Confronto tra Aristotele ed Hobbes - Studentville

Confronto tra Aristotele ed Hobbes

Confronto tra Aristotele ed Hobbes.

Rifacendoci alla distinzione tra “realismo politico” e “filosofia politica”, distinzione in base alla quale il primo (che trova in Tucidide e in Machiavelli due dei suoi più grandi eroi) non mira se non all’ordine mentre il secondo aspira ad un ordine che sia giusto, possiamo rilevare fin da ora come essi operino su due piani diversi e mai riducibili l’uno all’altro. Quello del realismo politico ò il piano della continuità , cosicchè si ritrovano nel corso storico costanti strutturali che si ripetono: non ò un caso che Machiavelli si trovi ad operare con categorie e schemi interpretativi piuttosto vicini a quelli adoperati molti secoli prima da Tucidide. Al contrario, quello della filosofia politica ò il piano della discontinuità : sicchè Aristotele, Hobbes e Hegel – che rappresentano i tre grandi paradigmi della filosofia politica occidentale – affrontano sì problematiche in certa misura analoghe, ma lo fanno con strumenti diversissimi fra loro e secondo modalità  inaccostabili le une alle altre. In forza di ciò, diventa possibile distinguere le varie epoche storiche a seconda dei modi in cui, all’interno di esse, sono stati affrontati determinati problemi politici. Ciascuno dei tre grandi modelli della filosofia politica (Aristotele, Hobbes, Hegel) riassume in sè una caterva di varianti diversamente declinate: per citare un solo esempio, in età  medievale Marsilio da Padova, nel suo Defensor pacis, muove dalla Politica di Aristotele per poi distaccarsene gradualmente e assumere una posizione che può essere etichettata come proto -hobbesiana. La lunga stagione inaugurata da Aristotele (nella quale rientra il platonismo stesso), che si protrae fino alle soglie dell’età  moderna, ò superata dalla posizione politica fatta valere da Hobbes, che nei confronti di Aristotele si pone in maniera volutamente polemica: ma a sua volta, nella prima metà  dell’Ottocento, la posizione hobbesiana verrà  superata da quella hegeliana, la quale introdurrà  un nuovo paradigma destinato a conoscere un incredibile numero di varianti negli anni a venire (tanto Marx quanto Gentile si rifanno alla linea politica tratteggiata da Hegel). Si tratta allora di capire a che cosa sia dovuta questa discontinuità  che segna la filosofia politica e che, come abbiamo visto, ò scandita in tre tappe fondamentali (l’aristotelismo, la filosofia politica hobbesiana, l’hegelismo): si tratta di scansioni meramente soggettive, riconducibili al diverso modo con cui i tre filosofi hanno affrontato tali problematiche, o piuttosto abbiamo a che fare con scansioni determinate da condizioni storiche oggettive? Come spesso accade, la verità  non sta unilateralmente da una parte: tanto la soggettività  dell’autore quanto le condizioni storiche oggettive influiscono in maniera imprescindibile, anche se non ò del tutto chiaro quale delle due componenti abbia maggior peso. La grande dicotomia politica che caratterizza la filosofia politica fino all’Ottocento (quando, con Hegel, si prospetta la necessità  di ridisegnare il quadro) ò quella tra Aristotele e Hobbes. All’olismo aristotelico, secondo cui per comprendere la società  occorre partire dal tutto e non dalle singole parti, Hobbes contrappone quell’individualismo in base al quale ò solo partendo dalla considerazione dei singoli individui che ò possibile comprendere la società  nel suo complesso: similmente, all’organicismo aristotelico Hobbes oppone un meccanicismo tale per cui lo Stato non ò se non una macchina o – come Hobbes stesso lo definisce – un “corpo artificiale” del tutto diverso dagli organismi che si trovano in natura. Se poi Aristotele prospetta una concezione teleologica della società , secondo cui quest’ ultima tenderebbe a un fine consistente nella realizzazione di un ordine immanente alla natura stessa, Hobbes, dal canto suo, ne propone una nichilista e costruttivista: a suo avviso infatti la natura, lungi dal presentare una qualche forma di ordine, si presenta come il regno del caos e del disordine, con la conseguenza che l’ordine ò un qualcosa che può essere imposto in maniera forzosa attraverso una costruzione sociale (da qui il nome di “costruttivismo”). Proprio da tali considerazioni hobbesiane prende le mosse il contrattualismo – che ò figlio del giusnaturalismo -, teoria secondo la quale lo Stato ò il frutto di un patto siglato dagli individui che altrimenti si troverebbero in una perenne guerra di tutti contro tutti, poichè l’uomo – nota Hobbes – non ò affatto un animale socievole, come se lo immaginava Aristotele. Ed ò interessante come, nel De cive, Hobbes si spinga ben più in là  del rovesciamento della tesi aristotelica della naturale socievolezza dell’uomo e arrivi a sostenere che il linguaggio non ò che una “tromba di sedizione” che gli uomini impiegano per guerreggiare fra loro e che la ragione ò un’arma utilizzata per portar guerra ai propri simili. Hegel spesso ci ò presentato come sintesi di questi due momenti che configgono tra loro: il suo ò, infatti, un pensiero olistico della totalità  organica (e in ciò ò vicino all’ aristotelismo), ma ciò non toglie che Hegel sia e resti un pensatore figlio della modernità  e del culto della libertà  e dell’ individuo (tematiche particolarmente care a un Protestante come lui). E del resto si tratta di alternative che non si escludono mutuamente e che ammettono una composizione, a meno che non si voglia liquidare – sulle orme di Nietzsche e di Marx– la sintesi hegeliana come illusoria, alla stregua di quella, invalsa in età  medievale, tra aristotelismo e cristianesimo (e una tale lettura, tuttavia, porterebbe a leggere la storia dell’Occidente come successione di sintesi fallite). Questi tre autori segnano così marcatamente delle discontinuità  giacchè, col loro pensiero, riflettono esperienze epocali di fallimento nella soluzione politica e avanzano la pretesa radicale di fornire soluzioni: essi inaugurano un paradigma proprio in forza del fatto che fanno un bilancio ragionato di un’epoca, criticano le soluzioni avanzate dagli altri pensatori e ne propongono di proprie. Così Aristotele ò un pensatore che si trova a condividere la critica socratico/platonica alla poliV opulenta e disordinata, pluralista e spaesante, ma poi finisce per ritenere errata la terapia adottata da Platone per far fronte alla crisi in cui la poliV versa. Lo Stagirita non propone riforme che intervengano in maniera diretta sugli ordinamenti, ma valorizza e favorisce le differenze e le pluralità  vigenti all’interno della poliV, poichè ò convinto che esse compongano un’unità  che ò inscritta nella natura stessa e che deve essere fatta passare da uno stato potenziale ad uno attuale. Non ò un caso che, ad Aristotele, Hobbes preferisca Platone, scorgendo in lui – architetto ideale di una kallipoliV – un filosofo più vicino al costruttivismo. Aristotele non fantastica immaginarie città  ideali: egli ò convinto che ci si debba limitare a lavorare su quelle sinergie, interne alla poliV esistente, le quali spingono in direzione dell’ordine. Ma Hobbes non esita a riconoscere il pieno fallimento del paradigma aristotelico/cristiano: la retorica repubblicana, che si sostanzia della teoria politica aristotelica, e il fondamentalismo religioso, proliferante in virtù della dottrina cristiana, sono alla base di un’inarrestabile dissoluzione affondano le loro basi rispettivamente nell’aristotelismo e nel cristianesimo. Pertanto, al modello aristotelico/cristiano, Hobbes oppone come antidoto un paradigma fondato sul calcolo delle utilità  degli individui, i quali, calcolando i loro interessi e vantaggi, abbandonano il primitivo stato di natura del bellum omnium contra omnes e danno vita alla macchina dello Stato. Hegel pensa la modernità  dopo l’evento epocale della Rivoluzione Francese e, grazie ad essa, giunge alla comprensione di tre punti fondamentali: in primis, egli si accorge di come la modernità  abbia prodotto la società  civile, la quale però non contiene in sè la risoluzione del problema dell’ordine (infatti, la società  civile ò divisa in classi e dunque massimamente diseguale); in secondo luogo, egli prende atto di come l’accentramento governativo in senso democratico non costituisca la risoluzione di tutti i problemi, soprattutto alla luce del fatto che la democrazia ò sfociata in Terrore giacobino. Infine, Hegel nota come il patto cosmopolitico degli Stati (il foedus pacificum di cui parlava Kant in Per la pace perpetua) sia illusorio e mai realizzabile. Dei tre, quello aristotelico ò il paradigma che più dura: nato per primo, esso ritorna con insistenza addirittura nella seconda metà  del Novecento, assunto da quella nutrita serie di autori – tra i quali Hannah Arendt – che si richiamano esplicitamente ad una filosofia della prassi e assumono la frwnhsiV come faro dell’agire. Il modello hobbesiano, dal canto suo, ha una vita assai più breve, dal momento che, nato nel Seicento, sopravvive per non più di due secoli, fino a Kant e al primo Fichte (anche se in realtà  anche John Rawls, in pieno Novecento, si pone con la sua dottrina del “velo di ignoranza” sulla scia di Hobbes). Ancora meno dura il paradigma hegeliano, a tal punto che alcuni studiosi hanno addirittura messo in dubbio che le filosofie di Marx, di Schmitt e di Gentile, così diverse tra loro, potessero essere concepite come varianti del modello hegeliano. Ciò ò del resto avvalorato anche dal fatto che mai come nel Novecento le posizioni politiche sono state tanto diverse e inaccostabili fra loro: non solo nel senso che le ideologie che si sono confrontate sono state assai diverse, ma anche e soprattutto nel senso che i modi stessi di intendere la politica sono stati assai variegati e diversificati. Per rifarci forse al caso più eclatante, mentre Carl Schmitt va sostenendo – in Il concetto del politico – che le due grandi categorie attraverso le quali leggere la politica sono quelle dell’amico e del nemico, in maniera antitetica Arendt intende la politica come sede di un agire comunicativo e non conflittuale. Aristotele, politica La Politica di Aristotele ò un’opera che non può essere propriamente compresa se non la si inserisce in maniera opportuna all’interno del sistema aristotelico. Essendo lo Stato una delle grandi acquisizioni di quell’età  moderna che sorge al tramontare del Medioevo, al cuore della riflessione politica di Aristotele vi ò un’entità  extrastatale: la poliV, un’ unità  territoriale più vasta di quella che siamo soliti definire “città â€ ma più ristretta rispetto al moderno “Stato”; proprio in forza del suo essere a metà  strada tra la città  e lo Stato, il termine poliV ò stato spesso tradotto come “città -Stato”, anche se la miglior soluzione consiste nel non tradurlo e mantenerlo in greco. Ogni poliV – nota Aristotele nell’incipit dell’ opera – non ò che una koinonia, ovvero una comunità  politica che, alla stregua di ogni altra cosa esistente, dev’essere definita in base al suo teloV, identificabile con il conseguimento di un certo bene. Il primo nodo da sciogliere riguarda allora la specifica finalità  della poliV: qual ò tale finalità ? In cosa consiste? Nel tentare di capire questo punto, dobbiamo secondo Aristotele accuratamente rifuggire dal modo di procedere di quanti assimilano fra loro la figura del despota, del padre e del padrone, come se fossero termini interscambiabili. Si tratterà  allora di differenziare le comunità  in base al teloV cui esse tendono. Ancor prima di avviare la ricerca, Aristotele ci fornisce – come suo solito – indicazioni metodologiche: come negli altri campi del sapere, occorre pervenire alla comprensione del tutto scomponendolo nelle varie parti che lo costituiscono (in ciò sta l’olismo aristotelico); questo, nella sfera della filosofia politica, si traduce in un ritorno alle origini, il che ci aiuta a capire come in Aristotele olismo ed evoluzionismo procedano di pari passo. In quest’ottica, lo Stagirita parte dalla considerazione della famiglia (oikoV) per poi giungere a quell’evoluzione della famiglia stessa che ò la poliV, passando per quelle stazioni intermedie delle quali la più importante ò data dal villaggio. Già  all’interno di quel primo nucleo originario che ò la famiglia, si verificano due grandi disuguaglianze: quella tra uomo e donna e quella tra comandante e comandato. Se il rapporto tra l’uomo e la donna ha come fine la riproduzione della specie, quello tra comandante e comandato ha invece la conservazione del gruppo sociale (nel caso in questione: la conservazione della famiglia). Ciò resta valido anche all’interno della poliV, giacchè in essa si attua una riproduzione delle generazioni e la conservazione del gruppo sociale. Se la famiglia ò funzionale alla vita, il villaggio mira all’autosufficienza: dal canto suo, la poliV si pone come comunità  perfetta che esiste non per rendere possibile la vita (a ciò provvede il villaggio), ma per renderla felice, il che mette in luce come nel discorso aristotelico etica e politica siano in forte connessione fra loro. Ogni poliV – rileva Aristotele – esiste kata fusin, ò cioò naturale al pari della famiglia, dal momento che la natura ò il fine a cui queste comunità  mirano: ma ciò per cui una cosa esiste non può che costituire il meglio e proprio in ciò risiede l’identità  aristotelica di assiologia e ontologia. Da ciò si evince come ogni Stato – posto che di Stato si possa parlare in riferimento all’età  dei Greci – ò un prodotto naturale e come, in forza di ciò, l’uomo stesso sia uno zwn politikon, ossia un animale politico, sociale e socievole (tutti aggettivi ricompresi nella nozione di politikon). Ne segue allora che chi vive in isolamento per sua libera scelta ò o una bestia o un dio e tende per sua natura ad essere un individuo bellicoso e incline al conflitto. Ciò detto, lo Stagirita mette in luce un punto a lui assai caro, che ritorna in parecchi altri suoi scritti: la natura non fa nulla invano e – egli aggiunge – l’uomo ò un “animale parlante” (zwn logon ecwn): se non fosse dotato del linguaggio e fosse soltanto un animale politico, allora in nulla si distinguerebbe dalle api o dalle greggi, siccome anch’esse tendono per loro natura ad associarsi. Ma poichè oltre che della fonh (voce) l’uomo ò equipaggiato anche del logoV (ossia del linguaggio e, insieme, della ragione), la comunità  politica cui egli dà  vita si qualifica come qualità  etica in cui certi valori (il bene, il giusto, ecc) sono condivisi. Infatti, mentre la voce esprime soltanto la gioia o il dolore, la parola dà  voce anche a ciò che giova e a ciò che nuoce, ovvero al giusto e all’ingiusto, rendendo per questa ragione possibile una comunità  che sia insieme etica e politica. Fedele all’assunto olistico che dà  la precedenza al tutto rispetto alle parti, Aristotele sostiene che per natura la poliV sta prima della famiglia: infatti ò soltanto dalla scomposizione della poliV stessa che si può risalire alla famiglia, che ò e resta impensabile al di fuori della poliV. I tre grandi modelli di filosofia politica – quello aristotelico, quello hobbesiano e quello hegeliano – sono costruiti su delle dicotomie o, nel caso di quello hegeliano, su tricotomie, ancorchè quella di Aristotele lo sia solo in senso lato. L’impiego delle dicotomie ò del resto piuttosto diffuso: al mondo del diritto romano dobbiamo quella pubblico/privato, a Ferdinand Tà¶nnies quella comunità /società . La grande dicotomia della filosofia politica aristotelica ò quella oikoV/poliV, anche se poi lo Stagirita assume il villaggio come categoria intermedia tra le due. Anche il modello hobbesiano ò dicotomico: contrapposto allo stato di natura ò infatti la società  civile o politica. Agli uomini ò infatti dato di vivere in due scenari: o in quello dello stato di natura, che noi non abbiamo mai visto ma che troviamo descritto nei racconti dei viaggi in terre remote, dove non c’erano leggi, potere sovrano e Stati. Oppure nello scenario dello Stato, che riprende gli aspetti positivi (libertà  e uguaglianza in primo luogo) dello stato di natura, correggendone i limiti. Dal canto suo, il modello hegeliano tenta la sintesi di quello aristotelico e di quello hegeliano, secondo le leggi dell’Aufhebung: i termini fondamentali del modello di Hegel sono la famiglia, la società  civile e lo Stato. La famiglia ò direttamente derivata da Aristotele, lo Stato da Hobbes: la società  civile, invece, ò una realtà  sconosciuta ai precedenti autori e corrisponde alla civil society di cui parlavano gli autori scozzesi (Hume, Adam Smith), ossia alla società  economica di mercato che nasce in età  moderna. Se ai tempi di Aristotele l’economia era primariamente amministrazione dell’oiokoV e dei suoi beni, nell’età  moderna essa riguarda gli individui, le classi e i gruppi sociali su scala globale. Abbiamo in precedenza visto come l’incipit della Politica annunci la naturale socievolezza dell’uomo, definito sia come zwn politikon sia come zwn logon ecwn. E, all’interno di una concezione che va sostenendo il primato del tutto sulle parti, Aristotele mette in luce il tessuto connettivo che lega le parti fra loro, cercando anche di spiegare perchè una pluralità  di individui con interessi diversi e spesso contrastanti stia insieme dando vita a fenomeni di integrazione. Nel tentativo di far luce su questa problematica, Aristotele prende in esame la filia, ovvero l’amicizia che lega tra loro gli esseri umani: a tale tematica ò dedicato il cap. 8 dell’Etica nicomachea. Lo Stagirita qui ci propone una tipologia delle forme di amicizia che ne include tre: v’ò in primo luogo l’amicizia in vista del piacere, poi quella in vista dell’utile, infine quella in vista della virtù. La prima ò quella che si stabilisce tra quanti si intrattengono con piacere tra loro; la seconda, invece, ò quella che viene a instaurarsi in vista dell’interesse di quanti la contraggono; ò, per così dire, un’amicizia strumentale. Infine, la terza e superiore forma di amicizia, finalizzata alla virtù, ò quella mediante la quale si diventa migliori, avviando un processo di valorizzazione delle proprie capacità . Quest’ultima ò l’amicizia che Aristotele considera decisiva per capire la politica. àˆ una forma di amicizia tale per cui si agisce quasi in competizione con l’amico per primeggiare in generosità , in grandezza d’animo e in tutte le altre virtù. Tutte e tre queste amicizie sono di fondamentale importanza per far sì che nella poliV si generi l’amicizia politica, che ò inattuabile nella misura in cui la convivenza non gratifica gli uomini, ossia quando ò priva di piacere e di benessere. In questa prospettiva, il modello platonico della poliV, ascetica e autoritaria insieme, ò oggetto di sempre reiterate critiche da parte di Aristotele, il quale resta convinto che le tre forme di amicizia da lui descritte debbano convergere, in maniera tale che nell’amicizia politica tutti ci guadagnino (amicizia in vista dell’utile), ne traggano piacere (amicizia in vista del piacere) e migliorino (amicizia in vista della virtù). Una poliV sarà  allora tanto meglio riuscita quanta più amicizia in vista della virtù sarà  in essa presente, anche alla luce del fatto che tra amicizia politica e amicizia per la virtù sussiste una perenne tensione, paragonabile a quella sussistente tra vita teoretica e vita pratica. La prospettiva aristotelica ò rovesciata da Hobbes nel De cive: il filosofo inglese concepisce il vasto quanto ambizioso progetto filosofico, gli Elementa philosophiae, il cui titolo, oltre al richiamo all’opera euclidea, lascia trasparire la volontà  di muovere non dal tutto (come aveva fatto Aristotele), bensì dagli elementi, dalle parti. Tre sono le sezioni che compongono gli Elementi di filosofia: Sul corpo (De corpore), Sull’uomo (De homine) e Sul cittadino (De cive). Dopo aver illustrato, nel primo paragrafo del primo capitolo del De cive, come le facoltà  umane si riducano a quattro elementi fondamentali (passioni, forza fisica, ragione, esperienza) in interazione fra loro, Hobbes – a partire dal secondo paragrafo – dichiara guerra ad Aristotele e alla sua concezione dell’uomo come animale naturalmente politico e socievole. In totale disaccordo con lo Stagirita, Hobbes sostiene che la società  non ò naturale all’uomo, ma ò anzi un qualcosa legato alla contingenza e tale da spingere gli uomini a stare insieme (può essere ad esempio la scarsità  di beni, o anche la crescita demografica che costringe a vivere più persone in uno stesso spazio, ecc). Non possiamo allora credere, con Aristotele e mediatamente con la tradizione cristiana, che l’uomo sia secondo natura un animale socievole, anche considerando la selettività  della benevolenza: infatti – rileva Hobbes – se l’uomo fosse davvero socievole e amasse l’uomo, dovrebbe amare ugualmente ogni uomo in quanto uomo e non, come sempre accade, soltanto alcuni uomini (i suoi parenti, ad esempio). Da ciò si può evincere come, lungi dall’amare l’uomo in quanto tale, ciascuno di noi ami alcuni uomini non già  per inclinazione naturale, ma piuttosto perchè da essi trae vantaggi. Dunque, ogni qual volta riscontriamo socievolezza tra gli individui, ciò avviene in virtù del fatto che da tale relazione essi traggono vantaggi. Si tratta, ò evidente, di una tesi marcatamente utilitaristica e opposta a quella che sarà  successivamente formulata da Kant: se per quest’ultimo ogni uomo ò un fine, per Hobbes ò invece un mezzo da sfruttare al fine di ricavarne vantaggi. Sicchè, se vogliamo capire perchè gli uomini stanno insieme, dobbiamo guardare non alle loro intenzioni, ma alle conseguenze (cioò all’utile e all’onore): si tratta dunque di un’etica utilitaristica, teleologica, sequenzialistica e non deontologica. Preparatosi il terreno in questo modo, Hobbes procede prendendo in esame le tre forme di amicizia individuate da Aristotele e smascherandole una dopo l’altra. Partendo dall’amicizia per l’utile, il filosofo inglese nota che, se gli uomini si incontrano per commerciare, allora ciascuno di essi si cura esclusivamente dei propri affari e non del socio: ne nasce un’amicizia esteriore e finalizzata all’utile, dettata dal timore più che dall’amore (si sta infatti insieme contro qualcuno, non in favore di qualcuno). Passando all’amicizia per il piacere, egli nota poi come se gli uomini si incontrano per divertirsi, ciascuno si compiace delle cose che suscitano il riso e ciascuno mira a gratificare il suo amor proprio e la propria gloria, secondo quello che Habermas definisce come “agire drammaturgico”. Del resto, in questi incontri volti al divertimento capita sempre che si sparli degli assenti e perfino, quando si assentano temporaneamente, dei presenti. Così avviene che chi ha subito troppe scottature diventi misantropo e non voglia più saperne di relazioni sociali. Per quel che riguarda l’amicizia in vista della virtù, Hobbes ò ancora più critico: quando ad esempio ci si incontra per filosofare, ognuno vuole insegnare agli altri, ponendosi in modo autoritario. Tutte le riunioni umane sono dettate dal desiderio di trarne utilità  o gloria: la terza forma di amicizia aristotelica, l’amicizia per la virtù, ò da Hobbes liquidata come inesistente. Se dunque le tre forme di amicizia si riducono a questo, allora non sarà  possibile un’amicizia politica e l’uomo non sarà  affatto un animale socievole, ma anzi userà  la ragione per confliggere contro i suoi simili. Col secondo libro della Politica, Aristotele conduce una serrata critica contro il modello politico prospettato da Platone, già  preso di mira sul finire del primo libro. Proprio nelle ultime battute di esso, lo Stagirita mette in luce la distinzione tra dominio politico (proprio della poliV) e dominio dispotico (tipico dell’oikoV), ossia distingue tra l’ambito in cui sussistono le naturali disuguaglianze tra il padre e i figli, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo (assimilato al bue), e l’ambito in cui non vi sono disuguaglianze naturali. Anche nella poliV, in realtà , vi sono disuguaglianze, ma esse sono non già  naturali, bensì funzionali alla poliV stessa: la grande distinzione qui in vigore ò fra chi comanda e chi ò comandato, ma si tratta di un rapporto non dato una volta per tutte, ma tale da variare nel tempo in virtù della rotazione delle cariche. Sicchè nella poliV il cittadino si trova ora ad essere comandato, ora a comandare. Ciò non toglie che, nel tessuto della città , tutti i cittadini siano uguali e se proprio si vuol trovare una disuguaglianza, la si può rinvenire nella disparità  tra i giovani (che sono comandati) e gli anziani (che comandano). In maniera alquanto significativa, Aristotele dice [1259 B] che “quando le magistrature sono per la massima parte in mano ai cittadini, c’ò alternanza tra governante e governato” e il cittadino tende, per sua inclinazione naturale, a voler essere uguale ai suoi simili. Lo Stagirita rileva poi che, quando un cittadino si trova ad essere governato da un altro cittadino, la disuguaglianza funzionale che si manifesta nell’esercizio di una data magistratura ò evidenziata dall’apparato esterno dei titoli, degli onori, delle cariche. In quella divisione dei ruoli, può esserci differenza dei ruoli stessi, ma mai confusione dei medesimi. In ciò, Aristotele si distingue in maniera piuttosto netta da Platone, giacchè quest’ultimo distingueva in modo marcato la funzione del comando da quella dell’obbedienza, riconoscendo – seppur attraverso una “nobile menzogna” – che le differenze tra le varie classi sociali e i ruoli ad esse competenti sono naturali alla pari delle differenze tra i metalli. Le diversità  del modello aristotelico rispetto a quello platonico affiorano in maniera ancora più forte nel secondo libro, nel quale ò messo alla berlina tanto l’utopistico progetto della Repubblica quanto quello delle Leggi. La critica che Aristotele muove al suo antico maestro si svolge su due piani, su uno categoriale di principi filosofici e su un altro – più concreto – di critica empirica: in altri termini, ò come se alla critica mossa dal punto di vista della filosofia politica, Aristotele ne affiancasse un’altra dal punto di vista del realismo politico. Per quel che riguarda il primo aspetto, Platone ò accusato di aver inteso la poliV come una struttura unitaria e, in definitiva, pensata sul modello dell’oikoV; in questo senso, Platone ò colpevole di aver frainteso la natura della poliV e della politica, confondendone i piani con quelli dell’oiokoV. Lungi dall’essere quell’unità  riconosciuta da Platone, la poliV ò – nota Aristotele – pluralità  che ammette sì una gerarchia (fra governato e governante) ma che sia funzionale alla poliV stessa e non strutturale. Il problema di fondo che animava l’intero progetto platonico era quello della stasiV, ossia della lotta civile: nella poliV si trovano infatti a convivere due città  diverse e opposte – quella dei ricchi e quella dei poveri -, cosicchè finchè vi saranno queste due città , vi sarà  anche antagonismo e, con esso, conflittualità  sempre rinnovantesi. Ma, benchè abbia colto il problema, Platone non ò stato in grado di risolverlo, giacchè, anzichè eliminare queste due città  antagoniste, le ha riprodotte in forma autoritaria nella sua kallipoliV. Del resto, se la poliV diventa assoluta unità , smarrendo ogni differenza e pluralità , ne segue che a rigore essa non sarà  più neppure una poliV, tutt’al più sarà  una forma di oikoV, dal momento che si può parlare di poliV quando v’ò pluralità  e differenza. Ben si capisce allora perchè il modello monistico prospettato da Hobbes risulti assai più vicino a quello platonico (che tende a ridursi a famiglia) che non a quello aristotelico, soprattutto in forza del fatto che il filosofo inglese punterà  tutto sulla famiglia e, soprattutto, sull’uomo singolo. Il Leviatano stesso, che nel linguaggio hobbesiano simboleggia lo Stato, non ò se non un colosso costituito da tanti singoli uomini (i sudditi) che, uniti, danno lo Stato: ciascuno di essi ò tenuto ad occupare il posto che gli ò stato dato, senza che vi sia alcuna possibilità  di quella rotazione delle cariche prevista da Aristotele. Più vicina alla posizione di quest’ultimo sarà  Hannah Arendt, la quale concepirà  la politica in senso aristotelico, come regno della pluralità  e della differenza, accusando l’intera tradizione occidentale di aver fatto proprio il modello unicizzante di Platone. Proprio Platone, nella Repubblica, aveva irrigidito in senso quasi castale il rapporto intercorrente tra i governati e i governanti: nel settimo libro della Politica, Aristotele va sostenendo [1332 A] che se le differenze tra i cittadini fossero costitutive, come quelle che dividono gli dei dagli uomini, allora avrebbe ragione Platone ad ammettere che alcuni devono per natura governare sempre mentre ad altri spetta di essere sempre governati; ma poichè tali differenze non sussistono e anzi tutti i cittadini sono eguali (tema squisitamente moderno e stante alla base della democrazia), allora tutti e nella stessa misura devono avvicendarsi nel comandare e nell’essere comandati. Il fatto che i cittadini siano tra loro eguali non implica però che tra il governato e il governante non vi siano differenze: il primo deve obbedire ai comandi del secondo, che si trova in posizione egemonica rispetto a lui; ma tale differenza ò funzionale alla poliV stessa, non le ò congenita nè ò naturale. Naturale ò invece la differenza che, nell’ambito dell’oikoV, Aristotele riconosce tra il padre e il figlio, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo, concepito un mero strumento da lavoro alla pari del bue o dell’aratro. Nella sua critica indirizzata all’ex maestro, Aristotele si spinge anche più in là , assumendo come bersaglio le proposte platoniche in fatto di articolazione delle classi sociali: Platone aveva formulato il progetto altamente pedagogico di riforma dell’istruzione e della socializzazione degli individui, convinto che, per uscire dal vigente disordine sociale, non bastasse l’imposizione di una nuova costituzione, ma fosse necessaria una riforma antropologica della natura umana (ancora Gramsci, in pieno Novecento, parlerà  di “riforma intellettuale e morale” per arrivare al comunismo). In particolare, per ottenere una nuova natura umana, occorre – secondo Platone – il conseguimento di un nuovo paradigma di riferimento, che può essere ottenuto allontanando i figli dalle famiglie di origine e dalle loro particolarità  educative. La prima critica che Aristotele muove a questo progetto ò che si tratta di un disegno profondamente contraddittorio, poichè se il suo fine ò di conseguire la pace nella poliV e di mettere al bando una volta per tutte la stasiV, allora la comunanza di donne e figli prospettata da Platone finirà  per alimentare il conflitto anzichè estinguerlo. Aristotele nota ciò alla luce del fatto che “dove donne e figli sono comuni, ci sarà  meno amicizia[politica]” e aumenterà  esponenzialmente il numero dei conflitti e delle dispute. Ciò detto, lo Stagirita insiste soprattutto sulla proprietà  privata, che costituisce il punto cruciale per il mantenimento dell’ordine nella poliV. In particolare, egli attacca duramente la condanna platonica della proprietà  privata: Platone aveva sostenuto che, in fin dei conti, la fonte di tutti i mali sociali era la proprietà  privata, da cui sorgeva ogni forma di conflitto, di invidia e di antagonismo; ora, Aristotele nota che non ò la proprietà  in quanto tale a causare conflitti, ma piuttosto sono certe modalità  di proprietà  (soprattutto nel caso in cui vi sono cittadini che dispongono di immense proprietà  e altri che sono invece nullatenenti): inoltre, lo Stagirita nota che il collettivismo prospettato da Platone non ò in grado di restituire la pace. Dal canto suo, Aristotele ò convinto che le conflittualità  potranno essere, se non eliminate, certamente contenute nella misura in cui a trionfare sono non le grandi, bensì le piccole proprietà  e, con esse, il ceto medio (col che la quale egli anticipa molte tesi moderne), in linea con la tesi, sempre reiterata, della medietà  della virtù. Se a prevalere sono le piccole proprietà  e il ceto medio, allora viene a cadere la lotta tra la città  dei ricchi e quella dei poveri e la società , da piramidale che era, assume la forma di un rombo, i cui vertici sono occupati rispettivamente dai ricchi e dai poveri e il cui popolatissimo centro ò invece occupato dal ceto medio. Successivamente, Aristotele sviluppa una tesi che sarà  ripresa in età  moderna, quella dell’uso sociale della proprietà  privata, che non dà  diritto assoluto sempre sui propri beni: v’ò una dimensione d’obbligo per cui il detentore della proprietà  deve pagare certi prezzi. àˆ, in altri termini, un temperamento sociale della proprietà . Aristotele conduce poi un’argomentazione di tipo eudemonistico: una società  può stare insieme solamente se tutte le sue parti sono soddisfatte; ma non si può essere soddisfatti se non si dispone di proprietà  privata, come attesta ogni esperienza. àˆ infatti grazie alla proprietà  privata che si può essere felici, provando la gioia dell’essere liberali con gli amici e con gli stranieri. Aristotele rileva inoltre che Platone sottovaluta la componente eudemonistica della proprietà  anche per il fatto che condanna due classi (i governanti e le guardie) ad un’ascesi che ò francamente eccessiva. àˆ impossibile che la società  sia nel suo insieme felice se le sue parti non lo sono. I punti finora emersi dalla lettura della Politica aristotelica sono essenzialmente due: in primo luogo, abbiamo rilevato come si tratti di una prospettiva evolutiva, tale per cui il momento politico ò un punto di evoluzione e, per così dire, di arrivo rispetto alla famiglia. In secondo luogo, abbiamo messo in luce come alla base della politica aristotelica vi sia un’antropologia comunitaria in forza della quale l’uomo ò animale insieme politico e socievole: una siffatta antropologia trova la sua più alta espressione nella filia, con la quale si trovano a convergere la felicità  e la virtù (infatti la filia politikh ò amicizia politica che dà  la più grande gratificazione possibile ai cittadini). Dobbiamo ora prendere in esame un terzo punto decisivo, di cui finora non ci siamo occupati: quello riguardante il diritto naturale. In Aristotele, la concezione della giustizia accentua molto il momento eudemonistico (poco marcato in Platone), a tal punto che lo Stagirita così scrive nell’Etica nicomachea [1129 B]: “giusto ò ciò che produce e custodisce per la comunità  politica la felicità  e le sue componenti”. La connessione qui operata ò tra giustizia e felicità , quest’ultima intesa come il prodotto del convergere di azioni che provengono da diversi piani anche diversissimi tra loro. E ancora una volta Aristotele muove da una concezione della giustizia come medietà , più precisamente come medietà  tra quei due estremi di cui già  Platone (Repubblica, II) aveva colto in pieno l’importanza: il commettere ingiustizia e il subirla. La medietà  tra questi due opposti configurantisi come eccessi (commettere ingiustizia significa infatti voler avere di più di quanto spetti, mentre subirla vuol dire avere di meno). Aristotele si sofferma soprattutto sul rapporto intercorrente tra giustizia, legge e uguaglianza, giacchè la giustizia ò una forma di ordine che presuppone la legge e l’uguaglianza, come egli nota sempre nell’Etica nicomachea [1129 B]. In tale prospettiva, si dirà  giusta un’azione nella misura in cui essa instaura una qualche forma di uguaglianza fra gli individui, ancorchè Aristotele alluda qui all’uguaglianza come proporzionalità  e non come identità  o come uguaglianza in senso geometrico. A questo proposito, egli procede a distinguere tra due diversi tipi di giustizia, a seconda di come si instaura l’uguaglianza nella società : da un lato, v’ò la giustizia distributiva; dall’altro, la giustizia correttiva, a sua volta suddivisa in commutativa e in riparatrice. La giustizia distributiva ò quella che distribuisce un qualche bene a degli individui sulla base del loro bisogno o del loro merito. Quella correttiva, invece, parte da una situazione di uguaglianza e la ristabilisce là  dove viene violata (se ad esempio un tale patisce un torto, la giustizia correttiva pone ad esso riparo). Due sono però le modalità  della giustizia correttiva: una ò volontaria, l’altra involontaria. La prima ò la giustizia commutativa (detta anche “giustizia dello scambio”), che presuppone una struttura diadica (vi sono due individui che effettuano scambi fra loro) e orizzontale (tali individui sono sullo stesso piano: non accade più quel che accadeva con la giustizia distributiva, che prevedeva un intervento “dall’alto” volto a distribuire i beni). Sull’altro versante, la giustizia riparatrice (che in epoche successive sarà  definita come “giustizia penale”) non prevede azioni volontarie, quali erano quelle della giustizia commutativa (ad esempio, due individui che sul mercato decidono di mettere in atto una transazione): le azioni con cui essa ha a che fare sono invece involontarie e, per capire questo punto, possiamo pensare a un individuo che, al di là  della sua volontà , ha subito un torto. La grande dicotomia che soggiace e che dà  forma a questo schema della giustizia ò quella pubblico/privato: la giustizia distributiva ò pubblica, mentre quella correttiva ha a che vedere coi privati (ciò ò più evidente se riferito a quella commutativa, meno se riferito a quella riparatrice). Il grande problema contro cui cozza la giustizia distributiva ò quello del merito: qual ò il merito secondo cui bisogna distribuire i beni? Aristotele ò perfettamente consapevole che la nozione di “merito” sia polivoca, cosicchè presso gli oligarchici essa ò in riferimento alla ricchezza, presso i democratici ò in riferimento alla liberalità , ecc. Di fronte a questa situazione, che Max Weber ricondurrebbe nella categoria del “politeismo dei valori”, Aristotele sostiene che il giusto ò un qualcosa di proporzionale. Nella sfera della giustizia correttiva, domina non la proporzione geometrica, ma quella aritmetica; infine, nella giustizia commutativa la specificità  del giusto ò nel suo essere medietà  tra gli estremi del perderci e del guadagnarci troppo: così, quando si litiga, ci si reca davanti a un giudice, il quale ò “come la giustizia vivente” ed ò il mediatore per eccellenza, ossia colui che bilancia tra gli estremi. Ciò detto, Aristotele procede poi a distinguere tra giusto naturale e giusto convenzionale, anticipando la distinzione tipicamente moderna tra giusnaturalismo e positivismo giuridico. Il giusnaturalismo implica, per sua stessa natura, un dualismo dei sistemi normativi per cui il sistema delle leggi naturali ò affiancato da quello delle leggi positive. Al contrario, il positivismo giuridico implica un monismo del sistema normativo, per cui ad esistere sono solo le leggi positive (ciò non toglie che, oltre alle leggi giuridiche, ve ne possano essere altre, magari morali: ma, ciò non di meno, queste ultime non hanno valore giuridico). Dal canto loro, i giusnaturalisti dicono che le leggi positive sono giuste e dunque da rispettare esclusivamente se sono in accordo con quelle naturali. Aristotele pone le basi di questa distinzione parlando di un giusto per natura (dikaion fusei) che si può avvertire nei più diversi contesti culturali e che dunque non deriva dai costumi e dagli usi: ma ciò non di meno la legge naturale può essere riconosciuta solo nella poliV, poichè ò solo là  che, nell’ordine costituito, si coglie la distinzione tra legge positiva e legge naturale. Aristotele pare anche suggerire che fuori dalla città  e prima di essa non vi sia diritto naturale e che questo viga soltanto tra i membri di una stessa comunità , il che vuol dire che Aristotele lascia un certo spiraglio al relativismo culturale. Il diritto positivo cambia di città  in città , di Stato in Stato, ma quello naturale – dicono i moderni – resta lo stesso per tutti gli uomini: diversamente la pensa Aristotele, il quale riconosce che anche il diritto naturale non ò estraneo al gruppo politico e sociale a cui si appartiene. Ed ò curioso notare come i Greci, ancor prima della fusiV e del nomoV, abbiano l’hqoV, ossia l’insieme delle norme della tradizione, un insieme organico in cui non v’ò ancora distinzione tra giusto positivo e giusto naturale. Verso Hobbes Nell’Etica nicomachea [1134 B], Aristotele sostiene che “naturale ò quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che ad uno sembra buono oppure no”: da quest’asserzione emerge bene l’opposizione tra il giusnaturalismo e il convenzionalismo, quest’ ultimo presentato come una sorta di relativismo o di soggettivismo protagoreo. Partendo da qui, possiamo valutare la distanza che separa Hobbes dal giusnaturalismo classico: anch’egli si richiama a più riprese alla legge naturale, ma la intende come un qualcosa che ò soggetto alla manipolazione delle preferenze del singolo. Al contrario, il giusnaturalismo greco e, in particolare, aristotelico era fondato su due assunti fondamentali: a) l’ordine eterno della natura ò il fondamento di ogni diritto valido universalmente: dunque ò l’ordine implicito della fusiV a rendere possibile il discorso sulla legge naturale; b) la ragione umana ò l’organo della conoscenza del diritto proprio in forza del fatto che si fonda su quell’ordine naturale di cui abbiamo testè detto. Prima di passare da Aristotele a Hobbes, ò bene rilevare come tale concezione della naturalità  e della conoscibilità  razionale dell’ordine sia stata messa in crisi dal cristianesimo o, meglio, da certo cristianesimo: il suo avvento implica una sorta di sincretismo rispetto alla concezione classica, anche se poi, nel suo significato metafisico originario, si presenta come sfida al mondo greco. Sul piano ontologico, infatti, il cristianesimo muove dalla creazione del mondo dal nulla e dunque non pone l’accento su un ordine eterno della natura, ma piuttosto sul fatto che il mondo e l’ordine stesso sono il frutto di una creazione ex nihilo. Sul piano epistemologico, poi, ne segue un ridimensionamento della ragione naturale: se infatti essa ò per Aristotele capace di cogliere intuitivamente l’ordine naturale, per i cristiani essa ò invece contraddistinta da limiti intrinseci e la sua sola funzione ò quella di ricostruire un ordine e non di riconoscerne uno già  esistente. In particolare, passando attraverso il cristianesimo, le posizioni possibili diventano tre: 1) v’ò chi assume che ci sia un ordine e che esso sia manifesto alla ragione umana e pertanto coglibile intuitivamente; 2) v’ò chi (la scienza moderna in primis) pensa che ci sia un ordine ma che esso sia nascosto e solo parzialmente riconoscibile dalla ragione, cosicchè la conoscenza deve combinare un aspetto empirico/sperimentale a uno ipotetico/convenzionale (ad esempio, si sa che c’ò un ordine e, per ciò, bisogna avanzare ipotesi convenzionali). 3) Come estremizzazione della posizione precedente, v’ò chi crede che non ci sia un ordine che se anche ci fosse non sarebbe comunque accessibile alla conoscenza umana: si approda così allo scetticismo (Montaigne) o alla fede (Pascal) o alla convinzione che l’ordine naturale non esista ma che lo si possa artificialmente costruire (Hobbes). Quest’ultima concezione, in particolare nella sua veste hobbesiana, affonda le sue radici nella scolastica medievale: se Tommaso tenta un sincretismo tra ragione aristotelica e rivelazione cristiana, a far saltare tale sintesi e a preparare il terreno al convenzionalismo hobbesiano sono Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, i quali mettono in forse la discussione teleologica cristiana – ereditata da Aristotele – e ritengono indimostrabile che ogni singola azione sia volta a un fine. Comincia in questa maniera a incrinarsi il nesso tra ontologia e assiologia, quel nesso per cui ens et bonum convertuntur: si comincia a mettere in discussione il nesso bontà /onnipotenza divine, alla luce del fatto che la bontà  ò indimostrabile e pertanto non se ne può derivare il precetto di amare il prossimo. Ponendo al centro la volontà , Scoto e Ockham ritengono che i precetti del Decalogo dipendano direttamente dalla voluntas divina, con la conseguenza che nell’ordine del mondo troviamo non già  la ratio, bensì la voluntas: quest’ultima sfugge alla conoscenza razionale. Non v’ò allora un ordine naturale che si manifesta all’uomo: al contrario, la conoscibilità  riguarda un ordine artificiale, costruito ad hoc e dunque si tratta di conoscenza ipotetico/convenzionale. Così per Hobbes si possono conoscere i corpi politici perchè li creiamo noi stessi, ponendo in essi l’ordine: secondo il principio vichiano del verum ipsum factum, si può conoscere solo ciò di cui si ò facitori. Fortissime sono le conseguenze che una tale posizione ha sull’etica: il giusnaturalismo classico, da Aristotele a Tommaso, ò definibile in base all’affermazione “esistono princìpi di giustizia che sono oggettivamente veri”: ad essi, che configurano un ordine naturale, devono attenersi le leggi positive per poter essere giuste. Il fatto che ci siano leggi naturali colte intuitivamente dalla ragione permette di affermare che essa ò in grado di discernere il bene e il male: ò questo il “cognitivismo etico”. Dal canto suo, Hobbes ò il primo sostenitore di rilievo di una posizione non cognitivista (detta “relativista” dai suoi avversari), il cui terreno ò stato preparato dalla riflessione di Scoto e di Ockham: per Hobbes, bene e male sono solo oggetto di preferenze soggettive, cosicchè non si possono definire il giusto e l’ingiusto in base al consenso di tutti (consensus omnium), come invece facevano i giusnaturalisti. Inoltre – nota Hobbes – se le leggi avessero origine dal consenso collettivo, allora esse potrebbero anche essere abrogate da tale consenso e ciò le renderebbe alquanto fragili: anche per questo motivo il filosofo inglese non esita a schierarsi contro il giusnaturalismo. Hobbes Hobbes introduce la distinzione fondamentale tra diritto naturale (ius naturae) e legge naturale (lex naturae): lex e ius – egli nota – non sono la stessa cosa e tale dicotomia rimanda ad un problema sostanziale che ora esamineremo. Ius naturae ò il diritto naturale ed ò innanzitutto libertà  che appartiene al singolo individuo (ius indica dunque il diritto soggettivo), di contro alla tradizione giusnaturalistica, che era, da Aristotele in poi, olistica e non individualistica. Viceversa, lex ò il contrario della libertà , ò vincolo collettivo della libertà  dell’individuo e rimanda sì ad una prospettiva olistica, più precisamente alla prospettiva artificiale dello Stato. Nella prima parte del De cive, Hobbes si sforza di definire l’ipotetico scenario dello stato di natura, caratterizzato dall’assenza del potere sovrano e, partendo da ciò, egli prova a costruire un’ antropologia e poi uno Stato. Nello stato di natura, egli non considera le famiglie (come invece faceva Aristotele), ma gli individui: essi si trovano in una condizione duplice di uguaglianza e di volontà  di nuocere (voluntas ledendi). Questi due punti di partenza sono il rovesciamento di quelli di Aristotele, che muovendo dalla famiglia notava come quella originaria fosse una situazione di disuguaglianza (padre/figlio, marito/moglie, padrone/schiavo) e come l’uomo fosse uno zwn politikon mosso da filia. Tanto l’idea di uguaglianza originaria quanto quella di voluntas ledendi, che Hobbes assume come punto di partenza, sono il portato del cristianesimo, ancorchè la teoria di Hobbes sia assolutamente laica e stia alla base dello Stato laicamente inteso. Da questi due elementi originari, scaturisce che nello stato di natura, ove si ò uguali ma ognuno vuole nuocere agli altri, la condizione umana ò di paura reciproca e già  Tucidide, del quale Hobbes tradusse da giovane le Storie, poneva tra i fattori della politica il foboV, ossia la paura. Questa costruzione, tale per cui dall’uguaglianza e dalla volontà  di nuocere deriva un diffuso stato di paura, ò in Hobbes complicata da un’attenta analisi delle passioni: egli cerca di spiegare perchè l’uguaglianza porti alla paura e perchè ne nasca un terrore pervasivo. Nel terzo paragrafo del cap. 1 del De cive, egli dice che la paura reciproca deriva appunto dall’uguaglianza e dalla volontà  di nuocere, precisando che “sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro l’altro” e dato che tutti possono uccidere (chi con la forza, chi con la frode), allora se ne ricava che nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali. La volontà  di nuocere ò in tutti, ma non ò la stessa per tutti: ci sono i moderati e i prepotenti, e i secondi, in base a un’eccessiva stima di sè, si sentono autorizzati a prevaricare (ò ciò che accade, ad esempio, nei Promessi sposi quando ò intimato a Fra’ Cristoforo di cedere la diritta); i primi, pur non essendo vanagloriosi, finiscono poi ugualmente per nuocere agli altri per difendere i loro averi e la loro libertà  (essi nuocciono per difendersi, sicchè sono meno colpevoli rispetto ai prepotenti). Inoltre, Hobbes nota che causa frequentissima del nuocere ò che molti desiderano al contempo una stessa cosa che finisce poi nelle mani di chi risulta più forte nella lotta. Pertanto la volontà  di nuocere dipende a) dalla prepotenza, b) dalla necessità  di difendersi (ossia dalla diffidenza), c) dalla competizione per i beni. Queste tre radici, coagendo con l’uguaglianza, realizzano la situazione di paura che regna nello stato di natura. Però poi Hobbes complica il quadro introducendo un’altra variabile (ed ò qui che fa la sua comparsa il diritto naturale): egli infatti sostiene che nello stato di natura gli uomini si perpetrano violenze d’ogni tipo (quaestio facti) e che – qui sta il punto saliente – essi hanno il diritto a farlo (quaestio juris) perchè ne va della loro stessa sopravvivenza. In questa prospettiva, il discorso hobbesiano si spezza in una componente descrittiva e in una normativa. Considerati i molti pericoli che minacciano la vita del singolo nello stato di natura, non ò affatto biasimevole prendersi cura di sè, cercando ciò che per sè ò un bene e fuggendo ciò che ò per sè un male. In questi termini, l’uomo ò presentato come un animale desiderante il bene (innanzitutto l’autoconservazione) e fuggente il male (innanzitutto la morte) e che così agisce con la stessa necessità  con cui una pietra, se lasciata, cade al suolo. Hobbes si propone dunque di analizzare l’uomo con le stesse leggi con cui Galileo studiava il mondo: non ò assurdo nè biasimevole se ci si adopra per conservare il proprio corpo dai dolori e dalla morte; lo si fa con diritto e il diritto ò “la libertà  che ciascuno ha di usare delle proprie facoltà  secondo retta ragione”. In opposizione alla lezione cristiana, Hobbes dice che tutto ciò che fanno nello stato di natura, gli uomini lo fanno con diritto: oltre ad essere uguali e ad avere certe passioni, essi sono legittimati ad averle e ad agire a quel modo al fine di autoconservarsi. In vista dell’autoconservazione, essi hanno diritto a tutto ciò che serve alla loro autoconservazione: la conseguenza ò il bellum omnium contra omnes, ossia una costante guerra di tutti contro tutti. Gli individui sanno di avere il diritto ad ogni cosa (ius ad omnia) pur di autoconservarsi: soltanto l’individuo ò giudice dei mezzi che gli occorrono per la propria autoconservazione. Hobbes lascia intendere che uguaglianza e libertà  sono concetti alquanto problematici, che finiscono per produrre conflittualità  tra gli individui, ciascuno dei quali sa di aver diritto a tutto. Non si può dire che cosa sia giusto per il singolo individuo (qui sta il non cognitivismo etico di Hobbes), giacchè soltanto egli ò giudice di sè, e talvolta finisce per essere giudice fallibile. Nello stato di natura, la misura dell’azione ò l’utilità  o, meglio, la valutazione soggettiva dell’utilità : a rendere ulteriormente instabile la condizione che caratterizza lo stato di natura ò la fallibilità  del giudizio dei singoli. Il loro ò dunque un conflitto di identità  ancor prima che di beni: l’agire e addirittura il parlare sono il manifestare coi fatti e con le parole la volontà  di lottare e di nuocere. In questi termini, Hobbes ha ampiamente dimostrato la contraddittorietà  dell’esistenza nello stato di natura: da tutto ciò, egli deduce che si deve uscire da tale stato di natura, essendo in esso continuamente minacciata la sopravvivenza di tutti gli individui. A permettere l’ uscita ò la lex naturae: la sua presenza indica che, accanto allo ius naturae, nella natura umana c’ò la legge di ragione, che suggerisce possibili vie per uscire dalla conflittualità  imperante nello stato di natura. Uno dei mezzi di autoconservazione era, per l’appunto, la legge naturale: gli individui, per garantire l’autoconservazione, potevano cioò decidere di darsi leggi che li tutelassero. Ma il ricorso alla lex naturae dipende dall’individuo: sta a lui scegliere se usarla oppure no. Da ciò si capisce come, nella prospettiva hobbesiana, il giusnaturalismo sia utilizzato per poi essere buttato a mare. La legge (da legere, in italiano “legare”) ò per sua stessa natura un vincolo alla libertà : quest’ultima, secondo un materialista quale ò Hobbes, non ò che assenza di impedimento al moto, cosicchè la legge si configura come un ostacolo che limita tale moto proibendo determinate cose. Essa opera nella duplice direzione di proibizione (additando quali cose non ò possibile fare) e di obbligazione (prescrivendo ciò che si deve fare): ora, il giusnaturalismo non operava una distinzione tanto netta e proponeva soluzioni compromissorie rese possibili dall’assenza di siffatta distinzione e dal fatto che non concepiva gli individui come ostili fra loro e anzi guardava alla sola comunità . La legge di natura cerca di eliminare il conflitto (mentre il diritto naturale lo sortiva come effetto), anche se in fin dei conti non funziona in maniera completa: e se Hobbes vede nel diritto un elemento che produce il conflitto, al contrario per i giusnaturalisti nò la legge naturale nè quella positiva, intesa come mera specificazione e rafforzativo di quella naturale, portano a ciò (infatti la legge naturale mi dice di non uccidere, quella positiva mi dice che la pena per l’omicidio ò il carcere). Sicchò per i giusnaturalisti la legge naturale ò sufficiente per neutralizzare il conflitto: dal canto suo, Hobbes assume una diversa posizione, sostenendo che la sola legge naturale non basta per azzerare il conflitto, giacchè essa opera nello stato di natura, in cui vigono sì precetti di legge naturale che proibiscono certi comportamenti (ad esempio mi dicono di stare ai patti, di non essere ingrato, di essere accomodante verso gli altri, ecc), ma ciò non di meno nello stato di natura, data la natura fortemente conflittuale degli uomini, il conflitto ò inevitabile e la ragione suggerisce ad ognuno di usare i mezzi ch’egli ritiene adeguati per la propria sopravvivenza. Pertanto il singolo finisce per non rispettare la legge naturale, perchè il conflitto ò tale da far sì che il rispetto della leggi di natura si volga a suo svantaggio. Per chiarire questo punto, Hobbes cita le relazioni tra gli Stati: essi si trovano in una situazione di perenne stato di natura, hanno il potere sovrano, che non ne riconosce altri superiori, e per ciò se anche stipulano tra loro dei patti, essi presentano la clausola rebus sic stantibus, cosicchè quando almeno uno dei due Stati non ha più l’interesse a rispettarli, li infrange. Da ciò si capisce come le leggi naturali obblighino sì l’individuo, ma in foro interiore, nella sua coscienza e mai nei comportamenti esterni. Se tutti fossero moderati, allora le leggi naturali sarebbero sufficienti: ma poichè vi sono anche i prepotenti, che attaccano gli altri, anche i moderati si trovano nella condizione di dover confliggere, per difendersi. Hobbes attribuisce alla ragione un ruolo che non ò limitato al calcolo razionale: essa ò innanzitutto un mezzo di sopravvivenza, serve cioò come strumento di calcolo per rapportare i mezzi ai fini in maniera tale da garantire l’autoconservazione del soggetto. Ma per dare un contributo che sia realmente tale, la ragione deve anche promuovere l’autoconservazione del gruppo: qui emerge la nozione di recta ratio, la quale si esprime coi dettami della legge naturale e non ò più la ragione strumentale che mira unicamente all’autoconservazione del singolo. Essa mira piuttosto all’ autoconservazione dell’intero gruppo: ò perciò una “ragione morale” e superiore, nel senso che si pone il problema di rendere possibile la convivenza fra individui. Compie il primo passo verso la kantiana “razionalità  morale” che induce a riconoscere gli individui come fini, come valori, di contro alla ragione strumentale, che negli individui scorgeva esclusivamente degli strumenti. In realtà  si tratta di un processo funzionante solo in maniera ipotetica: se nello stato di natura gli individui seguissero la legge naturale, allora non ci sarebbe alcun problema; ma dal momento che essa obbliga solo in foro interiore, nello stato di natura “nemo tenetur ad impossibilia”, nessuno può cioò mettere a repentaglio la propria vita. Ne segue allora che la legge naturale non risolve il problema, ma indica una via per risolverlo. I singoli si accordano fra loro per lottare contro altri, ma ciò non risolve la situazione, perchè la guerra continua a sussistere: bisogna cercare la pace e bisogna rinunciare al proprio diritto di autoconservazione illimitata nella misura in cui vi rinunciano anche tutti gli altri. Se ò vero che il diritto all’autoconservazione ò impregiudicabile e irrinunciabile, non ò altrettanto vero che gli individui debbano sempre mantenere il diritto su tutte le cose (ius ad omnia): occorre trovare un accordo per cui essi mantengano il diritto alla vita ma perdano gli altri, che possono essere trasferiti ad un potere comune e artificiale (il sovrano), il quale ò la somma di tutti i diritti in esso trasferiti e serve a tutelare gli individui. Per questo motivo, nello Stato il sovrano non può in alcun caso privare i sudditi della vita, giacchè essi sono entrati in esso proprio al fine dell’autoconservazione. La prima legge naturale derivata, secondo la quale bisogna trasferire lo ius ad omnia ad un potere sovrano, ò alquanto problematica: tale trasferimento non ò infatti immediato, ovvero non c’ò una rinuncia immediata in vista di un bene del quale, nello stato di natura, non si ha ancora conoscenza. Sicchè Hobbes ci presenta dapprima l’essere umano come diffidente e antisocievole e poi, ribaltando la prospettiva, lo tratteggia come fiducioso nel firmare il patto sociale in vista di un bene che ancora non c’ò. Ma v’ò anche un altro problema altrettanto serio: finchè egli parla dello stato di natura, ci presenta una ragione strumentale e un linguaggio finalizzato all’inganno, cosicchè non si capisce perchè tale ragione riesca poi, mediante le leggi naturali, a mutare la condizione umana e a configurarsi come ragione morale. Se nello stato di natura non sussistono patti che possano avere validità  assoluta, giacchè valgono solo con la clausola rebus sic stantibus, allora come si può arrivare ad un patto di tutti in favore del potere sovrano? Ciò comporta infatti che tutti gli individui rinuncino allo ius in omnia in favore di chi ò slegato dal patto (da ciò scaturirà  che il sovrano, proprio perchè slegato dal patto, detiene un potere assoluto, indivisibile, irrevocabile). Le leggi naturali sono riconosciute dalla recta ratio, ma non basta conoscerla: bisogna applicarle e qui sta il difficile. Il problema che Hobbes si pone ò quello non già  della validità  o della giustizia delle leggi naturali, bensì della loro efficacia: ed esse sono efficaci nella misura in cui garantiscono la sicurezza degli uomini. Sicchè anche per Hobbes la legge naturale fornisce il fondamento di validità  a quella positiva, ma sta poi al potere fornirle l’efficacia: ciò ò ben espresso dal motto “auctoritas, non veritas, facit legem”. Dal canto suo, Aristotele ammette che anche le api e le formiche, pur prive di ragione, siano capaci di costruire società  al pari degli uomini: in disaccordo, Hobbes nota come siano cose diverse, poichè le aggregazioni degli animali non sono Stati nè essi devono essere detti “politici”, in quanto sono tutti volontà  distinte che mirano verso il medesimo fine senza che da ciò nasca la volontà  unica. Tutto cambia se consideriamo gli uomini, i quali si distinguono per ben sei aspetti: 1) tra gli uomini c’ò contesa per onore e per dignità , da ciò nascono l’ odio e l’invidia e, da essi, la guerra; 2) l’uomo ò animale che si contrappone polemicamente ai suoi simili, pretendendo uno statuto di superiorità  al bene privato: in altri termini, per l’uomo non v’ò identità  tra bene privato e bene comune. 3) Gli animali non vedono difetti nell’amministrazione delle loro repubbliche: invece, alcuni degli uomini introducono novità , ciascuno a modo suo, cosicchè scaturiscono le guerre civili. 4) Gli animali mancano dell’arte della parola, la quale suscita i turbamenti dell’animo. Avverso ad ogni forma di retorica, la quale usa la lingua come “tromba di sedizione”, Hobbes nota che la parola umana sa esagerare in maniera tale per cui le descrizioni trapassano in prescrizioni e proibizioni: speranza e paura sono le due molle di questa antropologia. 5) Gli animali non operano distinzioni tra torto e danno: gli uomini, invece, sono tanto più dannosi quanto più si danno all’ozio. Se gli animali non si spingono oltre la battaglia per la fame, l’uomo ò vanaglorioso, combatte per una moltitudine di motivi. 6) Il consenso degli animali ò naturale, quello degli uomini ò artificiale, avviene tramite un patto. La volontà  di tutti deve essere unica e perciò ciascuno deve riporre la propria volontà  in un singolo: in questo senso, la volontà  generale ò contrapposta a quella di tutti i singoli. Si fonda così il contrattualismo, anche se in realtà  l’idea del patto sociale era già  presente nella cultura occidentale fin dal Critone di Platone, opera in cui tale patto ò fondato sulla gratitudine per i benefici ricevuti. Nel Medioevo il discorso del patto torna ad essere centrale nella vita prima feudale, poi comunale, giacchè si contrattano con l’imperatore i diritti. Nell’ambito di questo dibattito, due erano le principali concezioni del patto: a) c’era chi lo intendeva come pactum societatis, concependo la società  come il frutto di un accordo fra gli individui che, stanchi di vivere da soli, si aggregano per vivere insieme, rinunciando a qualcosa per ottenere in cambio qualcos’altro; b) c’era poi chi lo intendeva come pactum subiectionis, sostenendo che la società  altro non era se non un aggregato di individui – già  formanti un popolo – che si sottomette a un sovrano e, così facendo, genera un impero o un regno, chiedendo, in cambio di tale sottomissione, protezione e obbedienza. Dal canto suo Hobbes, erede di questa tradizione, parla di pactum unionis come unità  simultanea dei due patti: gli individui – egli dice – contemporaneamente diventano popolo e si sottomettono a un sovrano. I giuristi partivano dalla lex de imperio, secondo la quale il potere era trasferito dal popolo al sovrano, ma tale trasferimento poteva essere inteso o come concessio o come translatio: nel primo caso, il popolo trasferisce la sovranità  al signore in usufrutto, mantenendola sempre come propria e perciò riservandosi il diritto di revocarla; nel secondo caso, invece, si ha un trasferimento del potere, il quale transita dal popolo al sovrano. Nel caso della concessio, il popolo affida al sovrano l’ese

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