I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 25
Analisi del Capitolo 25 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: il paesello, la chiesa, la canonica, la casa del sarto, la villa di donna Prassede
Tempo: dalla mattina di lunedì 11 dicembre a sabato 16 dicembre
In base alla collocazione spaziale, la struttura si presenta circolare, perchè il capitolo si apre e si chiude al paesello. Possiamo suddividerla, poi, in base ai personaggi, in tre macrosequenze relative, rispettivamente, a don Rodrigo; a Lucia, Agnese e donna Prassede; a don Abbondio e Federigo Borromeo.
LE REAZIONI AL PAESELLO
In apertura del capitolo si assiste ad un cambio di ambientazione, giornata e atmosfera. Il narratore adotta l'ottica dei paesani e ne esprime la riverenza ironica nel dar il titolo di signor a don Rodrigo, fingendo rispetto (come fece Agnese nei confronti del signor don Abbondio nel cap. XXIV) . La metalessi dir riflessione sul comportamento umano sottolinea la viltà dei paesani, che hanno sempre taciuto e hanno addirittura provato minor indignazione, finchè hanno avuto paura. Solo ora si accorgono che il loro tiranno è un tirannello da strapazzo in confronto ad un gigante del male come l'innominato e a un santo come Borromeo.
Così all'improvviso si trovano tutti d'accordo nel manifestare la loro indignazione, salvo poi prendersela con chi è meno protetto. La conversione dell'innominato appare agli occhi del popolo un evento soprannaturale e i personaggi coinvolti assumono, nei discorsi della gente, connotati sovrumani. Il narratore esprime il punto di vista popolare attraverso sostantivi astratti per caratterizzare l'arcivescovo e l' innominato, che diventano allegorie di concetti morali e l'uso del linguaggio popolare si manifesta chiaramente nell'uso di verbi come rosolare, che rimanda al mondo della cucina, nelle immagini tradizionali del sordo, cieco e muto, nei termini chiacchere e cabale, per definire l'attività di Azzecca-garbugli.
LA FUGA DI DON RODRIGO
Dopo il pensiero indiretto libero che rivelale sue motivazioni, don Rodrigo passa all'azione. Di nascosto, con il buio, prima dell'alba, protetto dai bravi, fugge dal paesello. L'ironia del narratore diventa satira quando paragona il signorotto a Catilina: lo storico romano Sallustio racconta che in fuga da Roma, dopo che la sua congiura contro il console Cicerone era stata sventata, Catilina giurò di tornare con un esercito. Anche don Rodrigo promette di tornare, ma sbuffando, con un atteggiamento non proprio adatto ad un eroe; la satira non è indirizzata solo contro il personaggio, ma anche contro la predilezione dei classicisti per i paragoni desunti dal mondo greco e romano e contro i romantici, a cui è tanto cara la figura del ribelle Catilina.
LA VISITA DELL'ARCIVESCOVO AL PAESELLO
La descrizione della festa popolare riproduce realisticamente una tradizione di addobbi paesani semplici e festosi che si è mantenuta fino ai giorni nostri. La descrizione della folla, pur con l'uso delle solite tecniche narrative, manca dell'ironia consueta, perchè il narratore non ha per il momento nulla da denunciare nel comportamento di questa folla che riceve il cardinale, tranne un eccesso di manifestazioni di affetto.
Al primo fugace incontro con il cardinale,don Abbondio parla male di Renzo, lo presenta con un climax ascendente di aggettivi negativi (vivo…testardo..collerico), anche se alla fine, costretto dall'arcivescovo, deve ammettere che è un brav'uomo. Poi ecco il primo segno di incomunicabilità tra i due: per il curato la protezione di Lucia deve essere data da una persona in carne ed ossa, per il cardinale la vera protezione è quella di Dio. La prolessi che chiude il passo crea suspense nell'attesa del futuro colloquio tra due, che si prevede vedrà il curato come imputato. Il passo è un preludio al confronto di don Abbondio con il suo superiore e la differenza tra i due viene rimarcata ed esasperata per creare fin da subito l'atmosfera conflittuale di quell'incontro.
Nel rapporto con la folla il curato è apparentemente infastidito dalla confusione, ma in realtà è angosciato dal timore di un rimprovero da parte del cardinale, per cui, per la prima volta nel romanzo, si rifugia in chiesa, anche se così facendo non dimostra obbedienza ad un fine religioso, ma solo il bisogno di un rapido mezzo per tutelare la sua tranquillità.
DONNA PRASSEDE
La coppia d'alto affare è costruita come doppio di quella del sarto e della moglie ed opposta è anche la classe sociale, piccolo borghese prima, nobile questa. L'opposizione tra il sarto e il marito di donna Prassede si fonda invece sul modo di concepire la cultura: il sarto la vive come distinzione di classe, sintomo di inferiorità nei confronti dei nobili, mentre Don Ferrante è un letterato ozioso, presuntuoso, avulso dalla realtà, che entra in scena al momento di scrivere la lettera per il cardinale su richiesta della moglie, apparendo subito in posizione di sudditanza di donna Prassede, che gli lacia il comando solo su poche cose, tra cui l’ortografia.
La qualifica di letterato attribuita a don Ferrante è oggetto di ironia da parte dell’autore, perché il termine, nella cultura illuministica, aveva accezione negativa, indicando un uomo che si dedica solo alla letteratura ignorando i problemi sociali e politici tanto cari agli illuministi.
COLLOQUIO DI DON ABBONDIO CON IL CARDINALE
Questo colloquio mette a confronto non solo la loro opposta visione della fede, ma anche due stili, il tragico e il comico, e due linguaggi, quello solenne del cardinale, fondato sul Vangelo, e quello popolare, persino volgare del curato.
L’arcivescovo mostra come sa essere severo, anzi brusco..co’ pastori suoi subordinati (cap. XXII), enfatizzando il suo discorso con una retorica infiammata, iniziando con otto domande retoriche, disseminate di anafore, antitesi (v’ha detto…o v’ha detto forse..), opposizioni binarie (ci lasciam nominare e ci nominiamo) e citazione evangeliche. Da questa enfasi il curato è trasportato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata proprio come un pulcino negli artigli del falco, una similitudine, questa, quasi grottesca, già proposta dalla moglie del sarto nel capitolo quattordici.
Il capitolo si chiude con una scelta narrativa inconsueta, che interrompe a metà colloquio e che, se da un lato crea suspense, dall’altro ferma l’immagine su don Abbondio con un’inquadratura che lo fissa nella memoria in tutto il suo meschino imbarazzo.
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