I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 6
Analisi del Sesto Capitolo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Il sesto capitolo è ambientato tra il pomeriggio e la sera di giovedì 9 Novembre 1628 ed è composto da due macrosequenze narrative, che corrispondono ai due spazi in cui si svolgono, il palazzotto di don Rodrigo e il paesello, che si contrappongono come coppia spaziale alto/basso.
L’opposizione è sia fisica (il palazzotto è in posizione elevata rispetto al paesello, su cui si erge in posizione dominante), sia sociale (il palazzo è la sede del potere), ma anche narrativa: lo scontro tra il signorotto e il frate, a palazzo, ha i toni drammatici e la teatralità del conflitto tra un eroe tragico e il tiranno.
Nel paesello, viceversa, il dramma si smorza nella prospettica popolare di Agnese, ingenua e sbrigativa, e nell’esuberanza giovanile di Renzo; il pathos dai toni rassegnati e miti è relegato invece alla misera cena di Tonio, all’ostinata resistenza di Lucia e al suo bisogno di fede e verità senza compromessi.
Il tema principale è la scelta tra azione umana e abbandono fiducioso a Dio. I due poli del problema si concretizzano nella figura di fra’ Cristoforo che, malgrado la sconfitta con don Rodrigo non demorde, e, a vicenda, in Agnese e Renzo da una parte e Lucia dalla’altra. La discussione non ha i toni drammatici dello scontro tra il frate e il signorotto, anzi tende alla bonaria ironia: l’atteggiamento di Manzoni verso i personaggi popolari è quello tradizionalmente aristocratico degli intellettuali italiani, intriso di distacco sentimentale. Gli umili sono per Manzoni un “problema di storiografia”, un problema teorico che egli crede di poter risolvere con il romanzo storico, con il “verosimile” del romanzo storico, per questo sono spesso presentati come macchiette popolari: il Manzoni, inoltre, è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio, perché tra loro c’è la Chiesa in cui Dio realmente si incarna.
All’inizio del capitolo, l’incontro del frate con don Rodrigo prende subito i toni dello scontro: il frate cerca di evitare adoperando l’umiltà guardinga, molto diversa da quella disinvolta del padre guardiano nel capitolo IV, mettendo in atto un processo di persuasione che articola facendo leva a vari livelli sul senso morale dell’interlocutore, il quale reagisce sia a livello emotivo che con le parole. Fra’ Cristoforo lo invita a salvare il suo onore e gli ricorda il momento della morte (mettendogli davanti il teschietto di legno, una delle risorse macabre della predicazione in un secolo in cui l’idea della morte era una vera ossessione) e il momento in cui Dio lo giudicherà. Don Rodrigo, da parte sua, ribalta la realtà una prima volta, accusando il frate di avere un equivoco interesse qualche fanciulla, una seconda volta offrendo protezione alla ragazza, ma nel proprio palazzo, dove nessuno ardirà d’inquietarla.
A questo punto si ribalta anche l’atteggiamento del frate, che passa all’attacco assumendo la posizione del duellante, simmetrica a quella con cui don Rodrigo lo ha accolto: dando indietro di due passi, postandosi fieramente sul piede destro… ( r.68) .Ritorna l’eroico difensore degli umili, che chiama Lucia per nome, il peccato del signorotto per quello che è (il piacere di tormentarla), il suo palazzo quattro pietre, il suo potere quattro sgherri.
Don Rodrigo prima reagisce con lo stupore ( Come! In questa casa…!), poi tra la rabbia e la meraviglia, infine con un lontano e misterioso spavento di fronte alla profezia.
La lingua gioca un ruolo essenziale in questo scontro e contrappone il frasario cavalleresco di don Rodrigo, fatto di boria, lessico stereotipato, sarcasmo e insolenza, e la lingua del frate, che trova la sua forza nell’umiltà paziente e dolorosa, nel linguaggio biblico e ricco d’enfasi.
Conclusasi la visita del frate al palazzotto, viene introdotta una metalessi riflessiva che pone al lettore domande su una questione morale. È una delle rarissime volte in cui il narratore non dà, però, una risposta, anzi afferma: Noi non intendiamo di dar giudizi, ci basta d’aver dei fatti da raccontare, che detto da lui, che non si esime mai dal dare giudizi, risulta parecchio ironico, ma in effetti l’intera riflessione è ironica.
Il passo conclude il tentativo di fra’ Cristoforo di aiutare i due giovani, con una scena speculare rispetto all’esordio: mentre ora, uscendo da quella casaccia, il frate “scende” verso la casa di Lucia, all’alba, uscendo dal convento, “saliva” alla casetta dov’era aspettato, e così come il frate al mattino era turbato da un tristo presentimento in cuore, ora è commosso e sottosopra.
Con la seconda macrosequenza (r.167) il tono cambia radicalmente, come preannuncia l’inizio calmo e pacato con cui il narratore coinvolge il lettore: il tono è adeguato ai personaggi che ci sono in scena, tutti umili, e al genere dominante del passo, un realismo semplice e intensamente efficace.
I personaggi ricorrono tutti alla loro retorica ingenua per persuadere gli altri, così Lucia si limita ad interventi pacati e sommessi, fatti di gesti (tentennava mollemente il capo) e di una logica stringente (o la cosa è cattiva, e non bisogna farla, o non è, e perché non dirla al padre Cristoforo?), Renzo è sul punto d’andarsene in ogni momento, mentre Agnese tutta intenta, in apparenza, all’aspo, escogita uno dei suoi rimedi fatti in casa, con un linguaggio che sfiora a comicità, popolato di diavoli, parroci e papi perché la sua cultura popolare deriva dalla frequentazione della chiesa, oltre che da una tradizione di proverbi, e non manca una certa retorica quando afferma : ci ho pensato io. Verrò io con voi..La chiamerò io…, con un’ enfatica anafora di IO.
Gettando lo sguardo sulla casa di Tonio, poi, si noterà subito la somiglianza con l’umile casetta di Lucia e i gesti del padre alle prese con la cottura della polenta richiamano subito i quadri del genere dell’epoca, come Il mangiafagioli di Carracci. Manzoni descrive il misero interno domestico, il focolare, il paiolo, la piccola polenta bigia, e sottolinea le espressioni dei familiari con gli occhi fissi al paiolo, senza allegria: sono tutti dettagli figurativi che, con la loro essenziale e realistica evidenza, creano di colpo il colore di una scena d’ambiente.
Anche l’osteria, seppure descritta per sommi capi, si connota realisticamente come luogo di delizie, dove è possibile soddisfare i propri istinti, per Tonio la fame, per Renzo il desiderio di sposare Lucia, ma è anche il luogo dell’inganno, quello che stanno mettendo a punto i due amici. Il linguaggio di Tonio è perfettamente adeguato al realismo del personaggio, ricco com’è di esclamazioni e di mimica e di battute da commedia.
L’ultimo gesto di Agnese di sussurrare all’orecchio di Lucia: “Bada bene, vè, di non dirgli nulla”, ricorda quello di Lucia che intimava alla madre di tacere con fra Galdino il divieto del matrimonio nel terzo capitolo.
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