I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 34
Analisi del Capitolo 34 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: Milano
Tempo: mattina del 31 agosto 1630
La struttura del capitolo è lineare e cadenzata dall’alternarsi di scene infernali ed esempi di pietà cristiana, con un rapporto di due a uno. L’alternanza dà ritmo al racconto, perché la tensione crescente delle scene di orrore, scandita a intervalli regolari dalle immagini di pietà, si allenta per un attimo, per poi riprendere a crescere.
La struttura così organizzata mette anche in evidenza il tema trattato. Il tema principale del capitolo è il rapporto tra barbarie e civiltà, tra istinti distruttivi e controllo razionale e morale.
L’ENTRATA DI RENZO A MILANO
Il capitolo precedente si è interrotto con l’arrivo di Renzo a Milano, il nuovo si apre con una prolessi che crea suspense: Milano si preannuncia come città infernale. Il malgoverno spagnolo imponeva leggi sempre severissime, che non venivano quasi mai rispettate; ora però è la peste a rendere difficile il livello di governabilità e far rispettare il divieto di entrare in città, sia per il caos che vi domina che per la decimazione delle forze di polizia. Il gioco narrativo dominante è quello dei punti di vista: da una parte la focalizzazione zero del narratore onnisciente che informa, spiega, indica i nomi delle strade e racconta i fatti; dall’altra il punto di vista di Renzo, di cui vengono registrate le impressioni visive e uditive, e che resta un punto di vista soggettivo, straniato e spaesato, spesso incapace di comprendere una realtà assurda in una città trasfigurata.
Lo spazio assume valore simbolico e acquisisce l’immobilità della morte. La seconda entrata di Renzo è costruita come doppio della prima, perché Renzo compie lo stesso percorso, ma mentre la prima volta la città gli appariva come il paese di cuccagna, ora è un labirinto da attraversare alla ricerca del suo oggetto d’amore.
L’INCONTRO CON IL PRIMO PASSANTE
Il riferimento al presente (come adesso) in apertura coinvolge il lettore milanese, il narratario del romanzo, facendogli immaginare la peste nei luoghi che egli conosce bene, rendendo viva e presente la scena davanti ai suoi occhi. La scena, però, è filtrata dallo sguardo di Renzo, che mantiene un atteggiamento di rispetto per gli altri e principi morali, ormai quasi del tutto estranei alla città, e perciò tutto quello che vede gli appare strano.
Il primo incontro di Renzo con un passante è un doppio speculare dell’incontro, alla sua prima entrata a Milano, con quell’agiato abitante del contorno che gli forniva cortesi informazioni nel capitolo XI. Lì la paura rendeva estremamente gentile il viandante, che aveva scambiato Renzo per un rivoltoso, qui la paura delle unzioni rende ostile il cristiano, che lo scambia per un untore.
IL RICHIAMO DI UNA POVERA DONNA
Renzo sente una voce che lo chiama con una formula tipica del parlato popolare che accenna a voler stabilire un rapporto umano e attenua il clima angoscioso. La vista conferma la sensazione uditiva, un’immagine di pietà si presenta agli occhi di Renzo, una povera donna che rischia di morire di fame. All’assurdità con cui viene amministrata la città, Renzo oppone un gesto cristiano, donando alla donna i suoi due pani.
Il capitolo alterna scene di ferocia disumana a scene patetiche, in un crescendo, di cui in questo brano si vede la prima tappa. Il linguaggio si adegua alle diverse situazioni: qui il dialogo tra Renzo e la donna rinchiusa, anche se non è dialettale, ha la stessa sintassi del milanese e basterebbe sostituire il lessico per ottenere un dialogo in dialetto.
LA MACCHINA DELLA TORTURA
L’atmosfera torna angosciosa, preannunciata da suoni e confermata dalla vista: appare l’immagine della macchina della tortura, simbolo della follia a cui la peste aveva avviato gli uomini. Poi la sfilata dei carri, descritta in crescendo, così come appare davanti agli occhi di Renzo, crea suspense: i cavalli che tirano a fatica qualcosa di ancora non visibile, poi il primo carro, quindi la serie d altri, con teste che ciondolano, braccia che si svincolano e chiome che si arrovesciano. La reazione di Renzo è di cristiana pietà, quindi inizia a pregare.
Il brano riecheggia evidentemente l’Inferno di Dante e in particolare il verso 38 del XIII canto viene riproposto nell’immagine dei cadaveri come un gruppo di serpi. L’aggettivo finale del brano, che definisce sconcio lo spettacolo, rimarca la connotazione morale della scena e il senso di repulsione che essa suscita.
LA MADRE DI CECILIA
Questo brano è uno dei più famosi e commoventi passi di un romanzo che di solito evita gli eccessi di pathos. L’apparizione della donna viene anticipata dall’espressione oggetto singolare di pietà, che prepara il lettore alla commozione e filtra la scena dal punto di vista di Renzo, anche se il linguaggio non appartiene al personaggio, bensì al narratore nella sua veste di poeta. Il personaggio della madre è costruito come doppio della figlia morta, per la somiglianza dei volti,e poi come doppio della madre segregata in casa con i figlioletti e sembra portare a compimento il destino di morte che su quella incombeva.
La donna compie un vero e proprio rito funebre, che salvaguardia i principi morali di civiltà e religiosità e denota un controllo razionale che contrasta con il clima generale si follia. Il ritratto del personaggio è condotto con una serie di coppie di participi passati usati come aggettivi ed è un ritratto molto lontano dalla tradizione classica della bellezza idealizzata, perché risente della drammaticità tipica della pittura romantica. Il riferimento al sangue lombardo rende questa bellezza emblema di un carattere non solo individuale, ma anche collettivo, di un intero popolo, di una tradizione di umanità e fierezza.
Tipicamente romantico è anche il tema dell’addio e dell’esilio: la madre di Cecilia dà l’addio alla figlia che abbandona per terra e nello stesso tempo annuncia che ella stessa darà tra poco l’addio al mondo dei vivi. Il linguaggio è aulico in tutto il passo ed evidenti sono i rimandi alla poesia latina: e disse le ultime parole è un’eco al virgiliano “dixitque novissima verba” ( Eneide IV), mentre una delle poche similitudini del romanzo, come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade con fiorellino … , è una ripresa ancora virgiliana di “come un fiore purpureo, reciso dal vomere, langue morendo…” ( Eneide IX).
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