Capitolo 25 dei Promessi Sposi – La Casa del Sarto
In tutta questa parte del capitolo dei Promessi Sposi, se la scena continua a incentrarsi su Lucia che con sé conduce, quasi sotterranea linea di congiunzione, gli altri personaggi, qui, anche se marginalmente, convocati, il luogo che unifica i vari momenti è la casa del sarto. Una di quelle case non misere né sfarzose, modeste, semplici, ma con il segno della riservatezza, del calore umano, dell’ordine, della pulizia, della concordia, che tanto piacevano al Manzoni: soddisfacevano il suo gusto “democratico e il suo affetto per i valori riposanti e gratificanti, per gli angoli dove la vita anziché pulsare tumultuosa sembra rinchiudersi e stringersi a difesa e conservazione di cose intime e raccolte”.
All’interno della casa la buona donna che ne è la padrona ha modi delicati, non fa sentire per nulla il disagio alle ospiti, cerca di consolidare e liberare Lucia dall’angoscia dell’avventura sconvolgente, si mostra premurosa, si mantiene in un angolo durante la visita del cardinale che lei sa bene avere come protagonista Lucia. E vi fanno la loro comparsa i bambini, con un che di alacremente e gioiosamente petulante, con l’entusiasmo di chi vive un’avventura eccezionale.
Ma tutta la casa è dominata dal sarto, il letterato non formato, l’uomo che si distingue tra il volgo del paese perché sa leggere e scrivere e ha alcuni libri che legge, e ritiene di essere stato dalla sorte maligna proiettato in una situazione che non è la sua. E trova finalmente l’attesa circostanza di potere sfoderare la sua cultura e di colloquiare con un vero letterato. E nella sua immaginazione chi sa quante volte si era formata l’immagine di sé seduto fra i dotti, tutti tesi al riconoscimento della sua cultura e della sua personalità. E al momento giusto tutto l’edificio crolla ed egli crolla con l’edificio: si fa prendere dall’affanno; delle molte frasi non convenzionali da lui in precedenza prescelte una sola ed insignificante gli giunge alle labbra e per tutta la vita continuerà ad assediano e a porsi come un costante rimprovero: quella brutta figura non gli si cancellerà dalla memoria.
E qui accanto all’umorismo il Manzoni ha come un momento di umana pietà e comprensione: si tratta in fondo di un doloroso fallimento. Ed un altro personaggio si ripresenta: don Abbondio non solo vivo nel breve colloquio che intreccia per la strada con Agnese, ma anche nelle parole di questa denunciatrici al cardinale della viltà del curato, della disobbedienza ai doveri religiosi: occasione questa per l’attacco e la prosecuzione con un altro episodio, quello del colloquio tra il curato e il cardinale.
Ma a questo punto dell’episodio si impone Agnese per tre suoi interventi: ha il coraggio di riferire al cardinale le colpe del curato, pronuncia su questo una frase piena di buon senso ritenendolo e giudicandolo non un perverso ma un debole, un uomo che ripetendosi la circostanza si sarebbe comportato nello stesso modo, afferma che in un mondo ingiusto (ed il cardinale approva) i birboni scaricano le colpe sui poveri e che questi hanno sempre torto. E nel colloquio con il cardinale bene si rileva la differenza spirituale tra Agnese e Lucia: Agnese è un’ottima donna, ma della figlia le mancano il pudore geloso, l’intimità religiosa, la scrupolosità etica, in una frase sola, la conformità piena e istintiva a quella legge di bene che il Vangelo codifica. Perciò è naturale, ed è in armonia con la sua natura di popolana vivace e chiacchierona, quest’accusa stizzosa contro don Abbondio, espressa con popolaresca confidenza in Federigo e con parole di sdegno per le pene a cui la viltà del curato ha abbandonato lei e la sua Lucia.
Ed il Manzoni comprende e compatisce, tanto da commentare solo di un breve e scherzoso rimprovero ah, Agnese! Anche la piccola bugia che Agnese con la sua morale un po’ accomodante si permette.
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