I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 5
Analisi del Capitolo 5 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Il quinto capitolo dei Promessi Sposi è strutturato con due macrosequenze divise da una sequenza descrittiva del palazzotto e del piccolo regno di don Rodrigo, macrosequenza diseguali ma al tempo stesso simmetriche tra loro: in entrambe prevale la mimesi di dialoghi o soliloqui, con scarsi interventi del narratore e, nei due interni contrapposti dell’umile casa di Lucia e del palazzo del potere, si svolgono due scene contrapposte.
Nella casetta di Lucia hanno luogo discorsi accorati, il pianto della giovane, la sincerità dei sentimenti, la rabbia di Renzo riportato al suo senso morale dal padre, finchè la scena si chiude con la speranza e una sorta di pacificazione per la rinuncia di Renzo all’azione diretta, mentre nel palazzotto si svolge la commedia del potere, uno spettacolo di cui gli attori sarebbero stati anche spettatori se non fosse intervenuto uno spettatore esterno a rendere assurda, con il suo punto di vista, la scena.
È giovedì 9 Novembre 1628.
Il tema prevalente è quello della legittimità della violenza, su cui si confrontano prima fra’ Cristoforo e Renzo, poi il frate e gli invitati di don Rodrigo: il conte Attilio e il potestà discutono invece non della legittimità della violenza, ma delle forme che essa deve assumere, mentre fra Cristoforo porte in entrambe le discussioni, la stessa inequivocabile opinione, cioè che la violenza non ha diritto di esistere in nessuna forma ed in alcun caso.
Il capitolo riprende senza soluzione di continuità il precedente, a cui è legato addirittura tramite un relativo (Il qual padre…) , inquadrando il frate ritto sulla porta a figura intera, in una posizione statuaria di grande effetto visivo.
Il brano che segue l’incipit può essere suddiviso in due sequenze: nella prima il frate si mostra subito uomo d’azione, che tronca i complimenti in bocca ad Agnese e va subito al dunque, focoso e impaziente come il vecchio Lodovico, scalpitando al racconto della donna (diventava di mille colori..), mentre nella seconda rimprovera a Renzo l’azione che il giovane vorrebbe tentare.
Nel capitolo VIII, agli occhi di Lucia il il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio,apparirà come un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Eppure, visto da vicino e attraverso uno sguardo più fiero di quello di Lucia, lo sguardo di un frate che ha lottato e lotta contro il potere ingiusto, il palazzotto appare in una dimensione assai più degradata, senza maestosità, solo come una bicocca, una piccola fortezza in mezzo alle altre. È solo una viuzza a chiocciola a condurre ad una piccola spianata e al palazzotto, con l’ingresso chiuso solo perché il padrone sta mangiando e non perché sia inaccessibile e chiuso al mondo, anzi fra’ Cristoforo vi sarà subito introdotto, e a fare la guardia ci sono solo due avvoltoi, con i loro teschi penzoloni, e due bravi degradati anche loro a livello animale.
Il livello bestiale scelto come leitmotiv della descrizione è reso con una serie di metafore accompagnate da immagini di animali, come i mastini e i cagnolini che stridono all’interno: ne risulta un effetto grottesco, tipico del topos della descrizione del castello nel romanzo gotico e storico. Lo spazio non è semplice sfondo per gli avvenimenti, ma è lo specchio del personaggio che vi abita e di un momento storico in cui si mescolano squallore, prepotenza e ostentazione del potere e della violenza.
Il convito di don Rodrigo appare all’improvviso, preannunciato solo dal frastono dopo il buio di due o tre salotti che,in chiave parodica, potrebbe ricordare le diverse lingue, orribili favelle che facevano un tumulto all’inizio dell’Inferno di Dante.
La sala quindi si preannuncia come luogo del disordine e della sopraffazione, un caos in cui fra Cristoforo appare con il simbolo del suo ruolo, una testa rasa e una tonaca, la stessa testa che apparirà in sonno a don Rodrigo malato di peste e che produrrà allora lo stesso effetto angoscioso che produce sin da ora. Fra Cristoforo rappresenta da subito a coscienza morale che don Rodrigo tenta di mettere a tacere, per cui viene immediatamente avvertito di limitarsi ad essere un cappuccino, senza pretendere come un creditore insolente, che don Rodrigo paghi i debiti per le sue malefatte.
Se Manzoni avesse aderito ai modi di certa letteratura artificiosa, costruita sull’inverosimiglianza degli intrecci e dei sentimenti, avrebbe fatto reagire il frate da eroe con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto, invece, più realisticamente, anche il frate è vittima dello spettacolo del potere ed è imbarazzato alla presenza di quello stesso don Rodrigo.
Il lungo dialogo che segue (righe 212-281) è un esempio di mimesi accuratissima, senza interventi rilevanti del narratore, una scelta utile a creare straniamento, per far esporre agli stessi personaggi idee assurde come fossero verità incontestabili e farli discutere di questioni immorali come se fossero legali. Agli occhi dei commensali è l’opinione del frate ad essere portavoce di una mentalità straniante, che Azzecca-garbugli cerca di mitigare definendola una celia, uno scherzo e affermando che la morale religiosa non potrebbe mai coincidere con quella della nobiltà. È evidente lo scarto ironico che deriva da simili affermazioni: la morale dei nobili è diversa da quella del narratore e dei lettori, i quali non possono non restare senza parole di fronte alla mentalità deviata dei personaggi.
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