I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 26
Analisi del Capitolo 26 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
LUOGHI: canonica di don Abbondio, casa di Lucia, villa di donna Prassede, paesi del bergamasco.
TEMPO: da sabato 16 a lunedì 18 dicembre 1628 e gli ultimi giorni di dicembre 1628.
Il capitolo ha una struttura lineare nettamente divisa in tre macrosequenze. Le prime due, prevalentemente mimetiche, sono dominate da due dialoghi, la terza invece è un raccordo narrativo che riprende il filo delle avventure di Renzo e anticipa il racconto dei fatti storici che si svilupperà nel capitolo seguente.
Il capitolo affronta un tema centrale del romanzo, che si è più volte visto al centro d’interesse del narratore, cioè il difficile rapporto tra morale e istinti, argomento che si sviluppa nei due dialoghi in cui si contrappongono, rispettivamente, il cardinale e don Abbondio, Lucia e Agnese.
DON ABBONDIO A COLLOQUIO CON IL CARDINALE
Il fatto che questo dialogo rappresenti un nodo fondamentale del romanzo basta a dimostrarlo la metalessi narrativa iniziale. Il dubbio se sia lecito predicare una morale troppo elevata non è solo del lettore, che può considerarla lontana dalle possibilità di un uomo comune, ma anche del narratore, consapevole del rischio di cadere nella vuota retorica. Il dubbio si risolve quando si considera che le parole di Federigo coincidono con la realtà delle sue azioni, il che dimostra che i suoi non sono precetti solo astratti. Il linguaggio dei due interlocutori si dimostra inadeguato ad una reale comunicazione: il cardinale usa concetti astratti ( ad esempio iniquità invece del concreto don Rodrigo) per sottolineare che don Abbondio ha trasgredito un principio morale assoluto, mentre il curato, non capendo la sua lingua, è spinto dal suo punto di vista a raccontare nel soliloquio i fatti in modo straniato.
A poco a poco il cardinale si rivela sempre più concreto, capisce che il curato ragiona solo in base alle proprie esigenze di uomo e non di sacerdote e finisce così per dare una risposta anche a quei lettori che si sono identificati con il curato di fronte ai bravi, pensando che al suo posto chiunque si sarebbe comportato così. Nonostante ciò, però, il cardinale non riesce a entrare nell’ottica del curato: lo chiama figliulo e fratello, ma di fatto è solo un’altra mossa retorica e il suo linguaggio si arricchisce di metafore sulla ristrettezza della sua vista (non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale), alle quali il curato contrappone la concretezza della vista e dell’udito reali (le ho viste io quelle facce…le ho sentite io quelle parole…). quando il cardinale si forza ad abbassare il livello del suo linguaggio, è don Abbondio a rialzarlo per riconoscergli la superiorità che egli tenta di annullare, usando vocaboli con sfumature arcaiche e retoriche nel complimento che dice a voce alta, mentre nei commenti silenziosi resta il solito linguaggio, popolare fino a sfiorare la volgarità.
La predica del cardinale si fa sempre più infiammata quanto più tocca la concretezza dei fatti e don Abbondio raggiunge un barlume di comprensione solo quando Federigo riesce a parlare la lingua non dell’eroismo, del dovere e dell’amore, ma della sofferenza, perché schivarla è per don Abbondio obiettivo primario della sua vita. Il cardinale ha trovato la via per giungere al cuore del curato, ma si ferma troppo presto: accortosi che le sue parole non erano state senza effetto, avvia alla conclusione il suo discorso, illudendosi ancora che sia possibile rialzarlo dalla sua misera condizione di comune mortale.
Questo è il motivo per cui il narratore precisa i limiti della commozione di don Abbondio, che solo in quel momento, veniva proprio dal cuore. Lo stile di Federigo, pur scendendo più nel concreto, resta quello dei sermoni: nel suo discorso si contano ben undici domande retoriche consecutive e l’uso martellante dell’anafora, mentre sul finire del colloquio lo stile diventa quasi elegiaco. Una metalessi metanarrativa chiude il colloquio, come in apertura di capitolo.
LA RIVELAZIONE DEL VOTO
Il narratore riprende il tono elegiaco con cui ha descritto la doppia amarezza di Lucia nell’abbandonare la casa dell’infanzia e i sogni di ragazza, dopo la parentesi del racconto, tra il comico e fiabesco, della sorpresa e della gioia di Agnese davanti al dono inaspettato e prezioso dell’innominato. Il contrasto tra i progetti gioiosi della madre e il dolore silenzioso della figlia accentua il lirismo della scena: Lucia si rifugia nel petto della madre con quell’atteggiamento infantile in cui crede di poter trovare consolazione, ma il suo dolore è troppo forte e senza rimedio.
Il cuo compianto si esprime nella ripetizione dell’aggettivo povero, che accomuna tutti e tre i personaggi coinvolti nel dramma (povera mamma, quel poverino, la vostra povera figlia) e queste espressioni ripetute danno un ritmo doloroso alle sue parole.
Lucia considera il voto un contratto, eppure crede che la Madonna le concederà grazia di ritornare con la madre, espressione di un abbandono fiducioso alla volontà di dio. in questo contesto si esprime tutto il pessimismo manzoniano, secondo cui l’uomo non può prevedere nulla, né sperare che la vita prenda la direzione prevista. A livello narrativo il richiamo a Renzo fa prevedere una sua nuova entrata in scena, proprio nel momento in cui il rapporto tra i due giovani dovrebbe interrompersi definitivamente.
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