L’ottavo capitolo dei Promessi Sposi si presenta come intreccio di più vicende accadute in simultanea durante la notte e che vengono raccontate alternativamente con continue analessi e l’anticipazione di un episodio del mattino successivo (le vicende si svolgono tra la notte di venerdì 10 e sabato 11 novembre 1628 ).
Il momento di sincronizzazione è dato dal suono della campana che è citato continuamente a sincronizzare ogni nuova azione. Il parallelismo tra le diverse avventure è anche sottolineato dall’analogia delle situazioni, dei comportamenti e delle azioni, con l’uso addirittura delle stesse parole:
- Renzo e Lucia: vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino;
- I bravi: passarono anche, pian piano…scalar adagino il muro…picchiò pian piano…sconficcare adagio il paletto..accosta adagio adagio l’uscio..spinge mollemente l’uscio;
- Renzo: s’affacciò alla porta e la sospinse bel bello;
- Il padre Cristoforo: riaccostò la porta adagio adagio;
- Renzo e Lucia: s’avviarono zitti zitti alla riva.
L’espressione zitti zitti si ripete dall’inizio e alla fine dell’avventura dei due promessi sposi e suggerisce che la vicenda si chiude in cerchio.
Il capitolo VIII vede il fallimento di tutti i progetti, sia quelli basati sul segreto, il matrimonio di sorpresa e la delazione del piano di don Rodrigo per salvare Lucia, sia quello basato sulla menzogna, il rapimento di Lucia. Il matrimonio fallisce per la reazione di don Abbondio, gli altri due per l’intervento del caso, anche se i protagonisti pensano all’intervento della provvidenza. Il messaggio appare pessimistico, quasi a sottolineare la finitezza del potere dell’uomo, sia esso santo o malvagio.
Nell’intero capitolo a Lucia è riservata una sola battuta, anzi una mezza battuta (e questo…), per il resto è muta e trema ininterrottamente, prima per paura dell’esito del complotto, poi per i sensi di colpa.
La chiusura del capitolo precedente ha interrotto un’azione appena cominciata e il lettore si aspetta di vederla riprendere all’apertura del nuovo capitolo, che invece esordisce a sorpresa con Carneade e con l’immagine di oziosa abitudinarietà di un pacioso Don Abbondio.
Di nuovo in scena, dopo essersi celato dietro il suo febbrone, egli leggiucchia tranquillamente come nella sua prima apparizione nel romanzo, ma sulla sua tranquillità, come sempre quando meno se l’aspetta, si addensa una nuova burrasca.
I due progetti messi in atto nel capitolo mirano alla violazione dello spazio interno. Il progetto dei due promessi sposi prevede che si oltrepassi prima l’entrata custodita da Perpetua, che occorre perciò rendere inoffensiva; una volta entrati tutti i personaggi, si passa all’interno successivo, il pianerottolo per i fidanzati e, ancora che più all’interno, lo studio del curato, dove entrano i due fratelli.
Lo spazio di don Abbondio è quello della menzogna, dove egli si è trincerato, mentre quello dove si nascondono Renzo e Lucia è lo spazio del segreto. In loro uscire allo scoperto costituisce un passaggio dal segreto alla verità: il limite tra i due spazi è protetto dai due fratelli e la violazione avviene quando essi si aprono come un sipario e i fidanzati passano dal buio del pianerottolo alla luce .
A questo punto il curato è chiamato al suo ruolo e deve sposare i due, sennonché egli ripristina il buio: rovescia la lucerna e nasconde Lucia sotto la coperta del tavolo, mentre egli corre a nascondersi in uno spazio ancora più interno. L’ultimo guizzo di luce su Lucia, nemica di ogni inganno, ormai immobilizzata, sembra indicare la vittoria delle tenebre degli imbrogli e dei sotterfugi sulla verità.
L’opposizione buio/luce appare quindi simbolica e, allo stesso modo, nell’opposizione silenzio/rumore, il silenzio ha funzione di occultamento, il rumore di liberazione: i fidanzati fanno silenzio per occultare la propria presenza, Agnese invece, tossendo, rivela che la via è libera. L’opposizione lento/veloce contribuisce a creare suspense e dà ritmo alle azioni, così prima domina la lentezza, quella di fidanzati nell’entrare e quella di Don Abbondio, il quale in seguito rivela la sua riserva di velocità, sia nel rendersi conto della situazione, sia nell’impedire che le poche formule rituali vengano pronunciate. La prontezza del curato di fronte alla situazione inattesa è resa dalla serie di passati remoti in climax ascendente, coordinati per asindeto, prima piani e seguiti da avverbi (vide confusamente, poi vide chiaro), poi tronchi (si spaventò, si stupì, si infuriò, pensò).
Il breve passo è un classico snodo narrativo che Manzoni realizza attraverso una metalessi riflessiva e la descrizione del paesaggio di uno spazio esterno sereno, messo in contrasto con lo spazio interno caotico. Al coinvolgimento emotivo del patto narrativo si sostituisce il momento critico tutto mentale che allontana il lettore dai personaggi e lo costringe ad osservare da lontano,in modo straniato, per giudicarli.
L’urlo del curato e il suono della campana riprodotto con l’onomatopea martellante del tono ripetuto interrompono la pace della pausa narrativa e quella del villaggio addormentato. Riprende il ritmo incalzante con i verbi al passato remoto in brevi frasi coordinate e comincia la commedia con quelle braghe “cacciate” sotto il braccio e le campane che sono solo due campanette senza dignità, che pure fanno un gran fracasso. La simultaneità e la varietà delle reazioni dei paesani, che costituiscono un personaggio collettivo, sono rese con l’uso degli indefiniti (Molte…gli altri… alcuni….).
Il suono della campana costituisce un punto di sincronizzazione delle varie imprese in atto e funge così da raccordo con il tentativo di rapimento, che viene ripreso tornando indietro con un’analessi; l’episodio è narrato con il punto di vista interno dei brav,i che non sanno che la casa è vuota e che all’inizio si possono basare solo sull’udito, perché avanzano al buio. Nella violazione della casa di Lucia la comicità si fa più scoperta e il gioco con il lettore e più evidente: nel primo progetto il lettore era complice con il narratore a spese di Don Abbondio, mentre una beffa maggiore meritano i bravi, perché il narratore ha informato il lettore che la casa è vuota, ma loro non lo sanno.
Manzoni ha cercato di ottenere nel modo migliore la sincronizzazione delle scene.
Quella dei bravi è circoscritta da due intrusioni del narratore: rr.167-168 e r.r. 250.
In mezzo, una frase di sincronizzazione: i bravi arrivarono alla casetta… rr. 178-179, con l’uso del linguaggio militare (brigatella, spedizione) che accentua la somiglianza tra i due piani d’azione; il tempo di entrambi è compreso tra i tocchi misurati e sonori della campana e il ton, ton, ton, ton della campana suonata a martello.
Quando Renzo lascia l’osteria per andare a prendere Lucia e Agnese, il paese si prepara al sonno e I bravi si mettono in marcia .
Con l’entrata in scena di Menico, preannunciato dai suoi passini frettolosi, interviene il terzo progetto, quello di fra Cristoforo per salvare Lucia: questi tre progetti si incontrano e si sovrappongono e, poiché le diverse azioni, intrecciandosi, diventano più veloci e frenetiche, il narratore ne abbrevia il resoconto rivolgendosi ai lettori.
Il grido di Menico é contemporaneo con quello di don Abbondio, come il panico dei bravi con quello di Renzo e Lucia. Il rintocco delle campane sincronizza così tutte le diverse imprese.
In questa commedia a vicende incastrate, appena esce di scena un gruppo di personaggi ne entra un altro. Ora il personaggio è folla, che si va delineando meglio con la sua duplice caratteristica di unità e di varietà, così tutti come un corpo solo corsero alla porta… si voltan tutti… si avvicinano in folla; hanno tutti gli stessi atteggiamenti e se uno parla si fa portavoce degli altri, oppure parlano in tanti tutti insieme. La varietà è sottolineata dall’uso degli indefiniti alcuni..,altri…altri…, oppure chi accorre..chi sguizza..etc.
I sentimenti che dominano la folla sono prevalentemente, nel romanzo, quegli egoistici e lo stesso console si rivela un vigliacco che si camuffa tra la massa e vien fuori solo se interpellato e solo per chiamare aiuto,quasi per farsi difendere dalla folla stessa.
Il linguaggio aulico qui usato è ovviamente ironico.
Il tono narrativo poi cambia radicalmente ( rr.384-417): la commedia è finita dietro le spalle dei fuggiaschi che, avviandosi verso il convento, entrano in un’ altra atmosfera piena di pathos. Le campane che hanno dato vita a scene farsesche, ora hanno per loro un non so che di più lugubre e sinistro.
Renzo, Lucia e Agnese passano definitivamente dal terreno del segreto a quello della verità, si incontrano con Menico e iniziano un reciproco scambio di informazioni.
Ancora il contrasto buio/luce ( rr.422-450) che riporta all’inizio dell’avventura, ma mentre don Abbondio se ne stava seduto, oziando, ruminando, fra Cristoforo è sempre all’erta, in azione e in vigile attesa.
Tocca al padre smascherare ancora una volta il rapporto distorto tra apparenza e sostanza: fra Fazio applica alla lettera la regola di colloquiare con donne solo in presenza d’un compagno e il divieto di farlo in luoghi appartati, regola che anche fra Cristoforo ha in qualche modo rispettato, facendo restare accanto a sé un altro frate, ma il suo è solo vuoto formalismo. Fra Cristoforo dimostra il suo duplice carattere di uomo d’azione, dotato di un potere che gli deriva dalla santità, e di guida spirituale che impartisce un’ultima lezione morale ai suoi fedeli.
I protagonisti del romanzo lasciano, infine, il paesello natio attraversando quel lago su cui si è aperto il romanzo, ma la differenza tra ‘incipit e l’Addio ai monti è ben evidente. I luoghi sono gli stessi, vengono citati alcuni particolari identici, ma il passo: la costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti…(cap.I, rr. 8-9) diventa qui : monti sorgenti dall’acque..torrenti de’ quali si distingue lo scroscio. Nel primo caso l’osservazione imparziale dà indicazioni topografiche, nel secondo invece, che è quasi un monologo interiore, il punto di vista è quello di Lucia.
Ai monti Lucia dà l’addio come ad esseri umani, con il passo triste di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana; i torrenti hanno per lei il suono delle voci domestiche e il suo sguardo si sposta dal basso all’alto, per poi soffermarsi a guardare la propria casa e quella di Renzo.
Il motivo dell’addio rivela l’intertestualità con illustri predecessori, come Rousseau, o Scott, ma soprattutto con la Vergine d’Orleans di Schiller, dove Giovanna d’Arco saluta così la sua terra: Addio montagne e voi care praterie, fide e tranquille valli addio!
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