I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 18
Analisi del Capitolo 18 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: Lecco, il paesello, il palazzotto di don Rodrigo, il monastero di Monza, il convento di Pescarenico, la casa del conte zio a Milano
Il tempo: dal 13 Novembre al 2 Dicembre 1628, con analessi dei due anni precedenti.
Il capitolo 18, insieme al successivo, funge da snodo narrativo e da raccordo tra le vicende di Renzo e quelle che attendono Lucia, così come è avvenuto nel passaggio dalle vicende dei due promessi sposi nei capitoli I-VIII alle vicende di Renzo a Milano con due capitoli di raccordo dedicati alla digressione su Gertrude ( cap. IX-X).
Questi due capitoli, peraltro, si trovano a metà esatta del romanzo di 38 capitoli e riguardano il personaggio che darà la svolta decisiva alla trama. La svolta è anche nel tempo del racconto: mentre nei primi 17 capitoli sono stati raccontati gli eventi di soli sette giorni (dal 7 al 13 Novembre), nel capitolo XVIII una brusca accelerazione permette di raccontare i fatti di venti giorni, fino al 2 Dicembre.
Il mandato di cattura
Il capitolo si apre con un registro linguistico che rimanda alla digressione sulle gride del capitolo I. a dominare è il linguaggio della polizia e della burocrazia, di cui il narratore utilizza, parodiandoli, lessico, espressioni e sfarzo. Lo scarto ironico che si determina mette in ridicolo e denuncia sia l’uso del latino come prevaricazione sui più deboli, sia l’uso distorto dell’italiano. Quando la parola passa ai paesani cambia il registro, che presenta espressioni popolari, e anche il modo di vedere e di raccontare la storia di Renzo, che appare vittima del potere, anzi vittima che serve al potere per opprimere ingiustamente anche gli altri.
È la voce del narratore che ripristina la verità, denunciando il comportamento della giustizia che condanna un indiziato solo in quanto poveraccio, ma anche quello della gente, che vuole giudicare sulla base di semplici ipotesi. Il saccheggio della casa di Renzo ricorda l’invasione dei bravi in casa di Lucia, avvenuta solo tre giorni prima, ed è un altro esempio della violazione dello spazio della casa, considerato protettivo dai personaggi.
Reazione di don Rodrigo e del conte Attilio
Per rendere il capitolo un raccordo tra le vicende dei vari personaggi, le tecniche adoperate sono quelle tipiche: la concatenazione permette di passare dai paesani a don Rodrigo e, infatti, il passo precedente si chiude con senza la necessaria cognizione de’ fatti, il nuovo si apre con Ma noi, co’ fatti alla mano. In chiusura, invece, il narratore interviene con un’analessi, che permetterà di passare alle vicende di Agnese e Lucia.
La focalizzazione cambia in funzione dei personaggi e attraverso il loro punto di vista anche i fatti e gli altri personaggi assumono via via immagini diverse, espresse con lo stile e la lingua tipico di ognuno di essi. Don Rodrigo, dopo essere stato dieso dalle accuse ingiuste della gente, viene riportato alla sua malvagità e i suoi pensieri indiretti liberi rivelano ancora una volta la sua ottica straniata, che trasforma Renzo in un bandito e fra Cristoforo in un arrabbiato frate.
Le metafore che mettono in ridicolo il potente don Rodrigo creano straniamento e scarto ironico e preparano la scena ad un vero gigante del male, un misterioso personaggio e Rodrigo presenta con i toni di leggenda popolare: un uomo o un diavolo, un vero condottiero, sciolto da ogni vincolo sociale, politico e soprattutto morale, pericoloso per la gente comune, di cui lo stesso signorotto ha timore e perciò esita a chiedergli aiuto.
Lucia e Gertrude
Nel passo si confrontano due opposti femminili. Gertrude introduce Lucia nel suo mondo privato, perché Lucia, con la sua ingenuità e dolcezza, non rappresenta un pericolo, anzi è una sventurata come lei.
Lucia le rimanda, come in uno specchio, un’immagine gratificante, perché la ringrazia e la fa sentire buona, benedicendola in ogni momento e augurandole ogni bene; ecco perché a Lucia Gertrude può rivelare il suo tormento e ottenerne compassione, la pietà che i suoi occhi sembravano chiedere al suo primo apparire in scena (capitolo 9).
Agnese incontra fra’ Galdino
Ricompare in scena un personaggio minore, quasi una comparsa, che pure il narratore ricorda al lettore come se lo avesse incontrato solo poche pagine prima, definendolo quel delle noci. Con la sua mania delle belle prediche, il frate non si accorge neanche del dramma di Agnese, a cui dà risposte inadeguate con un effetto quasi comico. Il dialogo mescola, perciò, elementi tragici e comici e dimostra l’incomunicabilità dei due.
Sull’immagine della triste Agnese che si allontana, la lingua cambia registro con quel vezzeggiativo paesetto, che accomuna luogo e donna nella tenerezza, con la similitudine con il povero cieco e con il ritmo rallentato dal climax dei tre aggettivi, desolata, confusa, sconcertata, che sembra cadenzare il passo lento e sconsolato della donna.
Presentazione del conte zio
Il brano si apre con una metalessi che sottolinea l’onniscienza del narratore rispetto ai personaggi, mentre la successiva analessi chiarisce le ragioni dell’allontanamento di fra’ Cristoforo citato all’inizio del capitolo, che in questo modo si chiude in cerchio. Il passo completa anche la carrellata di personaggi con un personaggio secondario che giganteggia sulla scena per la sua nullità eccezionale: il conte zio, importante al punto da non avere neanche un nome, personaggio inventato ma probabilmente desunto dal vivo, ispirato a qualche personaggio della vecchia nobiltà da cui Manzoni stesso proveniva e che disprezzava profondamente. Anche la sua doppia qualità di conte e zio è emblematica di quella classe che assommava la doppia natura politica e familiare in un tutt’uno.
Le tecniche di presentazione sono quelle consuete: introdotto da Attilio nel capitolo XI, entra in scena, presentato brevemente dal narratore, che poi nel ritratto fornisce una serie di indizi sul suo carattere. Dopo la presentazione, vediamo in azione il nuovo personaggio, con il suo parlare ambiguo, a cui si aggiunge un soffiare in crescendo, che è il suo modo per aiutare un respiro lento e faticoso di vecchi, ma che egli sfrutta come segno di grande potere e che rivela allo stesso tempo la sua originaria goffaggine. Il conte Attilio è il suo doppio: stessa diplomazia e ambiguità, stessa capacità di manovrare l’altro a proprio vantaggio.
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