La società industriale, di cui si intravedono i caratteri invasivi nella Parigi del Secondo Impero, condiziona fortemente la personalità di Charles Baudelaire, il primo poeta legato direttamente ai temi della modernità, anche se il suo capolavoro, I fiori del male venne pubblicato nel 1857, quando l'età del Romaticismo poteva considerarsi appena esaurita. Forti contraddizioni segnano il senso di identità dell'uomo e dell'artista, sia sul piano dell'integrazione sociale sia su quello dell'inserimento all'interno della cultura del suo tempo.
Egli porta alle estreme conseguenze, nella vita come nella poesia, il conflitto tra l'artista e la società che è proprio del Romanticismo. Ormai irriducibile diviene tale contrasto, in quanto il soggetto rifiuta di assecondare acriticamente i valori legati al progresso economico e vede nella rapida trasformazione della società un sostanziale pericolo per la cultura e per la stessa creatività artistica. Nondimeno la vita parigina diviene per Baudelaire uno stimolo a sentire diversamente la dimensione estetica. Se l'universo urbano è degradazione e bassezza, è pure compito dell'artista cogliere in esso la sua particolare bellezza. Tale bellezza non scaturisce tuttavia dagli aspetti suggestivi, allettanti e fascinosi della vita urbana – come il comune senso delle cose pare indicare – ma paradossalmente proprio dalla degradazione e dal male, che diventano elementi connaturati all'universo urbano e proprio per questo più significativi delle sue contraddizioni, portatori di tensioni e richieste, di muta ricerca di senso, di originalità, di tenacia nell'esprimere permanenze psicologiche, ormai marginali in un universo compromesso con la reificazione e l'abbandono degli ideali. Al fondo della personalità di Baudelaire c'è dunque lo spleen, uno stato di depressione cupa, di noia e di inettitudine a confondersi con il suo tempo, di disgusto per il mondo in cui vive, per la vita borghese della grande moderna metropoli, che si affaccia come un incubo nei suoi versi. E non secondario certo il rifiuto dei modelli poetici del Romanticismo.
Dalla raccolta Spleen et ideal
Perdita d'aureola
– Oh! Come! Voi qui, caro? Voi in questo luogo malfamato? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d'ambrosia! Davvero, ne sono sorpreso!
– Mio caro, vi è noto il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poc'anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti ad un tempo, la mia aureola, ad un movimento brusco che ho fatto, m'è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non farmi fracassare le ossa. E poi, ho pensato, non tutto il male vien per nuocere. Ora posso andare a zonzo in incognito, commettere delle bassezze e abbandonarmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, assolutamente simile a voi, come vedete!
– Dovreste almeno farvi affliggere che avete smarrita codesta aureola, o farla reclamare dal commissario.
– No davvero! Qui sto bene. Voi solo mi avete ravvisato.
D'altronde, la grandezza m'annoia. E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente.
Render felice qualcuno, che piacere! E soprattutto render felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z!…Eh? che cosa buffa, sarà!…
I ciechi
Contemplali, anima mia; essi sono davvero orribili!
Simili ai manichini; vagamente ridicoli;
Terribili, singolari come i sonnambuli;
mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi
I loro occhi, in cui s'è spenta la scintilla divina
Come se guardassero lontano, restano levati
Al cielo; non li si vede mai verso i selciati,
Chinare, pensosamente, la loro testa appesantita.
Essi attraversano così il nero sconfinato,
Questo fratello del silenzio eterno. O città!
Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,
Innamorata del piacere fino all'atrocità,
Guarda! anch'io mi trascino! ma, più inebetito d'essi,
Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?.
Il testo, tratto da Tavole parigine, richiama lo stupendo dipinto di Brueghel il Vecchio, "La parabola dei ciechi". I ciechi sono il simbolo del poeta, con la sua angoscia, dell'uomo caduto e oramai privo della scintilla divina, vagante nel buio della vita, ma bisognoso di evadere dall'umana bassezza, qui rappresentata dalla città.
- Letteratura Straniera