I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 28
Analisi del Capitolo 28 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: il ducato di Milano e l’Italia settentrionale.
Tempo: da gennaio a settembre 1629 e analessi dal 12 novembre al 24 dicembre 1628.
Il capitolo 28 è diviso in due macrosequenze.
La prima macrosequenza, molto più ampia, è dedicata alla carestia e ai suoi effetti disastrosi sulla popolazione milanese e si articola nelle seguenti sequenze:
- La situazione dopo i tumulti
- Gli effetti della carestia
- La riunione nel lazzaretto e l’epidemia
- La fine della carestia
La seconda macrosequenza descrive la calata dell’esercito imperiale per intervenire nella guerra per la successione al ducato di Mantova. Il capitolo appare simmetrico rispetto al XII, di cui è la continuazione cronologica: mentre lì la città in subbuglio era tutta un movimento continuo di folla impazzita, qui, in una città immobile e desolata, l’unico vero movimento è quello della gente disperata che entra in città e di quella che ne esce altrettanto dispera rata. Lo stile del capitolo, visto l’argomento trattato, fonde scrittura saggistica e narrativa: il tono è alto e sostenuto e tende al massimo realismo.
La formazione illuminista dell’autore lo spinge a vedere la storia del passato come una somma di errori e ad attribuire eventi che potrebbero apparire naturali all’incapacità storica dell’uomo di usare la ragione. In particolare la critica alle autorità è spietata: oggi la storiografia ha riabilitato in parte la figura di don Gonzalo, ma all’epoca il personaggio era mal visto e Manzoni si lascia influenzare dai giudizi degli storici secenteschi.
GLI EFFETTI DELLA CARESTIA
Dopo la sintassi del periodo precedente, di carattere storico, questo passo ad uno stile narrativo. La coordinazione di frasi nominali, che inquadrano ad uno ad uno gli elementi di uno spazio cittadino che non ha più nulla della vitalità della città, determina un ritmo cadenzato, sottolineato anche dalla triplicazione delle frasi: botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti.
Dalla descrizione dello spazio si passa, quindi, a quella degli uomini: prima i diversi gruppi sociali dei cittadini, poi i bravi e infine i contadini immigrati in città dalla campagna nella speranza di sfuggire alla carestia. Per ogni gruppo sociale, una serie di frasi subordinate mette in contrasto il passato con il presente, spesso con una caduta dal benessere alla povertà. Il ritmo è ternario e a volte binario, proprio per sottolineare questo contrasto; nel lungo elenco le diverse classi sociali vengono rappresentate con le loro peculiari caratteristiche e soprattutto con la loro diversa psicologia. Molto complessa è la descrizione dei contadini, in cui viene descritta la modalità di aggregazione in viaggio verso la città, il motivo dell’arrivo in città, il momento dell’arrivo, le caratteristiche del corpo con la distinzione tra uomini giovani e donne, bambini e vecchi.
L’ironia manzoniana si limita alla critica del potere, per il resto lascia il posto alla pietà, che si fa più evidente nella descrizione dei più deboli. Anticipazioni di questo passo si possono considerare gli accenni alla carestia nel capitolo IV e nel capitolo XVII. La descrizione di Milano vittima della carestia è una prova del realismo manzoniano, eppure, rispetto al modello della cronaca del Ripamonti, a cui è ispirata, si carica di tragico e di un profondo valore morale e religioso.
LA PARTENZA DEL GOVERANTORE GONZALO
La figura di don Gonzalo acquista una più concreta identità proprio nel momento in cui lascia la scena della storia. Personaggio secondario nel romanzo, lo è stato meno nella storia di Milano. La sua rimozione dal suo incarico e il suo allontanamento da Milano sono descritti in una scena corale, tra schiamazzi di ragazzi che gli vanno dietro alla rinfusa e a cui bene presto si aggiunge una folla di gente, mentre i trombettieri continuano a suonare segnalando il passaggio del corteo come in una marcia trionfale, con la conseguenza di aumentare la folla richiamata dal suono di tromba.
L’unica soluzione che don Gonzalo troverà sarà istituire un ennesimo processo, ma stavolta dal trombettiere accusato di essere la causa dell’incidente ha la risposta che si merita: “caro signore, questa è la nostra processione e se Sua eccellenza non avesse voluto che suonassimo, doveva comandarci di tacere”, perfetto linguaggio burocratico da “uomo di formalità”.
Don Gonzalo dimostra tutta la sua vigliaccheria e non dà l’ordine o per non mostrare timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine. Probabilmente la scena filtra qualche ricordo delle manifestazioni del 1814 che portarono all’uccisione dell’ex ministro Prina, anche se il grido che allora si gridava "và via vè" ora si trasforma in una specie di canzone cruda e beffarda, con la rima via-carestia, consona al clima comico dell’episodio.
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