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I Promessi Sposi - Capitolo 29: analisi

Promessi Sposi - Analisi Capitolo 29: esame approfondito sulla fuga di Dona Abbondio dai Lanzichenecchi, le vicende dei personaggi e il registro linguistico.

I Promessi Sposi – Analisi Capitolo 29

Analisi del Capitolo 29 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni

Luoghi: il territorio di Lecco, il paesello, la canonica di don Abbondio, la strada per il castello dell’innominato, la casa del sarto, il castello dell’innominato in Valsassina.

Tempo: settembre 1629 e analessi sull’ultimo anno.

Il capitolo è costituito da quattro nuclei narrativi, in base alla collocazione spaziale, in successione lineare e progressiva sia nello spazio che nello stile, che passa dal comico all’elegiaco, sia infine a livello tematico, che passa dall’egoismo dei tre fuggitivi e dalla vigliaccheria del curato all’altruismo del sarto e all’eroismo dell’innominato.
Il capitolo è anche strettamente connesso  con il successivo e insieme rappresentano, a livello narrativo, la guerra che è stata presentata storicamente nel capitolo XXVIII; anche la struttura dei due capitoli è simmetrica, perché il primo racconta il viaggio di andata dei tre fuggitivi alla volta del castello, il secondo il viaggio di ritorno, mentre la permanenza dei tre presso l’innominato è narrata a cavallo tra i due capitoli.

DON ABBONDIO E I LANZICHENECCHI

Dopo la digressione storica sulla guerra, il capitolo riporta in scena alcuni dei personaggi del romanzo, a cominciare da don Abbondio. Il curato è l’emblema  della confusione dello spavento suscitati dall’arrivo dei Lanzichenecchi nel territorio di Lecco. Il panico è descritto attraverso il punto di vista e le espressioni popolari degli abitanti, che citano il numero crescente dei soldati e li definiscono con sostantivi in climax. Il discorso diretto iniziale esprime così l’ansia crescente sia della gente a cui il discorso è attribuito, sia di don Abbondio che lo ascolta. Il ritmo incalzante aumenta la suspense e rende visivamente e fonicamente la confusione, con il passaggio improvviso al tempo presente, poi al passato prossimo e poi di nuovo al presente.
La lingua è popolare, come evidenzia l’uso delle metafore relative al demonio, mentre la scelta del tono comico e leggero attribuito a don Abbondio è sicuramente conforme all’ironia con cui spesso la guerra di Mantova viene trattata per denunciarne la futilità. Il ritmo rallenta e si incupisce passando alla descrizione dello spazio, che richiama la descrizione al momento della fuga dei due promessi dal paesello nel capitolo VIII. Le due descrizioni creano un chiasmo (con l’inversione della posizione di lago e vento) che sottolinea la diversa atmosfera dei due momenti, uno elegiaco ( quello dell’addio), l’altro angoscioso.

L’ARRIVO DI AGNESE

Agnese rivela questa volta maggiore accortezza di Perpetua: si è cucita gli scudi nel corpetto per non farseli rubare, mentre Perpetua ha nascosto il denaro del padrone ai piedi del fico; propone a don Abbondio di andarsene insieme a rifugiarsi dall’innominato, non solo per farsi ben volere ricambiando la festa che il curato le ha fatto dopo la ramanzina dell’arcivescovo, ma soprattutto per farsi presentare all’innominato.
La lingua del passo è ancora popolare. Il castello dell’innominato è posto in luogo così sicuro che non potevano arrivar se non gli uccelli: con un’iperbole di sapore fiabesco, Agnese conferma che l’innominato  è rimasto figura mitica presso il popolo, così quando pensa di chiedere asilo lassù, rivela il punto di vista di chi abita in pianura e guarda il castello dal basso in alto, ma dà anche senso della lontananza e dell’altezza mitica.

LA FUGA

In questa fuga vengono fuori i tre diversi egoismi dei personaggi. Don Abbondio, che per una volta afferma idee giuste sull’inutilità di far la guerra per voglia di potere, ma lo dice nel modo sbagliato, perché il suo pensiero si basa sul quieto vivere della sua filosofia.
Perpetua, a cui non importa nulla deglla guerra, esprime solo il timore di aver sbagliato nel nascondere la roba e offre così su un piatto d’argento la possibilità al curato di prendersela con lei: in una scena da commedia la donna si ferma allora su due piedi (come nel capitolo I) e risponde a tono al padrone egoista. Interviene poi Agnese, anche lei tutta incentrata sui propri problemi, a parlare de’ suoi guai.
Il tono narrativo passa dal fiabesco al comico dei contrasti tra i tre e all’elegiaco per esprimere la nostalgia di Agnese per la figlia lontana.

A CASA DEL SARTO

Il capoverso che introduce la famiglia del sarto si apre con una massima che il narratore attribuisce all’anonimo, come sempre quando esprime precetti sulla morale cattolica, quasi a prenderne le distanze attraverso l’ironia del gioco di sdoppiamento.
I personaggi sono delineati con pochi tratti significativi: molto umana Agnese, invidioso don Abbondio nei confronti di Lucia, che è fuor de’ pericoli; il sarto  sembra nutrire la speranza di prendersi una rivincita per non aver potuto mostrare al cardinale la propria conoscenza del linguaggio forbito, che ora sfoggia usando termini ricercati o citando la storia de’ mori in Francia e la Tebaide letta nel Leggendario, con la modestia nel precisare che sono testi in volgare e non in latino.
La scena del pranzo rientra nel realismo delle descrizioni dei pasti nelle povere case, dove la scarsezza di cibo si compensa con la generosità dell’ospitalità.

IL NUOVO INNOMINATO

Quando, con una concatenazione, il narratore passa a parlare dell’innominato riallacciandosi a quello che ha detto il sarto, improvvisamente lo stile cambia, i periodi diventano proporzionati e ognuno è completo in sé.
Ad alzare il tono interviene la prevalenza di sostantivi astratti, messi in contrasto e accentuati dal chiasmo (antica ferocia e mansuetudine presente), mentre l’uso dell’imperfetto durativo sottolinea che l’atteggiamento dell’innominato è diventato un sistema di vita.  Potrebbe sembrare irrealistico che nessuno voglia far scontare all’innominato il filo delle sue azioni e il narratore corre il rischio di far apparire la situazione poco credibile; stupisce invece come trovi una motivazione logica alla reazione degli altri: davanti ad uno che si è punito sa sé, gli offesi hanno già ricevuto vendetta, anche coloro che non avrebbero mai potuto ottenerla altrimenti.
La reazione dei bravi che non hanno seguito la scelta del padrone e continuano sulla strada del male, da un alto, evita la soluzione irrealistica di un innominato capace di trasformare il mondo, dall’altro conferma la visione pessimistica della natura umana, di cui l’innominato rappresenta un’eccezione.

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