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Bentham

Pensiero e vita.

La vita e il pensiero Filosofo e giurista, nato a Londra il 15 febbraio 1748, mortovi il 6 giugno 1832. Fu d’ingegno assai precoce, tanto da poter leggere a tre anni, parte della History of England di P. De Rapin, e iniziare l’anno seguente l’apprendimento del latino. Studiò a Westminster, quindi all’università  di Oxford dove conseguì il grado di baccelliere (1763) e di “maestro in arti” (1766). Indirizzato dal padre all’avvocatura, cui non intendeva dedicarsi, la esercitò per breve tempo, e si volse quindi agli studi filosofici, avvicinandosi particolarmente alle dottrine di Locke, Hume, Beccaria, Montesquieu, Helvètius. Pubblicò, anonimo, nel 1776, il suo primo lavoro, “A Fragment of Government”, in cui attaccava violentemente la costituzione inglese e indicava nel principio utilitaristico il fondamento delle dottrine etico-giuridiche. Compì, nel 1785, passando per l’Italia e per Costantinopoli, un viaggio in Russia (per visitare il fratello, ingegnere navale di Caterina II) e là  scrisse la “Defence of usury” (1787). Tornato in Inghilterra, pubblicò la sua opera principale cui attendeva da molti anni: “Introduction to the principles of Moral and Legislation” (1789) intesa alla ricerca di solidi princìpi, dal punto di vista dell’utilitarismo, per una sana legislazione. L’opera gli diede larga fama in Europa e in America. Essa ò anche la sola, fra le maggiori, scritta interamente di suo pugno. Nel resto delle sue opere Bentham ebbe a collaboratori discepoli e seguaci, primo fra essi il ginevrino Dumont conosciuto a Londra, il quale, oltre alle traduzioni, ne redasse e pubblicò in francese i “Traitès de lègislation civile et pènale” (3 voll. Contenenti varie opere di Bentham: Principes gènèraux de lègislation; Principes du code civil; Principes du code pènal; Mèmoire sur la panoptique; De la promulgation des lois, ecc., Parigi 1802); e inoltre la “Thèorie des peines et des rècompenses” (1811); il “Traitè des preuves judiciaires” (1823), e altri scritti. Uscì postumo “Deontology or the Science of Morality” per cura di J. Bowring (Edimburgo 1834). Bentham, per oltre 20 anni, si interessò anche a progetti filantropici, e principalmente alla riforma dei penitenziari (pensava ad un tipo di carcere in cui, da un punto centrale ogni parte fosse visibile, denominato dal greco “panopticon”). Nonostante i suoi progetti fossero stati presi in considerazione dal Parlamento inglese, non approdò ad alcun risultato, pur avendone largo compenso in danaro. Le opere di Bentham, che restano una ricca sorgente di idee legislative, studiate da politici e giuristi, influirono, nel periodo della restaurazione, su varie legislazioni d’Europa e d’America. In Inghilterra le idee del filosofo ebbero larga diffusione, grazie soprattutto alla Westminster Review, da lui fondata, in collaborazione con James Mill, nel 1823, come organo radicale in opposizione alla conservatrice Edimburg Review. La rivista attrasse attorno a sè un gruppo di fervidi collaboratori, primo fra tutti Stuart Mill. La riforma della legislazione inglese, del diritto processuale, civile e penale, in gran parte fu dovuta a Bentham. Bentham occupa un posto importante, oltre che nella storia della legislazione, anche nella storia del pensiero etico per la sua originale espressione, sistemazione e difesa dell’ utilitarismo. Educato dapprima al conservatorismo inglese, tradizionale e ortodosso, Bentham ebbe dalla lettura di Hume la prima rivelazione del principio utilitaristico che divenne il centro di tutta la sua concezione etico-giuridica. Non c’ò, egli osserva, a fondamento della condotta umana, quand’essa non si lasci influenzare da pregiudizi, particolarmente d’ordine religioso, altro movente che quello della felicità . Il piacere e il dolore inerente o connesso con le nostre azioni ò, in fondo, il vero e unico motivo che le determina. Anche quella che si chiama ed ò sentita come “obbligazione” morale non si concepisce nè si spiega altrimenti che come necessità  di porre o tralasciare un’azione perchè ciò serve o ò indispensabile al bene dell’individuo e della società . Essa trova parimenti la sua sanzione principale nelle dannose conseguenze che un’azione contraria all’utilità  naturalmente comporta. Il principio utilitaristico diventa così insieme la base della morale e del diritto, e di conseguenza della legislazione, la quale dev’essere sottratta alle norme teoretiche del cosiddetto diritto naturale, e guidata unicamente dall’intento di realizzare ” la maggior felicità  possibile per il più gran numero possibile di individui “. Tale la formula sintetica del principio e della norma etico-giuridica, enunciata già  da Beccaria, cui Bentham si ispira. Identificato così il bene etico con l’utile e il male con tutto ciò che nuoce alla felicità , la morale viene concepita come un calcolo sapiente (che rievoca il “calcolo dei piaceri” di Epicuro) del più reale e fruttuoso interesse di tutti. Infatti l’interesse dei singoli, se bene inteso, si accorda in definitiva con l’interesse generale: e i limiti che questo impone all’egoismo del momento sono compensati dal risultato finale ch’ò una somma maggiore di felicità . Bentham si addentra quindi in una sottile descrizione dei motivi delle azioni, di cui costruisce estesissime tavole, e in un’analisi minuziosa delle varie classi di piaceri, tentando di determinare il loro rispettivo apporto, immediato e mediato, alla somma finale della felicità . In generale il piacere va considerato: 1) da parte dell’oggetto, nella sua intensità , durata, certezza, accessibilità , fecondità , purezza da mescolanza di dolore, estensione a una maggiore o minore moltitudine di individui. 2) Riguardo al soggetto. Il piacere infatti ò relativo, per cui, nel computo dei piaceri entrano come fattori di decisione e scelta tutte le varianti ambientali e individuali. 3) Nel suo aspetto sociale, poichè appunto l’interesse privato ò intimamente connesso con quello generale. Un delitto, ad esempio, va visto non solo in quello che di bene o male reca a chi lo compie, ma in tutte le risonanze che determina nella società , di danno, incertezza, paura, ecc. In rapporto a questo calcolo del valore quantitativo dei piaceri, che, per la maggior parte delle azioni umane, ò già  stato fatto dall’esperienza dei secoli, Bentham, enuncia la norma concreta e universale dell’azione: se prevale la somma dell’utile, e soltanto allora, l’azione va compiuta. L’etica benthamiana, equivalente, come si vede, a una tecnica e a un’aritmetica del piacere e dell’utile, si discosta, per questo carattere, dall’edonismo cirenaico – vòlto unicamente al piacere attuale e presente – con cui pure sostanzialmente concorda nella riduzione della felicità  a bene e godimento empirico. In ciò ò anche il suo errore e la sua intrinseca insufficenza. Indubbiamente Bentham, valorizzando il principio dell’utilità , ch’ò pure parte integrante in un sistema generale di etica, seppe portare un valido contributo al diritto e alla sua codificazione (la parola ò di Bentham). In ciò va considerato il suo apporto positivo. Inoltre molte delle sue conclusioni stanno e si reggono indipendentemente dai princìpi dell’utilitarismo. Bentham (1748-1832) diede la formulazione più compiuta dell’utilitarismo. Nel suo “Frammento sul governo” pubblicato a soli ventotto anni, nel 1776, riprendendo l’idea illuministica che nell’attività  politica bisogna promuovere “il massimo bene per il massimo numero di persone”, propone la dimostrazione che questo scopo ò conseguibile solo con una riforma politica in senso democratico. La sua opera maggiore, tuttavia, ò “Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione” (1798), in cui egli si prefigge di dare alla moralità  e alla politica il carattere di scienza rigorosa. Esse, a suo avviso, devono quindi esser fondate sull’analisi dei fatti. Tra questi, quello fondamentale ò che ” la natura ha posto l’umanità  sotto il governo di due sovrani, la pena e il piacere “. Dunque l’uomo agisce “naturalmente” in vista del piacere, e tende ad eliminare il dolore, a tutti i livelli del suo comportamento, sia a quello privato che a quello sociale, economico, politico. Pertanto egli fa coincidere la sua felicità  col godimento del piacere. Bisogna fondare, allora, un sistema etico ed una dottrina politica che s’incentrino sul principio della “ricerca del piacere”, in modo che il comportamento etico dell’individuo e l’azione politica del legislatore abbiano un fondamento “naturale”, oggettivo. Ma perchè morale e politica possano massimizzare il piacere, ò necessario che esse abbiano un carattere scientifico, anzi, i caratteri della scienza matematica. Il che ò possibile: si può infatti, induttivamente, ricavare una tavola in cui siano indicati i princìpi della misura dei piaceri e dei dolori, la loro classificazione per specie, e la catalogazione delle diverse sensibilità  individuali rispetto ad essi. Relativamente alla misura, Bentham specifica che il valore di un piacere ò in rapporto ai seguenti elementi: intensità , durata, certezza, prossimità , fecondità  (capacità  di produrre altri piaceri) e purezza (assenza di connessi dolori). Sulla base di questa tavola, ò possibile procedere al calcolo aritmetico del rapporto piacere-dolore in relazione ad una determinata azione da compiere. Per quanto attiene all’aspetto etico di questo discorso, Bentham dà  per equivalenti il bene e il piacere; la virtù, perciò, coincide con la naturale ricerca della felicità , ma in quanto guidata dal calcolo razionale con il quale l’uomo “regolarizza” l’egoismo ed orienta l’azione al conseguimento dei piaceri piຠpieni; essa si risolve nella capacità  di misurare e classificare piaceri e dolori in relazione alla sensibilità  individuale e alle condizioni concrete in cui si agisce, e di scegliere in conseguenza. La moralità  di un comportamento non ò determinata o qualificata dalle intenzioni o dagli ideali, ma dalle sue conseguenze: cattiva ò l’azione che inibisce o limita l’acquisizione di un massimo piacere; perciò non ha senso, per Bentham, parlare di “coscienza” o “senso morale”, nè di “obbligo etico”: questi, per lui, non sono che “nomi vani”. Quanto poi all’attività  del legislatore, essa sarà  legittima se promuove la massima felicità  per il maggior numero possibile di persone, sulla base della tavola sopra indicata. A questo scopo devono ispirarsi i suoi poteri di promozione o di limitazione dell’attività  individuale, non a valori astratti. I “diritti naturali” affermati dalla Rivoluzione Francese, dice Bentham, sono concetti vuoti; che cos’ò infatti lo stesso diritto alla libertà ? Se fosse un diritto assoluto esso, a rigore, annullerebbe per sè il valore della norma di diritto, perchè questa comporta sempre una limitazione della libertà  stessa. Lo scopo dell azione politica, dunque, non ò la libertà , ma l’utilità  individuale e collettiva, che sola può costituire anche il criterio con cui il legislatore può armonizzare libertà  e coercizione. L’attività  di governo deve quindi favorire, anche sul piano economico, l’ egocentrismo, che non solo ò naturale ed ineliminabile, ma anche razionale e desiderabile, perchè la ricerca dell’utile individuale ò la condizione primaria dell’utilità  sociale, e quindi della felicità  collettiva. A differenza di Malthus e di Ricardo, Bentham non ò però favorevole al “laisser-faire” dei liberisti più sfrenati: il potere del governo, egli sostiene, deve intervenire con sanzioni legislative per regolamentare la libertà  individuale in economia; esso, mirando a far coincidere l’interesse privato con quello pubblico, deve promuovere e compensare le iniziative economiche che producono il maggior beneficio per tutti, e limitare o penalizzare le attività  che, nate o condotte in vista del puro egoismo, diminuiscono il benessere collettivo. Va però detto che la sistematica concezione di Bentham morale ristretta entro gli angusti limiti dell’empirismo, non ò in grado di salvare la norma etica dal relativismo, e quindi, semplicemente, di conservarla in quanto tale. Identificando il bene morale con l’utile si cessa di riconoscere, accanto al puro interesse, egoistico o sociale che sia, un valore superiore universale di bene che valga per se stesso e si imponga all’uomo in quanto essere spirituale. La stessa incomprensione il Bentham dimostra nei confronti della religione cristiana e poi della religione in genere, discussa in base al principio utilitaristico e giudicata più dannosa che utile all’umanità . Le sue idee in proposito furono svolte principalmente nell’ “Analysis of Religion”, pubblicata da Grote con lo pseudonimo di Ph. Beauchamp, nel 1822. Di Bentham furono messe all’Indice: “Traitès de Lègislation civile et pènale” (22 marzo 1819), “Traitè des preuves judiciaires” (4 marzo 1828), “Deontology” (20 gennaio 1835). Manzoni scrisse in confutazione di Bentham l’operetta “Del sistema che fonda la morale sull’utilità “, pubblicata come appendice al capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica”. La felicità  umana Per Bentham la filosofia non era una questione di ragionamento astratto, e se egli ò mai arrivato a formulare una complessa e rivoluzionaria dottrina filosofica, ò stato anzitutto sotto lo stimolo di problemi extrafilosofici, pratici e concreti, quelli connessi alla riforma della legislazione in Inghilterra. Egli lo affermava esplicitamente, ad esempio quando, parlando della sua filosofia, diceva che le sue definizioni e distinzioni ” sono lungi dall’essere mera materia di speculazione “. Esse anzi “sono suscettibili dell’applicazione più estesa e costante sia al discorso morale che alla pratica legislativa”. Il problema che sopra a tutti egli cerca di risolvere appartiene più alla giurisprudenza che alla filosofia, ed ò quello di adeguare il ferraginoso sistema di leggi dell’Inghilterra del suo tempo ai nuovi rapporti sociali che si stavano delineando in seguito alla rivoluzione industriale. Solo che il modo in cui risolse questo problema ha una grande rilevanza filosofica, e fa largo uso di una reinterpretazione della psicologia edonistica di derivazione empiristica (che traeva soprattutto da Locke e Hume), della nuova consapevolezza metodica delle scienze esatte del suo tempo, e dell’applicazione della matematica alla scienza sociale ed alla morale, in base all’idea della calcolabilità  del bene, resa possibile appunto dalla sua identificazione con l’utile del maggior numero. L’etica di Bentham pone al suo centro il problema della felicità  umana, nel solco di una tradizione che risale all’etica classica. L’etica ò anzi da lui definita come ” l’arte di dirigere le azioni degli uomini verso la produzione della maggior quantità  possibile di felicità  per coloro il cui interesse ha di mira “. La felicità  ò identificata col piacere, senza differenze qualitative tra piaceri “nobili” e “bassi”: la differenza può essere solo quantitativa, tra piaceri più forti e duraturi ed altri precari e passeggeri (che sono i fugaci piaceri connessi ai comportamenti viziosi). Ognuno ò libero di perseguire ciò che più gli dà  piacere: l’etica lo orienta peraltro verso un piacere che possa essere puro (non mischiato a dolori) e duraturo. L’omogeneità  qualitativa dei piaceri tra loro rende possibile indicare con scientifica precisione, attraverso il calcolo morale, i comportamenti che consentono di creare la maggior quantità  totale di piacere, quel “maggior bene per il maggior numero” che era il criterio ultimo della morale di Bentham. Tutta questa produzione di piacere e felicità  ha di mira anzitutto la propria felicità , in quanto nell’etica benthamiana ha un ruolo centrale la virtù della prudenza, che consiste nella capacità  di fare il proprio dovere verso se stessi, in vista del proprio bene e del proprio interesse. Ora, per quanto secondo Bentham i propri interessi siano gli unici che un uomo ha adeguati motivi per seguire – in accordo alla psicologia edonistica, secondo la quale il piacere ò appunto la guida dell’uomo in tutte le sue scelte consapevoli – la morale gli dice che egli ò tenuto a tener conto anche di interessi diversi dai suoi, per moventi certo meno forti del proprio interesse immediato, come la naturale tendenza alla benevolenza, e il desiderio di ottenere amicizia e reputazione. Così universale ò questo comandamento dell’etica, volto alla massimizzazione del piacere, da includere in esso anche gli animali. Sussurri della moralità  e tuoni della legge Naturalmente Bentham non si nasconde che il peso che gli interessi altrui hanno sulle decisioni umane ò molto debole, se questi interessi confliggono con i propri. Ed ecco perchè ” i sussurri della moralità  ” vanno rinforzati con ” i tuoni della legge “, in modo da creare dei moventi dissuasivi precisi a qualunque azione che (avendo di mira il proprio interesse egoistico) diminuisca la quantità  generale di felicità . Se questa regola sarà  rispettata, non ò neanche necessario che le pene siano particolarmente rilevanti (Bentham ad esempio ò contrario alla pena di morte): l’importante ò che siano certe, e proporzionate al reato. Si respira in queste pagine di Bentham una grande fiducia nei mezzi della ragione umana, se essa viene messa in grado di dare ordine alla vita degli uomini. Anche qui, come in Locke e Paley, ci si vale delle pene e delle punizioni, ma non si ricorre ad un essere sovrumano ed onnipotente per questo: visto che ciò che conta sono le azioni, e non le intenzioni, non ò necessario uno ” scrutatore dei cuori “. Bentham si accontenta di un sistema razionale di leggi, e – certo – di un efficiente apparato di polizia, in grado di scovare i trasgressori, e di non far pesare la speranza dell’impunità  nel calcolo razionale di chi ò tentato – per i propri moventi egoistici – dal commettere un reato. Egli dunque oggi potrebbe essere annoverato, rispetto a questa parte della sua concezione, tra i sostenitori di quelle teorie morali che sono state definite recentemente ” utilitarismo delle regole “, teorie che si sono affermate soprattutto negli Stati Uniti, e che (tenendo conto della preferenza degli individui per il proprio interesse personale) rinforzano le motivazioni al comportamento etico con un sistema di “regole” (le leggi), connesso ad una serie di sanzioni per la sua violazione. A parte questo, per l’utilitarismo delle regole l’individuo ò considerato libero di fare quello che vuole per massimizzare il suo interesse, senza che nessun suo comportamento, anche il più egoistico, sia nemmeno criticato dalla morale, fin quando non lo porta a violare la legge. Naturalmente c’ò qui un problema, che viene dal fatto che ogni utilitarismo delle regole “puro”, che lasci l’individuo determinato in ultima analisi solo dal proprio interesse egoistico, si espone all’antica domanda che nella “Repubblica” platonica Glaucone poneva a Socrate: ‘se sono certo di non essere scoperto quando commetto un reato che massimizza il mio piacere individuale, a discapito di quello altrui o di quello della collettività , perchè mai non dovrei commetterlo? ‘ La risposta che Bentham dava a questa domanda si discosta dall’utilitarismo puro delle regole, ed ò basata su un postulato indimostrato: non devo commettere il reato perchè in ultima analisi l’interesse del singolo, correttamente inteso, coincide con quello della società . Il paradosso storico sta qui nel fatto che se si legge la “Repubblica” platonica fino in fondo, col suo complesso repertorio lussurreggiante di miti poetici ed immagini fantasiose, refrattarie certo a qualunque moderno calcolo utilitarista, si ottiene la stessa risposta. Il risultato dell’antica tradizione filosofico- religiosa coincide dunque con quello della più scaltrita riflessione etica moderna, armata dei nuovi strumenti della psicologia, dell’economia politica e della matematica. Il metodo classificatorio Se dovessimo fermare qui la nostra analisi, ò evidente che dovremmo concludere che tutta la decisiva “rivoluzione” di Bentham e dei “benthamiti” non ò approdata a nessun risultato sostanzialmente nuovo per il pensiero etico. Ciò può sorprendere, ed indurre anche una certa perplessità , se si guarda alla solennità  di alcuni proclami benthamiani, e al modo derisorio e caricaturale con cui parla di gran parte della tradizione precedente. Ma in verità  la sua originalità  filosofica sta, molto più che nei risultati, nel metodo con cui egli conduce la sua analisi, il cosiddetto ” metodo naturale “. La convinzione che Bentham ha nella giustezza del suo modo di procedere, e la radicalità  con cui critica le posizioni tradizionali, deriva in effetti dall’idea che il calcolo razionale etico sia il modo di procedere cui naturalmente si ispirano tutte le creature viventi, nelle loro scelte individuali e nel giudizio su quelle altrui, come si vede dal brano riportato in esergo. La funzione della sua filosofia ò dunque duplice: da un lato una funzione critica nei confronti delle altre dottrine, che confondono il retto e naturale giudizio degli uomini, dall’altra ha una funzione orientativa per la condotta individuale e per l’elaborazione delle regole che devono guidarla: egli vuole fornire gli strumenti adeguati, all’altezza delle scoperte scientifiche a lui contemporanee, per aiutare gli uomini a scegliere secondo la loro natura (che ò ben altra cosa dallo scegliere in base all'”oscuro fantasma” della legge di natura). Per questo egli suddivide ed analizza l’agire umano, distinguendo puntigliosamente i vari tipi di piacere e dolore, le diverse circostanze che influenzano la sensibilità  degli uomini, le intenzioni che li muovono, le categorie delle loro azioni, i gradi di consapevolezza che hanno quando agiscono, etc. Al di là  di questo enorme apparato tecnico, ciò che conta ò appunto il metodo con cui tutta questa attività  classificatoria viene compiuta. Il grande modello ò qui uno scienziato, Linneo, che nella sua “Philosophia botanica” (1751) aveva analizzato e suddiviso i campi rispettivi della botanica e della biologia in base ai principi della fruttificazione ed a quello generale della procreazione. Aveva cioò riportato la complessità  del suo campo d’indagine ad un unico principio, scelto non arbitrariamente, ma in base alla natura dell’oggetto indagato. Ciò che ò essenziale nell’attività  classificatoria secondo Bentham, che segue appunto nel campo della morale l’esempio di Linneo, ò la naturalità  del principio ordinatore che viene scelto, che deve sempre essere quello che, in base alla natura dell’argomento, ò il più adeguato per ordinare quella materia. E Bentham era certo di essere in possesso di un principio adeguato, in campo morale, a svolgere la stessa funzione unificante e razionalizzante che il principio trovato da Linneo aveva per la biologia: per l’appunto, il principio di utilità , in grado di discriminare tra azioni giuste e sbagliate, e tra i vari gradi quantitativi per i quali un’azione può essere giusta o sbagliata, ovvero utile o inutile o dannosa. Lo sforzo gigantesco di analizzare, ordinare e spiegare tutta la vita umana alla luce di questo unico principio costituisce per Bentham la scientificità  della sua opera, e sarà  per lui al tempo stesso un formidabile strumento critico ed un limite oggettivo, che porterà  il suo autore a forzature ed inevitabili unilateralità  nell’analisi dell’animo umano, come si sforzerà  di mostrare il suo allievo più brillante, John Stuart Mill, nel suo impietoso saggio sul suo vecchio maestro.

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