I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 2
Analisi del Capitolo 2 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Il secondo capitolo dei Promessi Sposi si colloca in un arco temporale che va dalla notte alla mattina di mercoledì 8 Novembre 1628, ed è dedicato essenzialmente all’entrata in scena dei due protagonisti e alla loro caratterizzazione, attraverso cui si sviluppa il tema del rapporto tra istinti e controllo razionale e morale, che può essere così schematizzato:
- Predominio di quasi tutti gli istinti malvagi : don Rodrigo
- Uso della razionalità solo nella forma della furbizia : don Abbondio
- Conflitto tra istinti aggressivi e controllo morale : Renzo
- Predominio del controllo morale: Lucia
Il capitolo si apre con la notte di don Abbondio, l’eroe della vigliaccheria che si trova che si prepara ad affrontare una vera e propria battaglia. Scarta immediatamente la soluzione eroica, cioè celebrare il matrimonio, e anche quella coraggiosa (confidare a Renzo l’occorrente e cercar con lui qualche mezzo…) ed infine persino la fuga, finendo così per adottare la più vile tra le soluzioni, cioè mentire ed ingannare chi è più debole e sperare nella fortuna. Il suo tormento è espresso attraverso discorsi indiretti liberi: Dio liberi!…Fuggire?….E poi?…Quant’impicci e quanti conti da rendere!, e il soliloqui: Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso…
Ai suoi occhi, Renzo, che nel capitolo 1 era un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli…ih!, diventa ora solo un ragazzone, grande ma di poco cervello e un giovanotto ignorante.
Ora che il curato ha meno paura, si sente più forte e può sminuire il giovane e i suoi sentimenti, così Lucia non è la fidanzata, ma con un lombardismo volgare, è la morosa, e il desiderio di Renzo di sposarla è solo un bruciore addosso.
Lorenzo, o come dicevan tutti, Renzo… .Compare finalmente in scena il protagonista maschile del romanzo. Secondo la tecnica che da questo momento diventa consueta, i personaggi di un certo rilievo vengono presentati prima dalle parole di altri personaggi, che spesso, con il loro punto di vista straniante, distorcono le loro caratteristiche, e solo in un secondo momento compaiono sulla scena. Renzo entra in scena in movimento, sulla strada che porta alla canonica e che dovrebbe condurlo alla felicità: non è un caso che sia presentato in cammino, perché la strada, il viaggio e il movimento saranno una caratteristica costante del personaggio che, un po’ come Dante nella divina commedia, si ritrova nella selva oscura dell’ingiustizia e del male.
Il successivo ritratto che ne fa il narratore lo caratterizza subito sia come tipo che come individuo. Appare tipico del Seicento, infatti, l’abbigliamento e un certo atteggiamento in cui si mescolano sfarzosità e spavalderia: in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale nel manico bello…con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braveria. Sono individuabili, oltre ai suoi vent’anni, anche i modi: la sua lieta furia, i modi giovanili e risoluti, che saranno le sue caratteristiche fondamentali e che indicano l’impazienza tipica di una giovinezza spesso ingenua e immatura. La stessa analessi sulla biografia di Renzo ci informa che è orfano, piccolo proprietario terriero e contadino e il narratore invita subito il lettore ad un atteggiamento paterno vero il personaggio, che definisce il nostro giovine. Quando Renzo arriva davanti a don Abbondio, i due si pongono, nel sistema di personaggi,su due campi opposti sin dal loro primo confronto, da una parte il giovane deciso, cordiale e caratterizzato dal movimento e dall’altra il vecchio pauroso, privo di affetti, insicuro e statico, il tutto ben riassunto nel chiaro chiasmo costituito dai quattro aggettivi accoglimento incerto e misterioso e modi giovanili e risoluti.
La digressione sulla vita di Renzo colloca il personaggio nell’epoca storica e precisa meglio il malgoverno spagnolo in Lombardia, violento e inetto. Dopo il 1610, infatti, una grave crisi economica gravava sua tutta la penisola, ma l’industria della seta resisteva ancora bene il Lombardia, prima che il governo spagnolo la portasse in decadenza.
Segue un esempio di mimesi quasi perfetta, un lungo dialogo privo quasi del tutto di annotazioni da parte del narratore, che lascia al lettore il compito di decifrare gli indizi forniti e interpretarne il significato. Renzo si rivela meno sprovveduto di quanto supponga il curato e don Abbondio rivela di non essere poi così accorto, come si autodefinisce, accampando troppe scuse perché siano verosimili, mentre Renzo si insospettisce. Il curato dice di star male, ma è solo paura, parla di imbrogli, ma sono quelli che sta facendo lui, obbedendo agli imbrogli di don Rodrigo; intere sue frasi sono da interpretare: Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli (non certo per facilitare il matrimonio, ma per salvare la pelle), a far le cose secondo il piacere altrui (quello di don Rodrigo, non di Renzo e Lucia) e trascuro il mio dovere( per paura, non per bontà: è quasi un’autoaccusa); e poi mi toccan de’rimproveri, e peggio ( vuole suscitare pietà e ribaltare la propria posizione nei confronti di Renzo).
Renzo, di fronte a scuse sempre più vaghe, finisce per perdere la calma, in particolare quando don Abbondio usa il latino, l’arma della cultura spesso abusata dal potere. A questo punto emerge l’ottica distorta del curato, che definisce un grillo il desiderio legittimo dei giovani di sposarsi;in conclusione, poi, finge generosità dichiarandosi pronto ad addossarsi ogni responsabilità e a stringere i tempi da quindici giorni a una settimana , in realtà più di quanto gli servisse (quattro giorni) per rimandare a tempo indeterminato le nozze. Sta ingannando non solo Renzo, ma anche Lucia e tutto il paese, eppure sembra pretendere gratitudine.
Segue ancora un brano mimetico, che pone i personaggi direttamente davanti al lettore e in cui la durata del racconto coincide con quella della storia: si tratta quindi di una scena. Uscito dalla canonica, Renzo coglie al volo Perpetua e cerca di portarla dalla sua parte condividendo con lei la delusione per la festa mancata e facendo leva sull’affetto e sulla compassione della serva verso un povero figliuolo e poi persino sulla solidarietà di classe. Attribuisce a don Abbondio una cattiveria che, come Renzo ha ormai intuito, ha commesso un altro, per costringere Perpetua a svelare il vero impostore pur di provare l’innocenza del padrone: di solito molto impulsivo, Renzo in quest’occasione si mostra accorto e noncurante, ma gli basta poco per capire che quelli definiti dal curato superiori sono gli stessi prepotenti citati da Perpetua, la quale, nel tentativo di mediare le diverse spinte interiori ( proteggere il giovane e restare fedele al padrone), dà inizio al suo dire e non dire, svelando l’esistenza di segreti e spingendo Renzo ad indagare.
Nel secondo dialogo, don Abbondio reagisce ancora una volta da vigliacco e si presenta come vittima non solo di don Rodrigo, ma anche di Renzo, con il quale cerca di raggiungere un compromesso proprio come una vittima grottesca, col volto e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti.
Don Abbondio dà per scontato che chiunque al suo posto avrebbe agito allo stesso modo, coerente con l’immagine che di lui ci dà Manzoni stesso, il quale non vede altro che l’istinto di sopravvivenza come rimedio dato dalla natura umana contro la violenza. Renzo prova addirittura pietà per il curato e alla sua perdita di energia ( tra la rabbia e la confusione, stava immobile…) corrisponde una ripresa di don Abbondio che a tal punto presenta Renzo come l’aggressore che ha fatto un tiro di questa sorte a un galantuomo.
Dopo tanti dialoghi, il narratore riprende parola con riflessioni ironiche (quando paragona don Abbondio a personaggi di ben più alto affare), con due appelli al lettore e riferendo, con un sommario, i discorsi diretti liberi( i “voi sola potete aver parlato” e i “non ho parlato”), e indiretti (don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio…).
L’atmosfera tragicomica si scioglie così in una comicità venata di umorismo.
Intanto Renzo percorre in senso inverso rispetto all’andata la strada, pieno di rabbia per i soverchiatori, ma i suoi principi morali restano saldi e portano il nome di Lucia, quel raggio di luce che illumina e guida e che lui solo può richiamare Renzo alle sue radici e al pensiero di Dio. Per la prima volta nel romanzo, il nome di Dio compare con il suo pieno valore (fino ad ora è comparso nelle frasi proverbiali di Perpetua e don Abbondio, che non hanno nulla del sentimento religioso) .
Mentre Renzo è presentato, alla fine di questo capitolo, nel solito movimento in strada, Lucia al contrario è inserito sempre nel chiuso della sua casa: entrambi gli spazi assumono valore simbolico che si andrà man mano definendo nel corso del romanzo.
Interessante appare la tecnica di presentazione delle comparse, tratteggiate con poche pennellate eppure sufficienti a caratterizzarne la psicologia e il ruolo nella storia, così come delle donne del paese, che partecipano con curiosità al momento di gioia della sposa, ma anche con una punta di pettegola malignità, quando sfilarono e si sparsero a raccontar l’accaduto…e due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
Il ritratto di Lucia in abito da sposa risente delle stampe dell’epoca, così come quello di Renzo nella sua entrata in scena, e risponde alle esigenze di realismo storico dell’autore; Lucia, però, non risponde ai canoni classici di bellezza, cari all’immaginario romantico, di quella bellezza che può travolgere in una passione infuocata, al contrario risponde ad una modesta bellezza, priva di superbia e vanità e ricca invece di rigore morale.
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