia, teorico della “conservazione”. In particolare con “Le origini dell’Uomo e la tarda cultura”, del 1956, la sua sociologia si propose infatti, come “teoria delle istituzioni”, ritenute necessario freno della tradizione contro la dispersione dei saperi e la disgregazione sociale che travolgono l’Uomo contemporaneo. Le istituzioni mettono al sicuro una parte dell’esistenza e dell’efficacia dell’Ideale, e in ultima analisi quindi lo servono, se sottraendolo all’infido terreno della soggettività  lo conducono sul solido piano delle realtà , dei bisogni e degli interessi ragionevoli. (A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica (1956), Milano, SugarCo, 1984, p. 203) Nel 1957, forse in risposta ad Heidegger, Gehlen scrive L’Uomo nell’era della tecnica, testo con il quale egli ritiene di adottare il metodo nuovo ed originale della psicologia sociale per smentire le “trenodie malinconiche” dell’idealismo di fronte all’avvento dell’era tecnologica. La critica storico-culturale, largamente affermatasi in Germania fin dalle opere di Nietzsche e di Spengler, rinuncia di rado ad una certa intonazione polemica nei confronti della tecnica. àˆ questo un sintomo evidente del fatto che la nostra società  non ha ancora concluso l’interno conflitto con i mutamenti radicali verificatisi nel suo seno a seguito dell’industrializzazione. (A. Gehlen, L’Uomo nell’ era della tecnica, cit., p. 9) Essenziale per Gehlen rimane il fatto che: La tecnica ò vecchia quanto l’Uomo (…) E già  il rozzo cuneo di pietra focaia nasconde in sè la stessa ambiguità  che oggi ò propria dell’energia atomica: era un utensile da lavoro ed in pari tempo un’arma micidiale. Nell’Uomo qualsiasi trasformazione degli aspetti originari della natura al servizio dei propri scopi ò intrecciata fin dagli inizi alla lotta con i suoi simili… (A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 10) Il decadentismo ed il nichilismo, che avevano trovato in Gehlen una prima risposta nell’antropologia, possono ora considerarsi superabili sulla base di una nuova constatazione prettamente “sociologica” Non si può conservare la cultura accanto all’apparato [delle nuove tecnologie: n. d. r. ] ma solo salvarla inserendola in esso. (A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 202) E la spersonalizzazione, che gli idealisti lamentano nella nuova era tecnologica, rivela in realtà  che il culto dell’individuo ò meramente culturale… Una personalità : ò questa un’istituzione per un solo caso. (A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 204) L’ultima fase del lavoro gehleniano fu dedicata alla polemica con alcuni filosofi emergenti del ’68 tedesco, assertori dell’utopia del “nuovo Uomo”, proprio in quanto la sua nozione di “intellettuale” lo spinse, sino all’ultimo, a rifiutare la possibilità  che il presente potesse essere ideologicamente strumentalizzato in vista di quello che per lui rimaneva, comunque, un ideale metafisico. L’opera di A. Gehlen si presenta, infine, proprio nell’ambiguità  e nell’”ingenuità ” di certe sue prese di posizione, come lavoro di intensa ricerca, continuo “fare esperienza” dell’inattingibilità  dell’uomo contemporaneo.

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