Il breve libro di Gianni Vattimo intitolato Credere di credere[1] conserva tutti i motivi di interesse per i quali ò stato scritto. Lâopera si presenta non tanto e non solo come uno scritto di filosofia della religione o di teologia quanto e soprattutto come un testo autobiografico, in cui ò anzitutto indispensabile lâuso della prima persona singolare – cosa che solleva il pudore dello stesso autore, avvezzo fino ad allora (se si escludono le discussioni, le polemiche, le lettere al direttore) allo stile impersonale e professionale dei saggi critici e filosofici[2] Infatti, nel libro il filosofo torinese si propone di ripercorrere il proprio itinerario di cristiano, nellâambito peraltro di una solida cultura filosofica di chiara ascendenza nietzscheana e heideggeriana e di un pensiero – il così detto pensiero debole -, la cui elaborazione va attribuita principalmente allo stesso Vattimo e a Pier Aldo Rovatti e che costituisce una delle pochissime proposte originali della più recente filosofia italiana. Parlando del proprio rinnovato interesse per la religione, Vattimo ci informa di essere stato in gioventù cattolico praticante, per poi allontanarsi dal cristianesimo soprattutto a causa dellâautoritarismo della Chiesa in fatto di morale sessuale negli anni â60 del Novecento[3], in particolare verso lâomosessualità , a proposito della quale Vattimo non indugia a parlare anche per ciò che lo riguarda personalmente[4]. Lâautore inoltre afferma che il suo ritorno al cristianesimo si situa in un contesto in cui la rinascita religiosa ò segnata su due piani: epocalmente dallo scacco della ragione incapace di risolvere certi problemi per lei insormontabili, dal pontificato di Giovanni Paolo II e dalla fine del comunismo in Europa e della Democrazia cristiana in Italia[5], filosoficamente dalla crisi dellâilluminismo, del positivismo e dello storicismo[6]. Se non che, il modo con cui lâautore struttura il discorso sul ritorno (personale e collettivo) al cristianesimo non si limita a ripetere stancamente le consuete banalità massmediologiche sul ritorno di interesse alla sensibilità religiosa a causa della disillusione diffusa nei confronti della eccessiva razionalizzazione e tecnicizzazione della società attuale: non avendo dato risposta a tutte e soprattutto alla più intime necessità dellâanimo umano, scienza e tecnica vengono messe in discussione e si ritorna così alla religiosità , a dire il vero non solo nelle sue forme tradizionali e istituzionali (quelle dettate dal verbo ecclesiastico e pontificale) ma anche in quelle alternative (o presunte tali): il discorso di Vattimo non ò infatti condotto sui sentieri di una psicologia religiosa che spiega facilmente il ritorno alla religione per la stanchezza delle menti di fronte tanto allo strapotere della scienza e della tecnica quanto alle inadeguatezze della razionalità . Invece, forte di un proprio pensiero – che Vattimo stesso ribattezza ontologia debole oltrechè pensiero debole – lâautore inserisce la riscoperta religiosa e anzitutto la riscoperta del cristianesimo nellâambito di un processo del pensiero che ha visto il tramonto della metafisica intesa come concezione filosofica imperniata intorno a un principio indiscutibile e inamovibile. Così, se in filosofia il tramonto della metafisica segna il venir meno della nozione di un essere assoluto e inalterabile, nella religione la secolarizzazione produce la desacralizzazione della divinità che implica la messa in crisi del volto autoritario di Dio – il Dio dellâAntico Testamento -. I due fenomeni sono correlati, secondo Vattimo. Infatti, il movimento per cui la storia della filosofia racconta il passaggio da un concetto forte dellâessere ad uno debole ha il proprio corrispettivo nella secolarizzazione tipica dellâetà moderna e contemporanea. In entrambi i casi, si ò assistito ad un indebolimento: ontologico in filosofia, teologico in religione. Relativamente al campo religioso, lâindebolimento ò dâaltro canto inscritto nello stesso patrimonio genetico del cristianesimo, secondo il filosofo. Ed ò proprio qui lâoriginalità dellâimpianto concettuale del libro. Infatti, per lâautore la debolezza del cristianesimo in se stesso (ma anche in relazione allâebraismo) consiste nella sua struttura essenzialmente kenotica. Kenosi – in greco kenosis, svuotamento – ò termine teologico che indica la privazione della propria divinità che Cristo compie incarnandosi. Il concetto ò stato proposto nella Lettera ai Filippesi, là dove Paolo dice di Gesù Cristo che “possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini”[7]. La natura paolina dellâapproccio di Vattimo al cristianesimo – il suo in fondo ò un testo paolino – consente pertanto di riconoscere in Cristo il Dio che rinuncia alla propria onnipotenza e che accetta di ridurre intenzionalmente la propria forza sovrumana per farsi uomo, debole tra i deboli. Cristo si presenta – potremmo dire – come il Dio dal volto umano che guarda volutamente agli uomini non come servi ma come amici (citando Giovanni, Vattimo ricorda che Cristo parla ai discepoli non più come a dei servi ma a degli amici: “non vi chiamo più servi ma amici”[8]). Eâ per questo che fin dal suo sorgere – geneticamente – il cristianesimo si ò strutturalmente posto come una religione amichevole e intimamente umana. Amichevole e umana e, dunque, debole. Su queste basi la riproposta vattimiana del cristianesimo prende consapevolmente le distanze dalla visione della religione naturale, nella quale Dio ò visto “nelle potenze minacciose della natura, nei terremoti e negli uragani di cui abbiamo paura e da cui non sappiamo come difenderci, in una fase primitiva della civiltà , se non con credenze e pratiche magiche e superstiziose”[9]. Per rinforzare la propria tesi, Vattimo si appoggia allâantropologia filosofica di Renè Girard. Lo studioso francese ò noto per aver esplicitato il meccanismo vittimario volto a superare i conflitti sociali derivanti dallâimpulso imitativo, che spinge a impossessarsi delle cose altrui e, conseguentemente, alla guerra di tutti contro tutti (Hobbes docet). A questo punto, secondo Girard il ristabilimento della concordia sociale avviene scaricando la violenza contro una vittima designata – il capro espiatorio[10] -. Vattimo si avvale della tesi girardiana per evidenziare la natura violenta della religione naturale. Ma non si limita a ciò. Egli infatti concorda con Girard anche relativamente a un altro punto essenziale: la lettura vittimaria non può essere applicata a Gesù Cristo, ò sbagliata: “Gesù non si incarna per fornire al Padre una vittima adeguata alla sua ira; ma viene al mondo proprio per svelare e perciò anche liquidare il nesso tra violenza e sacro”[11]. Gesù non ò cioò venuto per essere la âvittima perfettaâ [12], il cui sacrificio vale a soddisfare pienamente “il bisogno di giustizia di Dio per il peccato di Adamo”[13]. Non impersonando affatto il ruolo di vittima sacrificale, Cristo piuttosto si ò incarnato per dissolvere il concetto della violenza del sacro[14]. Il netto rifiuto della religione naturale in quanto violenta va di pari passo alla critica che Vattimo muove alla teologia dialettica, il cui principale esponente ò stato Novecento Karl Barth. Non condividendo lâatteggiamento di svalutazione verso il mondo proprio di tale indirizzo teologico, Vattimo ne rigetta anche il caposaldo della necessità del salto nella fede per accedere a Dio – il totalmente Altro rispetto allâuomo e al mondo -: per lâautore la teologia del salto ò legata a “una concezione ancora metafisico-naturalistica di Dio”[15], ò espressione di un cristianesimo apocalittico e tragico che, mentre individua esistenzialisticamente la precarietà della condizione umana, predica lâindispensabilità di darsi senza remore a un Dio assoluto, trascendente, imperscrutabile, lontanissimo, di cui gli uomini non sono meritevoli se non per grazia ricevuta. Eâ questa, dâaltro canto, una visione teologica che Vattimo vede “in profonda sintonia con gli aspetti più fondamentalisti del cattolicesimo dellâattuale pontefice”[16], Giovanni Paolo II. Il cristianesimo amichevole a cui Vattimo aspira segna pertanto la propria differenza dalle versioni del sacro, nelle quali Dio ò in ogni caso un essere superiore, autoritario, sovrastante. Il Dio a cui egli guarda ò invece il Dio cristiano – kenotico e paolino -, il Dio paradossale e scandaloso che si fa uomo e con questo compie la suprema fra le rinunzie, quella alla propria divinità . Questo ò il Dio amico – il Dio che non ti considera più suo servo, ma per lâappunto suo amico nellâambito di un rapporto inter pares -. Credere nella salvezza la cui storia inizia proprio con Cristo significa allora non accettare alla lettera il Vangelo e i precetti dogmatici della Chiesa, “ma sforzarsi di capire, anzitutto, che senso hanno i testi evangelici per me, qui, adesso; in altre parole, leggere i segni dei tempi, senza alcuna riserva che non sia il comandamento dellâamore”[17]. Il cristianesimo vattimiano ò amichevole, dunque, soprattutto perchè non violento nè dogmatico nè proiettato nel totalmente Altro. Eâ un cristianesimo consapevole del contesto storico, in ragione del quale la storia della salvezza non ò compiuta una volta per tutte, ma esige di essere storicizzata e interpretata (“la salvezza passa attraverso lâinterpretazione”[18]: i cristiani sono degli amici che costruiscono poco per volta la salvezza insieme a Cristo, affidando ai loro successori il compito di proseguire la storia salvifica). Antidogmatico e antiecclesiastico, il cristianesimo di Gianni Vattimo sostiene che ciascuno di noi ha una provenienza (“La storicità della mia esistenza ò provenienza”[19]), ha cioò unâorigine e uno sviluppo. Pertanto, orientare cristianamente la vita significa prima di tutto considerare la storicità dell’esistenza, il cui atteggiamento fondamentale deve essere ermeneutico, interpretativo. Non si dà una verità inconfutabile, ma diversi approcci interpretativi alla soggettività , al mondo, a Dio. Attento ai segni dei tempi, il cristianesimo ritrovato di Vattimo non esita ad ammettere i suoi debiti nei confronti di uno degli esiti portanti della modernità (e della postmodernità ): la secolarizzazione. Per questo, egli non si limita a presentare lâanalogia tra lâindebolimento dellâessere e quello di Dio, ma addirittura sostiene che la secolarizzazione ò la riscrittura del cristianesimo. Una tesi scandalosa per molti, ma non per chi, come Vattimo, si ò formato alla scuola di Nietzsche e Heidegger e ne ha condiviso lâidea della dissoluzione dei valori forti della cultura occidentale. Se non che, alla lezione dei maestri Vattimo aggiunge la propria: riconoscendo lâavvenuta dissoluzione di una struttura forte capace di connettere pensiero ed essere – quella che induceva la scolastica a pensare la verità come adaequatio rei, corrispondenza oggettiva tra il pensiero e la realtà -, Vattimo pensa che lâontologia debole non sia altro che “la trascrizione della dottrina cristiana della incarnazione del figlio di Dio”[20], pensabile “solo in termini di secolarizzazione”[21], ossia come indebolimento del sacro (e del sacro violento in particolar modo). Eâ qui il nesso tra la storia della rivelazione cristiana e la storia del nichilismo[22] (lâorientamento filosofico volto a indebolire e smontare le certezze metafisiche fino a renderle nulla, niente, nihil). Pertanto, “ò ben possibile che la secolarizzazione [… ] sia [… ] un effetto positivo dellâinsegnamento di Gesù e non un modo di allontanarsene”[23]. In altre parole, la secolarizzazione ha un suo senso positivo, in quanto la modernità laica si costituisce “anche e soprattutto come prosecuzione e interpretazione de-sacralizzante del messaggio biblico”[24]. Inoltre, la secolarizzazione non ò solo un tratto distintivo dellâOccidente moderno ma anche un “fatto interno al cristianesimo”[25]. Una tesi, questa, che lâautore sostiene richiamandosi anche allâautorità di Max Weber e Norbert Elias[26]. Con ciò il pensatore torinese intende dire che lâopera di indebolimento che Cristo ha iniziato nei confronti del Padre (fino a sentirsene abbandonato sulla croce) ò stata poi continuata dalla soggettività moderna che, separandosi dal Padre, ne ha secolarizzato il messaggio. Tutto ciò, secondo Vattimo, non ha però gli effetti negativi che la dogmatica ecclesiastica paventa. Anzi, la secolarizzazione ci restituisce il vero volto di Dio, quello che si mostra nella parola e nellâopera di Cristo. Se lâautoritarismo del Padre e della Chiesa sono con ciò stati revocati in dubbio, poco male. Anzi, bene. Una nuova concezione del cristianesimo può invece farsi avanti – un cristianesimo dellâamicizia -. Un cristianesimo rinnovantesi nellâ interpretazione che se ne dà tanto nellâambito individuale quanto in quello comunitario (la comunità dei fedeli ò per Vattimo la vera Chiesa). Dunque, quello di Vattimo si propone come un cristianesimo allâaltezza dei tempi – i tempi della secolarizzazione dellâetà postmetafisica, lâepoca in cui si ò consumata per sempre lâidea di un pensiero metafisico che riconosce principi e strutture assolute a fondamento della realtà -. Un cristianesimo che deve affrontare e sapersi confrontare con la postmodernità . Un cristianesimo che pertanto accetta la logica desacralizzante della secolarizzazione, per quanto non integralmente. Lâunico limite – la sola barriera – che Vattimo riconosce al processo secolarizzante ò infatti la carità – lâ intrinseca amorevolezza del cristianesimo -. Il “principio critico”[27] che infatti si oppone alla secolarizzazione ò proprio lâatteggiamento caritatevole verso il prossimo, in quanto la kenosis non ò pensabile come “indefinita negazione di Dio”[28]. Nella prospettiva paolina di Vattimo il principio della carità limita infatti “lâidea di secolarizzazione come deriva infinita”[29]. Il cristianesimo della carità tradisce qui, ancora una volta, la sua genesi paolina che induce Vattimo a sottoscrivere lâaffermazione di Paolo sulla superiorità della carità sulle altre virtù teologali[30]. Perchè – dice Paolo – “se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi una fede tale da trasportare le montagne, se non ho la carità , io sono un niente”[31]. La carità – aggiunge dal canto suo Vattimo – “ò destinata a rimanere anche quando la fede e la speranza non saranno più necessarie, una volta realizzato completamente il regno di Dio”[32] (si osserva qui che in questi modo si conclude il libro, e cioò secondo lâinsegnamento di Paolo, così come ò iniziato: pertanto ribadire la natura paolina di Credere di credere non appare fuor di luogo). Allo stesso tempo, il principio critico della carità consente di superare “lâimpasse in cui si ò sempre trovata la coscienza moderna posta di fronte alla rivelazione cristiana: lâimpossibilità di aderire a una dottrina che appare troppo duramente in contrasto con le âconquisteâ della ragione illuminata, troppo impastata di miti che richiedono imperiosamente di essere smascherati”[33]. Eâ questo il cristianesimo sottoscritto dallâautore: il cristianesimo kenotico in cui Cristo ò lo “smascheratore”[34] dei miti che non reggono alla prova della ragione. Per tale via, infatti, Cristo inaugura lo smascheramento che “ò il significato stesso della storia della salvezza”[35]. Si spiega così, dâaltro canto, anche il senso del titolo del libro: Credere di credere ò infatti lâ atteggiamento di chi crede nonostante lâadesione alla modernità che lo spingerebbe a non credere. Chi crede di credere ò dunque disposto allâascolto e al dialogo, non ha modi da fanatico nè formae mentis da fondamentalista. Egli continua a credere, senza però più credere al Dio autoritario, ma nel Dio cristiano amico di chi crede in lui. Questo credente contribuisce a costruire il regno di Dio, giorno per giorno, e giorno per giorno partecipa alla storia della salvezza e della rivelazione, che si tratta di interpretare e riverificare ancora giorno per giorno. E giorno per giorno chi crede di credere si dedica caritatevolmente agli altri e pratica un cristianesimo declinato allâinsegna dellâamicizia, che implica necessariamente “unâetica del rispetto e della solidarietà “[36] – unâetica dialogica, cooperativa e contestuale allâepoca postmetafisica -. Per questo, proprio perchè il cristianesimo dellâetà postmetafisica “si limita” a unâetica del dialogo e alla costruzione di una salvezza il cui esito non ò garantito perchè il regno di Dio non ò stato ancora del tutto realizzato, credere non ha più le garanzie dogmatiche di un tempo. Per questo, in unâepoca che non ha più fondamenti assoluti e metafisici, credere di credere ò anche la speranza di credere (“Credere di credere o anche: sperare di credere”[37]). Note [1] G. VATTIMO, Credere di credere, Milano, Garzanti 1996, pp. 112. Dâora in poi CC. [2] G. VATTIMO, CC, p. 7. [3] G. VATTIMO, CC, pp. 70-71. [4] G. VATTIMO, CC, pp. 71-75. [5] G. VATTIMO, CC, pp. 14-17. [6] G. VATTIMO, CC, pp. 17-19. [7] PAOLO, Lettera ai Filippesi, 2, 7. [8] GIOVANNI, 15, 15. [9] G. VATTIMO, CC, p. 14. [10] G. VATTIMO, CC, pp. 27-29. [11] G. VATTIMO, CC, p. 29. [12] G. VATTIMO, CC, ibidem. [13] G. VATTIMO, CC, ibidem. [14] G. VATTIMO, CC, p. 30. [15] G. VATTIMO, CC, p. 50. [16] G. VATTIMO, CC, p. 86. [17] G. VATTIMO, CC, pp. 64-65. [18] G. VATTIMO, CC, p. 57. [19] G. VATTIMO, CC, p. 79. [20] G. VATTIMO, CC. p. 27. [21] G. VATTIMO, CC, ibidem. [22] G. VATTIMO, CC, p. 32. [23] G. VATTIMO, CC, pp. 33-34. [24] G. VATTIMO, CC, p. 34. [25] G. VATTIMO, CC, p. 33. [26] G. VATTIMO, CC, pp. 34-35. [27] G. VATTIMO, CC, p. 60. [28] G. VATTIMO, CC, ibidem. [29] G. VATTIMO, CC, p. 65. [30] PAOLO, Prima lettera ai Corinti, 13, 13. [31] PAOLO, op. cit., 13, 3. [32] G. VATTIMO, CC, p. 105. [33] G. VATTIMO, CC, p. 64. [34] G. VATTIMO, CC, ibidem. [35] G. VATTIMO, CC, ibidem. [36] G. VATTIMO, CC, p. 38. [37] G. VATTIMO, CC, p. 97.
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