I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 19
Analisi del Capitolo 19 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: il palazzo del conte zio a Milano, il convento di Pescarenico, il palazzotto di don Rodrigo, la strada del palazzotto alla Valsassina.
Il tempo: analessi dei giorni precedenti al 30 Novembre fino al 2 Dicembre 1628; analessi degli ultimi decenni dei Cinquecento fino al 1628.
Il capitolo presenta un’ampia analessi dominata dal dialogo tra il conte zio e il padre provinciale, l’ultima delle varie analessi iniziate nel capitolo precedente. Finita questa, infatti, si tornerà al tempo della vicenda, la cui narrazione è stata interrotta quasi all’inizio del capitolo XVIII.
Il conte zio e il padre provinciale a colloquio
Punto di vista e linguaggio appartengono ai personaggi e creano sin dall’inizio scarto ironico. Sulle due podestà e le due canizie, la posizione del narratore non è quella di ammirazione come le parole potrebbero far supporre. Il conte zio sfoggia la sua abilità nel parlare ambiguo e tacere significativo, ma il padre provinciale capisce perfettamente la sua lingua e mette subito in atto i meccanismi per salvare l’immagine del proprio potere e dell’ordine.
La soluzione politica migliore, tuttavia, è quella suggerita dal conte, cioè insabbiare, perché dal fondo della politica c’è sempre il rischio che vengano fuori cent’altri imbrogli; di questa politica il conte fa lo scopo della sua vita, tanto che nell’unico momento di verità che emerge, per isbaglio, nel mezzo della messinscena teatrale del dialogo, rivela il rimpianto di non aver ormai il tempo necessario ad occupare un posto più alto. Il narratore non può esimersi dall’ironia quando riferisce, con un discorso indiretto libero, che, se avesse ottenuto quel posto, sarebbe morto contento.. Il padre provinciale sembra avere un attimo di consapevolezza dell’ingiustizia che si sta commettendo nei confronti di fra’ Cristoforo, ma se ne duolo solo perché comporta la sua sottomissione al potere nobiliare e per la rabbia, degrada il conte dandogli del “tu”, chiedendo poi un atto di sottomissione formale di don Rodrigo.
Il conte, che conosce il potere delle parole, smorza subito la pretesa del padre, affermando che non è un vero passo, un atto di cedimento al potere nobiliare, quello di allontanare fra Cristoforo e si avvale della forza del casato, minacciando addirittura di interrompere i rapporti coi padri cappuccini, con il rischio di coinvolgere i loro parenti al secolo, nobili, e persino sua eccellenza il governatore. Il padre è costretto a cedere e l’ironia amara del narratore denuncia che a far le spese dei giochini politici sono sempre gli umili innocenti.
Presentazione dell’Innominato
Il passo è uno snodo narrativo introdotto da una metalessi, un’intrusione del narratore in prima persona (Abbiam detto). La narrazione torna al momento in cui don Rodrigo, nel capitolo precedente, si è deciso a rivolgersi ad un uomo molto potente e terribile. La consueta analessi di presentazione al nuovo personaggio questa volta è preceduta da una metalessi metanarrativa, che mette in luce il processo creativo di chi voglia scrivere un romanzo storico e deve perciò fornire notizie storicamente vere, ricavandole da fonti storiche. Il vero storico, infatti, ha valore morale, perché educa al giusto comportamento e, pertanto, il lettore deve essere certo che quanto si racconta, per quanto incredibile, sia vero e storicamente accertato.
Tuttavia queste fonti non danno notizie certe del misterioso nobile: certamente Manzoni conosceva il nome del personaggio, Francesco Bernardino Visconti, feudatario del bergamasco, appartenente a quella famiglia Visconti che aveva governato a lungo Milano ed era stata tra le famiglie più illustri d’Europa. Francesco Bernardino aveva condotto una vita di crimini, era stato bandito dal governatore Fuentes, ma nella vecchiaia, in seguito all’incontro con il cardinale Federico Borromeo, si era pentito e aveva cambiato vita. Tuttavia, nel periodo del suo esilio, non abbandonò i suoi affari, anzi chi prima e chi dopo, tutti i tiranni,prima o dopo, dovettero scegliere se guadagnarsi la sua amicizia o inimicizia.
L’Innominato e don Rodrigo
Com’è accaduto per don Rodrigo, anche l’Innominato è presentato attraverso lo spazio in cui vive, usato come specchio del personaggio. Già i termini palazzotto e castellaccio sono emblematici della differenza sostanziale dei rispettivi proprietari: il palazzotto, con suffisso diminutivo spregiativo, dà l’idea della sede di un potere fatto di soprusi meschini, sulla povera gente di campagna; in castellaccio, invece, il suffisso peggiorativo accresce l’idea del castello come sede terribile di un potere tirannico assoluto.
Le dimore stabiliscono anche il modo diverso di essere tiranno. Don Rodrigo è un tiranno che ama le comodità e perciò non vuole scontrarsi apertamente né con gli altri né con la legge; il suo potere non è fondato sulla forza individuale, ma sulle alleanze e sull’intera classe cui appartiene. L’Innominato, invece, è uno che agisce, che ama trasgredire le leggi, che in città si scontra con gli altri per essere temuto da tutti e per ottenere un potere assoluto fine a sé stesso, senza cercare alcun alleato, ma permettendosi di sfidare anche i poteri che dovrebbero essere più forti del suo. Dal confronto con il mediocre don Rodrigo, la figura isolata dell’Innominato risulta ingigantita ed eroica, come quella di un vero principe del male.
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