Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tante parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra queste
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
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Commento
Composto nel 1819, L'infinito è il primo degli Idilli, nonché una delle liriche più note del Leopardi. Le riflessioni del poeta sul rapporto fra il pensiero umano e l'infinità dell'universo sia nello spazio che nel tempo si traducono non in filosofia in versi ma in autentica poesia. Inoltre, in questo componimento prende forma la poetica del vago e dell'indefinito.
Questa breve poesia può essere divisa in questo modo:
vv. 1-3: Indicazione, ma non descrizione, di uno spazio concreto (l'area delimitata dalla siepe) e di un'abitudine personale (consuetudine di salire sul colle e stato d'animo).
vv. 4-8: Astrazione e visione mentale dello spazio. Non è un'azione definita, ma una durata evidenziata dai gerundi "sedendo e mirando".
vv. 8-13: Il minimo evento dello "stormir tra queste piante" segna il passaggio dall'immaginazione spaziale a quella temporale. Il poeta instaura una contrapposizione tra concreto e presente, e spazio e tempo immaginati dal pensiero.
vv. 13-15: Il pensiero si smarrisce generando piacere.
In questi quindici densissimi versi Leopardi concentra una profonda esperienza interiore, trasportandoci in un viaggio tra ciò che è delimitato, "finito", umanamente sperimentabile, e ciò che va oltre le possibilità dei nostri sensi ed è raggiungibile solo nell'immaginazione. Noi uomini, infatti, siamo una piccolissima cosa rispetto all'Universo, la nostra vita occupa una frazione infinitesimale del suo tempo, e solo con un grande sforzo di immaginazione possiamo figurarci uno spazio e un tempo senza fine. Nello Zibaldone troviamo questa riflessione del 12 agosto 1823 sulla dignità dell'uomo:
Quando egli, considerando la pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell'immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e mènomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose.
Nell'Infinito, il poeta dice (o immagina) di trovarsi in un luogo preciso, che ama e frequenta abitualmente: un colle solitario, tradizionalmente identificato nel monte Tabor, che domina sulle campagne sopra Recanati. Solo, in cima al colle, in uno spazio circoscritto e delimitato da una siepe, il poeta siede e guarda, ma non riesce a vedere: proprio questo fa scattare il meccanismo immaginativo. Si tratta di un'esperienza paradossale: non è la possibilità di vedere dall'alto ampi spazi, ma l'ostacolo alla vista, l'esperienza dei limiti umani, a suggerire l'idea dell'infinito. Annota infatti Leopardi nello Zibaldone (28 luglio 1820): L'anima immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario.
Agli spazi senza fine si associano immediatamente sovrumani silenzi e profondissima quiete, che producono un sentimento di paura, di sgomento. Leopardi ama il silenzio e la quiete di quel luogo, che gli permettono di meditare e fantasticare. Ma, proiettati in uno spazio sterminato, il silenzio e la quiete diventano quasi insopportabili, poiché si oppongono implicitamente all'idea di vita, che è fatta di suoni, di rumori, di movimento.
Poi, qualcosa strappa il poeta alle sue immaginazioni: una realtà concreta ma effimera come il vento interrompe i suoi pensieri, ma contemporaneamente li rilancia in direzione di un approfondimento del problema. Il poeta viene riportato al qui e ora, ma la voce del vento tra le piante suggerisce immediatamente un confronto con quello infinito silenzio, e la mente si tuffa negli abissi del tempo, quasi cercando di misurare le inconcepibili dimensioni dell'eterno attraverso il confronto tra l'interminabile fila delle stagioni passate (morte) e quella presente (viva), di cui si sente il suono.
L'immaginazione permette di collocare l'io che vive qui e ora nell'infinità del tempo e dello spazio. Ne deriva una sensazione di annegare, di naufragare nel mare dell'immensità. Ma allo sgomento ora si sostituisce, o si aggiunge, paradossalmente, un sentimento di dolcezza, che non viene spiegato, ma comunicato, attraverso le parole vaghe e indeterminate del testo e i loro suoni.
Tra reale e immaginario, spazio e tempo, finito e infinito ci sono relazioni complesse, che risultano particolarmente evidenti sul piano lessicale. Notiamo come la poesia si apra e si chiude con parole di apprezzamento, di piacere (sempre caro – m'è dolce) e con riferimenti a luoghi, concreti (il colle, la siepe) oppure astratti o metaforici (l'immensità, il mare), accompagnati da aggettivi dimostrativi (questo, questa) che sottolineano la vicinanza fisica o psicologica.
In tutta la lirica è evidente il contrasto tra i termini concreti e molto comuni del finito e i termini più astratti dell'infinito, accompagnati da aggettivi che ne intensificano il significato. Ma sono ancora più significativi i collegamenti e gli intrecci tra questi due campi: dati concreti, come gli ampi spazi nascosti dalla siepe o la quiete e il silenzio del colle, si collegano a interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete dell'infinito immaginato, mentre il suono del vento si oppone a quello infinito silenzio, e al sentimento del presente e della vita che quel suono suscita si contrappongono il sentimento dell'eterno e della lunghezza incommensurabile del tempo trascorso, delle morte stagioni.
Dal punto di vista formale, la poesia ha un'architettura speculare: è divisa in due parti uguali, di sette versi e mezzo, che corrispondono alle due esperienze dell'infinito spaziale e dell'infinito temporale; ai due estremi troviamo gli unici versi sintatticamente conclusi; le due serie di termini riguardanti lo spazio e il tempo sono disposte e graduate in modo opposto.
Ma altri segni indicano la continuità di un percorso, come la frequenza di congiunzioni coordinanti, o la sinalefe al centro del verso 8 (...spaura. E come il vento...), che contrasta la separazione segnata dal punto. Osserviamo inoltre la frequenza degli enjambements: è come se la sintassi premesse continuamente contro i confini della metrica, spingesse ad andare oltre, come fa il pensiero alla ricerca dell'infinito.
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- Giacomo Leopardi
- Letteratura Italiana - 800