I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 23
Analisi del Capitolo 23 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: il paese di Chiuso, la canonica del paese, il castello dell’innominato.
Tempo: mattina del 10 Dicembre
Il capitolo è diviso in due parti. La prima mantiene il tono elevato del capitolo precedente e vede in azione il cardinale, che finora è stato solo presentato dal narratore, la seconda parte invece cambia radicalmente intonazione con l’entrata in scena di don Abbondio; attraverso i suoi pensieri la sublime vicenda della conversione viene rivista secondo l’ottica del personaggio gretto e meschino, pertanto è come se quest’ultima parte fosse speculare della prima.
Il colloquio tra l’Innominato e il cardinale
L’incontro di due personalità eroiche, il malvagio onnipotente e il santo, è innanzitutto un confronto attraverso gli indizi forniti dall’aspetto fisico. I due stettero alquanto senza parlare, studiandosi a vicenda, e il viso di ognuno viene descritto secondo il punto di vista dell’altro. L’innominato guarda il cardinale e prova un sentimento di venerazione, determinato dal suo portamento quasi involontariamente maestoso e dal viso di una bellezza senile, in cui traspare la pace interiore e l’amore per gli uomini.
Se l’Innominato è inaspettatamente colpito dall’aspetto del cardinale, questi, al contrario, fissa volutamente sul suo interlocutore il suo sguardo penetrante e ne intuisce la crisi interiore. Mentre Lucia aveva avvertito istintivamente il dramma dell’innominato, il cardinale lo osserva da esperto indagatore dell’animo umano. Il passo vede scontrarsi due esigenze dell’autore: la necessità dell’arte e la spinta morale. Nella creazione della figura del cardinale hanno molto influito le idee espresse da Manzoni nel trattato sulla Morale cattolica, che viene citato spesso anche in questo passo e che influisce molto anche sullo stile. Nella lingua del cardinale confluiscono scelte retoriche della tradizione religiosa, oltre che letteraria, un linguaggio aulico marcato dall’uso di parole quali omero anziché spalle, com’era invece nel Fermo e Lucia, o gaudio anziché gioia.
L’innominato viene lentamente influenzato dalla retorica del suo interlocutore e anche lui sembra perdere l’autenticità del suo dramma, che finora si è svolto nel silenzio di un dialogo interiore: passa così da questo silenzio, in cui a parlare sono state le espressioni del suo viso, al linguaggio rude, ma autentico, che meglio gli si addice. Da notare, infine, il valore simbolico che assumono gli abiti dei due personaggi: la porpora incontaminata e la casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento, rappresentano i due poli opposti dell’innocenza e del peccato.
L’entrata di don Abbondio
La retorica lascia il posto alla comicità e la narrazione sembra scorrere di nuovo libera quando irrompe in scena il cappellano crocifero con il suo comico stupore e i gesti da marionetta, che fanno ripiombare il lettore tra i comuni mortali. Poi il narratore introduce don Abbondio con un atteggiamento di superiorità che lo rende ancora più comico, perché rivela come egli sia inconsapevolmente si essere stato, poco prima, altrettanto vigliacco.
Con il ritorno di don Abbondio, che avevamo lasciato alle prese con i parrocchiani accorsi ad aiutarlo nella notte degli imbrogli al capitolo VIII, ritorna la commedia. Prima si sente la sua voce incerta e dubbiosa in mezzo alla folla e solo dopo viene fuori, concentrato su sé stesso, come sottolinea il pronome personale ripetuto ossessivamente (mi voleva me; ma io credo…). A confronto con un personaggi comico, anche gli altri personaggi vengono trascinati in basso, a partire dal cardinale, che non riesce a percepire la paura del curato e la meschineria del suo egoismo, con la sua filosofia del quieto vivere. Il cardinale spera di trovare il curato del paese di Lucia per inviarlo a salvarla, mentre don Abbondio considera una sventura essere chiamato fuori dall’anonimo della folla e spera si tratti di un errore.
Sfacciatamente lo chiede al cardinale, che non capisce la sua speranza e lo rassicura del fatto che non si tratta di un errore, credendo addirittura di dargli una buona notizia. Il curato cerca addirittura di sfuggire, rifugiandosi dietro le gonnelle di Agnese, che per l’occasione egli presente come donna fragile e troppo sensibile, che ha bisogno di lui.
Don Abbondio e l’innominato alla volta del castello
Nel passo il curato si contrappone all’innominato come doppio speculare. Il signore sale agilmente a cavallo, don Abbondio molto faticosamente sulla mula. Passando davanti la chiesa, l’incedere dell’innominato è eroico, descritto con frasi cadenzate a ritmo di marcia, mentre il curato compie gli stessi gesti lasciando emergere l’egoismo della sua devozione con quel si raccomandò al cielo, mostrando anche l’invidia per quanti erano ancora riuniti nella folla anonima, al sicuro. Il gioco linguistico contribuisce a sottolineare il gioco del doppio tra i due personaggi: dal linguaggio popolare di don Abbondio si passa al registro poetico quando si descrive l’anima tormentata dell’innominato.
Il soliloquio del curato, poi, inverte d’un tratto tutto quello che è accaduto, persino i principi morali e religiosi della sua professione. L’amore cristiano del cardinale per l’innominato e l’ansia di liberare Lucia, agli occhi di don Abbondio sono solo precipitazione: secondo lui il cardinale prima si è sbilanciato con paroloni assurdi, come amico, poi è stato un credulone nel fidarsi dell’improbabile conversione dell’innominato e infine è passato all’azione senza prudenza e, soprattutto, senza preoccuparsi del suo curato.
La sua fede si riduce all’obbligo del cielo di aiutarlo, liberandosi la coscienza da ogni dovere morale. È lui stesso a costruirsi il proprio inferno interiore e a costringersi a vivere chiuso in sé stesso per proteggersi dall’esterno, ma nello stesso tempo attacca gli altri e attribuisce loro ogni colpa, senza mai assumersi le proprie responsabilità.
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