Crisi dell'Impero e Invasioni Barbariche - Studentville

Crisi dell'Impero e Invasioni Barbariche

La caduta dell'Impero Romano a causa delle invasioni barbariche.

Il progressivo affermarsi dell’irrazionalità nella cultura dei ceti dirigenti

E’ interessante notare come, a detta dello storico Cassio Dione, nella sua campagna militare contro i Quadi e i Marcoman­ni, l’imperatore Marco Aurelio avesse "al suo seguito un mago egizio di nome Arnuphis, il quale era capace di evocare certi demoni e, grazie a questi, di invocare  la pioggia". Nè va dimenticato che l’imperatore, nella prefazione delle sue memorie intitolate "A se stesso", ringraziava gli dei per avergli suggerito "in sogno vari rimedi, soprattutto contro lo sputo di sangue e le vertigini".  Questi due semplici esempi  possono servirci da introduzione ad un  tema che non concerne in generale  il successo di maghi e professionisti dell’occulto ma il successo  delle dottrine mistiche e irrazionali  nelle classi più abbienti e nei circoli illuminati.

Per evitare il pericolo di un fraintendimento, va chiarito subito che i Romani non erano alieni, sin dalle origini della loro cultura, ai culti delle pietre magiche dei fulmini come della pioggia, degli animali "totemici" (il picchio, il caprimulgo, il lupo), dei demoni dei luoghi silvestri e dei pascoli, delle sorgenti e dei boschi sac­ri. La religione romana annoverava un gran numero di divinità particolari che tutelavano ogni aspetto della vita e della natura: dalle greggi alla mietitura del grano, dai lampi notturni ai limiti, dai giuramenti ai consessi degli uomini. Né era estranea alla mentalità romana la fede nelle forze occulte (ma­na) emanate da ogni sorta di oggetto naturale, di usanze, divieti e cerimoniali. Ma l’avvento a Roma delle principali dottrine filosofiche greche e la loro diffusione nei ceti "colti" avevano contribuito a laicizzare la mentalità delle élites di governo
Al contrario le scuole filosofiche dell’età imperiale non perseguivano più il fine della verità e della sapienza ma ricercavano la contemplazione, la salvezza dell’anima e l’unione mistica con il divino: è il caso dei neopitagorici che attribuivano al loro caposcuola Pitagora le facoltà sovrumane di predire il futuro, di rendersi invisibile o ubiquo, di allontanare le catastrofi e di interloquire con gli animali, o dei neoplatonici che ambivano a raggiungere il "nirvana"  attraverso le diete vegetariane e l’ascesi.

Non stupisce quindi che, in questa temperie culturale, fossero ormai i  bramini dell’India (detti gimnosofisti, sapienti nudi) e i sacerdoti egizi a rappresentare le fonti della saggezza.  Era dunque a costoro cui andavano ad attingere il sapere gli uomini di cultura dell’Occidente: Peregrino, il filosofo che si bruciò vivo ad Olimpia nel 165, e come il neoplatonico Plotino.  Di fronte alla crisi della religione tradizionale, la fede nell’irrazionale si espande dunque in quelle classi colte che, in precedenza, si erano mostrate scettiche nei confronti di prodigi e portenti. A tal riguardo, si possono citare diversi esempi:

– l’imperatore Adriano era convinto che Pachrates, un sacerdote di Iside autoreclusosi per 23 anni nella cripta di un tempio, potesse trasmettergli i sogni con il solo potere della mente;

– al tempo di Marco Aurelio, un ex console (del 146), M.Sedatius Severianus, non aveva alcuna remora ad interpellare il serpente-oracolo Glycon su una questione di politica estera (l’opportunità di attaccare l’Armenia );

– lo stesso imperatore-filosofo Marco Aurelio fece raffigurare nella sua colonna trionfale il "miracolo della pioggia" (ovvero quel prodigio che, come racconta Giovanni il Teurgo, -figlio di un "filosofo" caldeo autore di un’opera in 4 libri sui demoni e autore lui stesso de "Gli oracoli caldei"-, valse alle truppe romane un’importante vittoria sui Germani).

Sotto il profilo linguistico, il riscontro di tale fenomeno è costituito dal fatto che, già nel III secolo, i termini "filosofo", "teurgo", "matematico", "mago" e "astrologo" fossero divenuti dei semplici sinonimi.
Il declassamento degli strati sociali inferiori e l’insevimento delle condanne

E’ al tempo di Marco Aurelio che si riferisce questo passo della biografia dell’imperatore Settimio Seve­ro:
"Così fu nominato proconsole dell’Africa. Là una volta, mentre viaggiava proceduto dai littori, si im­battè in un suo concittadino di Leptis, il quale, benché fosse un povero plebeo, era stato suo compagno d’armi. Costui lo abbracciò ma per tutta risposta, Severo lo fece frustare mentre il banditore ripeteva: "O plebeo, non osare mai più abbracciare un legato del popolo romano".

Nella Tarda antichità, un’ampia serie di tendenze e di graduali cambiamenti andarono incontro ad una progressiva "cristalizzazione" e condussero senza alcuna cesura – se non politica (la caduta dell’Impero d’Occidente) – al Medioevo. In termini gen­erali si può affermare che alla progressiva frantumazione della classe superiore in numerosi stra­ti con posizione sociale molto differente corrispose la tendenza al livellamento e all’omogeneizzazione dei vari strati degli humiliores: le masse tanto urbane che rurali furono sempre più vincolate, in forme non troppo dissimili, ai grandi personaggi del tempo; furono pri­vate del diritto di scegliere il proprio domicilio e la propria attività; furono equiparate agli sch­iavi (la cui posizione giuridica fu migliorata attraverso dei provvedimenti legislativi) e spesso costrette dall’indebitamento alla vendità in schiavitù dei propri figli. Così, mentre la distinzione tra i liberi e i non liberi non rivestiva di fatto una grande importanza -gli uni e gli altri erano denominati faex (feccia)-, già alla fine del IV secolo i coloni venivano considerati "servi della gleba" ed equiparati, nella legislazione imperiale, a "proprietà" dei latifondisti. La plebe urbana, seppur privilegiata, almeno per quel che concerne le imposte, rispetto alla plebe delle cam­pagne, non era d’altro canto meno oppressa: erano soprattutto i funzionari imperiali ad eser­citare uno strettissimo controllo delle attività sociali, politiche ed economiche degli abitanti delle città.

Dopo la morte di Teodosio, agli artigiani delle città fu espres­samente vietato assumere incarichi politici, spostarsi in campagna, entrare nell’esercito o nel clero; gli ordini professionali furono organizzati in collegi amministrati con molta severità; i noleggiatori di navi e gli adepti delle corporazioni non poterono cambiare attività e dovettero anzi trasmettere in eredità ai figli il loro mestiere. Al tempo stesso, le crescenti difficoltà dei transiti e dei commerci, do­vute in larga misura alle scorrerie barbariche e al dilagare del banditismo, accrebbero l’importanza dell’agricoltura con la conseguenza che i grandi proprietari terrieri rappresentaro­no, ancor più chiaramente di prima, lo strato sociale di punta.

Le suddette tendenze cominciarono a manifestarsi già nel II secolo, ai tempi di Marco Aurelio, e persino di Adriano:  è infatti a partire dal regno di Adriano che, nelle iscrizioni , la denominazione populus viene sostituita da quella spregiativa  plebs. E’ evidente che a questo declassamento "linguistico" corrisponde una diminuita importanza del "popolo" sia sul piano politico (i comizi per le elezioni dei magistrati delle città dell’Impero perdono  ogni importanza  già nel corso del I secolo) sia sul piano giuridico. Il passo della vita di Settimio Severo ci fa comprendere come già alla metà del II secolo venne esteso anche ai cittadini romani poveri il trattamento giuridico che era applicato di norma agli schiavi e ai non-cittadini: i  primi erano sottoposti per legge alla tortura anche quando dovevano comparire in giudizio in qualità di semplici testimoni ed erano condannati di norma alla croce; i secondi potevano esser  puniti, a discrezione del governatore romano, con condanne capitali, quali il rogo, la croce o le bestie, che non venivano comminate ai cittadini romani. Queste distinzioni  vennero dunque meno già nel II secolo e furono del tutto abolite nella prassi dopo il 212, ovvero dopo la promulgazione dell’Editto con cui Caracalla concedeva la cittadinanza romana a tutti (o quasi) gli abitanti dell’Impero.

E’ pertanto interessante notare come questo livellamento dei diritti segnò in realtà un’equiparazione di tipo deteriore e un generale abbassamento delle garanzie. Ed è piuttosto sintomatico che a questo livellamento sia corrisposto  un generale insevimento delle condanne: sappiamo ad esempio che fino all’anno 200 i reati puniti con la morte erano solo 17 e che, un po’ più di un secolo dopo, alla fine del regno di Costantino i delitti capitali erano già saliti a 60. Al tempo stesso, non si può tacere come le condanne fossero rese più feroci ed esemplari da una serie di pene aggiuntive come la tortura sistematica e l’esposizione del cadavere. A partire dal IV secolo cominciano poi ad essere documentate le condanne alla  mutilazione ed è possibile riscontrare tanto nel Codice di Teodosio II che in quello di Giustiniano condanne al taglio delle mani (per chi rovina gli edifici pubblici), della lingua, o di un piede (per i disertori) e altre pene, come il piombo fuso versato nella gola (per i rei di falsa testimonianza) o la castrazione (per i pederasti), che non appartengono alla mentalità giuridica classica. Non si sottraevano a questa ferocia neppure gli alti dignitari, che, secondo una pratica ben attestata nell’Impero bizantino e nel Medioevo barbarico, venivano trucidati davanti al trono, al cospetto del sovrano: sappiamo infatti che al cospetto dell’imperatore Onorio il magister militum Olimpio venne ucciso a bastonate dopo che gli erano state tagliate le orecchie e che, al cospetto dell’imperatore Arcadio, gli uomini del magister militum goto Gainas, trucidarono il prefetto vandalo  Stilicone.

Tenendo in considerazione il peso dell’elemento militare nella scelta degli imperatori di III secolo, prima, e ai tempi del Dominato, poi, sarebbe quindi da chiedersi quale fu l’influsso della giustizia militare nel processo che portò all’inasprimento delle pene e al carattere sempre più sommario e sbrigativo dei processi.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, non sarà superfluo accennare ad una testimonianza che riporta una scena di ordinaria "giustizia". Siamo in Egitto agli inizi del IV seco­lo.  La nostra fonte è il quaderno di scuola di un bambino che si esercita a tradurre dal greco (sua lingua madre) al latino. Esistono quindi di questo "tema per casa" tanto la versione greca che quella latina: eccone la traduzione:
"Il governatore arriva e prende posto sulla tribuna tra le guardie. Il giudice sale sulla tribuna e ordina all’araldo di far comparire l’imputato. L’imputato compare in giudizio; è un brigante. Viene interroga­to e torturato. Il carnefice lo percuote a martellate, il suo petto viene straziato. Egli è appeso, battuto, frustato, passa attraverso l’intera serie delle torture e continua a negare. Viene condannato. E’ condot­to alla forca. Poi compare in giudizio un altro imputato. Lo assisttono degli uomini molto potenti. E’ assolto…:"
Per quanto riguarda invece l’adeguamento della giusitizia penale civile agli "standard" militari, prenderemo dapprima in considerazione le "prassi giuridiche" adottate negli eserciti romani. Siamo nell’anno 373. Un contingente militare impegnato a combattere dei ribelli in Mauretania  si ammutina:

"Il generale Teodosio ordina che i ribelli che appartengono ai corpi di fanteria dei Constantiani venga­no fatti a pezzi dai commilitoni, che ai capi degli arcieri a cavallo vengano tagliate le mani e che gli altri arcieri siano giustiziati."

La nostra fonte, Ammiano Marcellino, si sorprende che alcuni "malevoli detrattori" possano aver giu­dicato crudele questa decisione.

Burocrazia e corruzione

Anche "ai tempi felici" del Principato esistevano la corruzione, gli abusi e le concussioni: grazie alle testimonianze letterarie del I e del II secolo d.C. siamo infatti a conoscenza di governatori che im­ponevano la riscossione di tasse inesistenti o quadruplicavano quelle esistenti, che vendevano i verdetti di condanna o di assoluzione e venivano corrotti con ogni sorta di donativo. Il fenomeno della corruzi­one era diffuso a tutti i livelli dell’amministrazione, non solo a quelli dirigenziali: sembra difatti sospetto che, nell’epoca augustea, i semplici impiegati dello stato (gli scribae), a dispetto del loro stipendio an­nuo di 1200 sesterzi, potessero racimolare i 400.000 sesterzi richiesti per accedere all’ordine dei cava­lieri. Al tempo stesso  risulta assodato, per quanto riguarda l’esercito, che i centurioni taglieggiassero i propri subordinati (in cambio ad es. dell’esenzione da corvées e bastonature) e che i militari angariassero a loro volta, pesantemente, la popolazione civile.

Con l’instaurarsi del Dominato, la situazione andò incontro ad un deciso e drastico peggioramento do­vuto, da un lato, alla smisurata dilatazione degli apparati burocratici e, dall’altro,  al progressivo dislo­camento dei reparti dell’esercito, un tempo schierati lungo le frontiere, in più della metà delle città dell’Impero. Decine di migliaia di militari professionisti, per lo più -e sempre più- scarsamente romanizzati, vennero così a trovarsi in "stimolante prossimità" delle popolazioni inermi delle città mentre una pletora di uffici imperiali, composti -almeno a partire dalla metà del III secolo- da burocrati provenienti dalle file dell’es­ercito, fu preposta al controllo delle attività amministrative ed economiche dei civili. Gli organici di questi uffici andarono dilatandosi a dismisura passando dai 300 impiegati dei tempi di Caracalla (inizio del III sec.) ai 35.000 del Tardo Impero con la conseguenza che in alcune capitali di provincia, come Antiochia, gli staff governativi finirono con l’annoverare ben 1500 individui. Un simile impianto am­ministrativo, gestito per giunta da funzionari di scarsa  cultura, determinò, da una parte, il prolificare di norme e leggi spesso caotiche e contradditorie e, dall’altra, la sbrigativa e sommaria semplificazione delle procedure a scapito delle garanzie degli inquisiti, dei sottoposti ad accertamenti e degli accusati. Per quanto concerne il primo punto, è significativo che sotto il regno di Diocleziano siano state prom­ulgate più leggi che negli 80 anni precedenti; per quel che attiene invece al secondo, non si può non seg­nalare come, in stridente contraddizione con la precisione e la chiarezza della legislazione classica, i testi giuridici tardo antichi siano pieni di perifrasi e di confuse circonlocuzioni. Benché ciò possa sem­brare paradossale, gli imperatori del Dominato perseguirono coscientemente la "semplificazione" delle norme, ma solo nel senso che abrogarono come si è detto le procedure di tipo "garantista". Un caso ecla­tante è rappresentato dalla distruzione, decretata da Costantino, delle note dei giuriconsulti Ulpiano e Paolo. Con un tono che tradisce un forte atteggiamento anti-intellettualistico, l’imperatore motiva così la sua decisione: "Poiché desideriamo sradicare le interminabili controversie dei giureconsulti ordini­amo la distruzione delle note di Ulpiano e Paolo a Papiniano, i quali perseguirono il loro genio più per  distorcere il testo di Papiniano che per correggerlo".
Di certo i provvedimenti di questo tipo favorirono l’arbitrio di quanti  (gli assistenti governativi -appa­ritores-, gli agenti segreti imperiali -curiosi-, gli impiegati del fisco -tabulari- e i magistrati giusdicenti) si trovavano nelle condizioni di potere interpretare le confuse leggi in vigore senza esser vincolati a pro­cedure che tutelavano gli interessi dei cittadini. Le loro capacità di estorsione furono quindi ampliate a dismisura con il risultato che, ad un certo momento, gli imperatori dovettero riconoscere e legittimare gli abusi dei loro sottoposti. Le pratiche illecite, lungi dal poter essere represse, finirono cioè per essere    autorizzate: sappiamo, ad es., che agli agenti speciali fu legalmente riconosciuta la facoltà di riscuotere un soldo d’oro per ogni permesso che rilasciavano ai viaggiatori.

Per concludere, un esempio di come si svolgessero gli accertamenti a carico dei funzionari imperiali. Siamo nell’anno 365: un ispettore di nome Palladius viene mandato dalla corte imperiale allora inse­diata a Milano a svolgere un’indagine sull’attività del comes dell’Africa. Era infatti giunta voce che il funzionario governativo, un certo Romanus, difendeva dagli attacchi dei no­madi del deserto solo quelle città della sua provincia che gli corrispondevano soldi ed emolumenti. Romanus, informato per tempo dell’indagine, si premura che all’ispettore Palladius venga anticipata una gran parte del suo stipendio. Palladius, sbarcato in Africa, intasca incautamente il denaro, prima di svolgere le sue indagini. Nel corso della sua in­chiesta, l’ispettore incontra due notabili di Tripoli, Erechthius e Aristomenes, che gli con­fermano le accuse a Romanus. L’astuto e corrotto governatore si reca però a Milano dove persuade l’imperatore Valentiniano della sua buona condotta e accusa a sua volta Palladi­us di esser stato corrotto. L’ispettore viene rimosso e ad Erechthius e Aristomenes viene tagliata la lingua. Dopo un po’ di tempo, una seconda delegazione viene mandata in Africa ma Romanus riesce a far condannare a morte con vari pretesti tutti i delegati fuorché il solo Flaccianus. La sorte che attende questo ispettore non è però migliore di quella che era toccata ai suoi colleghi: viene linciato da alcuni soldati di Romanus che asserivano di non aver poturo difendere Tripoli dai predoni perché, contro le leggi, gli abitanti di quella città non avevano voluto sostenere le spese necessarie per la spedizione.

I cristiani: tra opposizione e collaborazione

Leggiamo un passo di un sibillista cristiano dell’epoca di Marco Aurelio:

"Un monarca vecchio avrà lungo dominio: tristissimo re il quale tutti i tesori del mondo chiuderà conservandoli nelle sue case, affinché quando dai confini della terra verrà fuggiasco il matricida (Nerone redivivo=Anticristo), essi dati a tutti siano per l’Asia grande ricchezza. Allora tu piangerai, o regina superba, rampollo della latina Roma: abbandonata la tunica laticlavia dei governatori indosserai l’abito da lutto: non ci sarà più gloria per la tua superbia, né più infelice potrai risollevarti ma sarai piegata. E quando il drago rosso verrà sulle onde, col ventre pieno, e tribolerà i tuoi figli, e carestia verrà e guerra civile, sarà la fine del mondo e l’ultimo dei giorni, e ira ci sarà in primo luogo contro i Romani, verrà un tempo assetato di sangue e una vita infelice."

Le città dell’epoca romana, lungi dal rappresentare quell’immagine di pace e di civiltà che una distorta visione della storia classica c’ha tramandato, erano il campo di scontro di opposte fazioni  (politiche, corporative, sportive) e i palcoscenici su cui si "producevano" sobillatori e arruffapopolo di ogni risma: ciarlatani itineranti che evocavano gli spiriti nelle piazze, impostori che si spacciavano per defunti imperatori (in tal senso, il più "gettonato" era senza dubbio Nerone), profeti e messia che promettevano la fine di tutti i mali.

Già agli inizi del Principato, il giudeo Theudas (nel 45 d.C.) e l’orientale Hystaspes (nel II sec.) andavano predicendo la fine dell’oppressivo dominio di Roma. Contro queste minacce il  potere centrale ritenne di impiegare non pochi mezzi e si premunì nei limiti del possibile  di controllare i vaticini "eversivi", di mettere a tacere gli oracoli "strumentalizzabili", di arginare i culti e gli scritti religiosi divulgati dalle potenze straniere. Roghi di libri di divinazioni e di oracoli sibillini (furono ben duemila i testi arsi nel 12 a.C.), il bando -alla metà del II secolo- delle opere di Hystaspes e dei profeti giudei, le misure repressive promosse da Marco Aurelio contro le sette dei vaticinatores, fino ai tentativi di Diocleziano di porre freno all’espandersi del manicheismo persiano: sono solo alcune delle misure intraprese, per la sicurezza dello Stato, dagli imperatori, i quali, non va dimenticato, si avvalevano regolarmente della consulenza di astrologi egizi e di oracoli caldei.

Il Cristianesimo rappresentò un nemico particolarmente temibile e  la certezza di una fine tanto liberatoria quanto imminente si propagò nell’ecumene proprio con la predicazione cristiana: i Romani, esecrabili autori dell’offesa a Cristo e a Dio, sarebbero stati distrutti dal soffio del Signore. Gli animi si esacerbarono al tempo delle persecuzioni e per gli intellettuali cristiani (Eusebio, Apollinario e Metodio di Olimpo) di quell’epoca di sofferenze l'inflessibile condanna di Roma pagana era già stata scritta nel "Libro di Daniele" o nell’"Apocalisse" di san Giovanni.

Nel primo testo, scritto tra il 167 e il 165 a.C., quindi prima del dominio romano sulla Giudea,  erano narrati i sogni del re Nabucodonosor e del profeta Daniela: tanto la statua a 4 membra (testa d’oro, petto e braccia d’argento, ventre di rame, gambe di ferro e infine piedi di ferro misto ad argilla) sognata dal re quanto  le quattro bestie sognate dal profeta erano interpretate come le 4  monarchie che si erano successe nella storia. L’ultima monarchia era identificata con il dominio romano.
Nell’"Apocalisse" di S. Giovanni, vi erano espliciti riferimenti a Roma (la città di Babilonia, la grande meretrice, distesa su 7 colli;  la bestia con sette teste e dieci corna alimentata dal serpente –il simbolo del male demoniaco-; la signora di ogni stirpe venerata da tutti gli abitanti della terra) e alla sua fine per mano degli angeli celesti.

Questi erano dunque i testi in auge tra i cristiani dell’epoca delle persecuzioni. Ma quando nel 378, con la sconfitta di Adrianopoli ad opera dei Goti, cominciò la vera catastro­fe dell'impero, ai fedeli di Cristo era già stata garantita con l’editto di Milano del 313 la libertà di culto. Ciò nonostante molti autori cristiano continuarono ad interpretare le sconfitte romane e il dilagare dei barbari come segni premonitori della fine del mondo, della fine del tempo o come giudizi di Dio "in pena delle colpe romane" (Orosio), mentre altri si dimostrarono o in tutto filobarbarici (Salviano) o comunque disposti a trattare in nome della civilitas con quei popoli che avevano abbracciato la "vera fede".

L’imbarbarimento dell’esercito

Una testimonianza dell’anno 194. Lo storico Cassio Dione narra la sorte di una città, Bisanzio, che si era schierata "dalla parte sbagliata" nella guerra tra i vari generali che erano stati nominati imperatori alla morte di Commodo:

"Severo apprese della caduta di Bisanzio quando si trovava in Mesopotamia. Ordinò che alla città fossero tolti la libertà e i diritti politici, mise all’asta le sue terre pubbli­che,  assegnò il suo territorio alla città di Perinto e fece distruggere le sue mura : io stesso vidi quelle mura distrutte a tal punto da dubitare che la città fosse stata presa da un esercito romano…"

A tal proposito va tenuto conto che buona parte degli effettivi dell’esercito romano erano sempre più reclutati o tra quei popoli non acculturati (soprattutto Celti, Illirici) sottomessi all’Impero o tra le libere genti germaniche. Tutto ciò sortì quindi l’effetto che la distanza tra i civili e i militari si accrebbe e che l’atteggiamento dei soldati "romani" nei confronti di una città dell’Impero romano non  differisse molto da quello dei barbari.

Un rischio analogo a quello di Bisanzio fu corso, 44 anni dopo, nel 238 dalla città di Aquileia. Ecco lo sviluppo di quell’evento.  
Proclamato imperatore dalle sue legioni, il "rozzo" Massimino, originario della provincia Tracia, non ebbe neppure il tempo di ricevere a Roma l’investitura. Nei tre anni del suo regno, egli combattè infatti una guerra ad oltranza contro i barbari: nel 235, penetrò nel cuore del territorio alamanno e, l’anno seguente, si insediò a Sirmium in Pannonia da dove tenne sotto controllo gli spostamenti dei Sarmati, dei Quadi e dei Carpi (vale a dire i Daci non sottoposti all’autorità di Roma). Ma, mentre l’imperatore era impegnato sulla frontiera danubiana a combattere i nemici esterni, in Africa, i grandi proprietari terrieri, venuti in conflitto con il fisco, esortarono il governatore della loro provincia, il proconsole Gordiano, a mettersi a capo di una rivolta armata. Gordiano, proclamatosi Augusto e associatosi al potere il figlio, Gordiano II, ottenne quindi l’investitura ad imperatore e l’appoggio del Senato. La sua iniziativa fu però stroncata sul nascere dalle armate del governatore della Numidia, una provincia confinante con l’Africa: Gordiano fu costretto al suicidio; suo figlio fu ucciso dalle truppe del governatore Capelliano, fedele a Massimino. Alla notizia del fallimento dell’insurrezione e dell’avvicinamento dell’esercito di Massimino all’Italia, il Senato reagì proclamando imperatori Pupieno e Balbino, due dei suoi membri più influenti. Inoltre, il Senato sancì  la nascita di una commissione di venti uomini di rango consolare (i "vigintiviri consulares rei publicae curandae") che avrebbero dovuto allestire  la difesa della penisola dalle armate dell’imperatore "barbaro".

Così, mentre Massimino, ripercorrendo l’itinerario già percorso nel 193 da Settimio Severo, penetrava in Italia dalle Alpi Giulie (238), a due dei vigintiviri, Tullio Menofilo e Rutilio Pudente Crispino, veniva attribuito il compito di predisporre alla difesa la città di Aquileia.  In virtù della sua posizione geografica, la colonia nord-adriatica divenne dunque il baluardo della penisola italiana e per questo fu attaccata dalle legioni di Massimino e cinta d’assedio.

Alla fine, stremate dalla fame e dalla resistenza degli aquileiesi, le truppe assedianti si ammutinarono e uccisero il loro imperatore: privo ormai del suo capo, all’esercito invasore non rimase dunque che sottomettersi all’autorità di Pupieno e di Balbino. La testa di Massimino, esibita come un trofeo dapprima nelle città del Nord e del Centro Italia, giunse infine a Roma: come scrive lo storico Erodiano, l’imperatore fece quindi, da morto, il suo ingresso nella città nella quale si era rifiutato di entrare da vivo. Né Pupieno né Balbino sopravvissero tuttavia a lungo all’eccidio del loro predecessore: furono entrambi assassinati dai pretoriani che elevarono all’Impero il tredicenne Gordiano III, il figlio di Gordiano II.

Non va poi dimenticato che, nello stesso anno dell’assedio di Aquileia, i Goti fecero il loro ingresso nella storia romana: fu infatti nel 238 che la città greca di  Olbia, situata alle foci del Bug e, da un punto di vista politico, cliente dell’Impero romano, cadde nelle loro mani. Sempre nel 238, in Oriente, il re persiano Ardashir (Artaserse) approfittò della guerra civile tra i Romani per attaccare le province orientali dell’Impero: le città di Carre e di Nisibis caddero in suo possesso. Sei anni più tardi, durante la controffensiva romana diretta contro il successore di Ardashir, Shappur (Sapore), morì l’imperatore Gordiano III:  per volontà delle legioni, il potere imperiale fu dunque assunto dal prefetto del pretorio Filippo.

L‘anarchia militare del III secolo

Alla morte di Gordiano III (244) fu elevato al trono Filippo, detto l’Arabo perché nativo di Hama in Arabia, spetta soprattutto il merito di aver proceduto alla riorganizzazione della difesa di una provincia, la Dacia, che da tempo subiva la pressione dei Sarmati e dei Carpi, e di aver celebrato con particolare solennità il millenario della città di Roma. Ma nel 249, il governatore delle province dell’Illirico, Decio fu acclamato imperatore: Filippo fu ben presto spodestato e ucciso. Il nuovo imperatore ebbe solo il tempo di restaurare i culti ufficiali e di perseguitare i cristiani: fu per questo che, nel 251, quando i Goti del re Cniva, saccheggiate Nicopolis e Philippopolis, lo uccisero nella battaglia di Abrittus, i cristiani ne salutarono la morte come quella di una "esecrabile bestia".

Dopo la parentesi segnata dai regni di Treboniano Gallo e di Emiliano, che videro la rinuncia all’offensiva contro i Goti e l’invasione della Siria da parte del persiano Shappur, il potere fu assunto nel 253 da Valeriano, il comandante dell’armata romana di stanza in Rezia. Al nuovo imperatore il  Senato affiancò come Cesare il figlio Gallieno, il quale ben presto assurse al rango di Augusto ed ebbe quindi poteri pari a quelli del padre. Valeriano e Gallieno, per affermare la concordia dell’Impero in un momento di particolare crisi e, soprattutto, per arginare il proselitismo cristiano negli "ordini" superiori della società romana (senatori, cavalieri, membri della corte imperiale), emanarono nel 257 e nel 258 due editti di persecuzione. Nonostante questa misura di politica interna, la situazione parve precipitare nel 260 quando Valeriano, sconfitto ad Edessa, fu fatto prigioniero da Shappur: le incursioni dei Goti in Asia minore accrebbero infatti d’intensità e intere province si staccarono dall’Impero: in Occidente il generale gallo-romano Postumo diede vita all’"Impero delle Gallie" e il governatore Regaliano venne proclamato imperatore dagli eserciti della Pannonia; in Oriente, la Siria e altre province passarono di fatto sotto il controllo di un notabile di Palmira, Odenato. Come se ciò non bastasse, Gallieno dovette fronteggiare anche molte altre insidie: l’invasione dell’Italia da parte degli Alamanni, che furono da lui sconfitti nei pressi di Milano nel 260; la rivolta del generale Aureolo, il quale aveva assunto il controllo del Norditalia (267), e l’avanzata di Postumo in direzione della penisola italiana. Prima di poter affrancare l’Impero da quest’ultime minacce, nel 268, l’imperatore cadde vittima di una congiura.

Il suo successore, Claudio, che era stato un uomo dello staff di Gallieno,  ritenne preminente procedere all’eliminazione di Aureolo e rintuzzare le pretese dell’imperatore gallico Postumo. Inoltre, in virtù di una non comune abilità di stratega, Claudio potè nello stesso anno, il 269, sconfiggere i Goti a Naissus (Nis>) e porre fine sul lago di Garda ad una nuova invasione dell’Italia da parte degli Alamanni. Ma nel corso di una campagna militare nell’Illirico, con la quale avrebbe forse allontanato definitivamente il pericolo gotico, Claudio morì di malattia a Sirmium (270) e le redini dell’ormai smembrato Impero furono assunte da un suo luogotenente: Aureliano.

I cinque anni del regno di Aureliano (270-275) furono contrassegnati, da un lato, dai fortunati tentativi di restaurare l’unità dell’Impero e, dall’altro, da una serie di riforme, la più importante delle quali fu senza dubbio quella religiosa. Per quanto concerne quest’ultima, va ricordato che Aureliano introdusse nel pantheon ufficiale romano il dio Sole. Alla nuova divinità, divenuta ben presto il simbolo della provvidenza protettrice dell’imperatore e del dominio universale di Roma, fu dedicato un tempio nel Campo Marzio.  Sul piano politico-militare, dopo aver respinto, nonostante una prima sconfitta a Piacenza, gli Iutungi dall’Italia (271) e dopo aver allontanato i Vandali dalla Pannonia e aver ristabilito il potere romano sul Danubio, Aureliano marciò contro il regno di Palmira e lo reintegrò nell’Impero (272). Nel 274 fu la volta dell’Impero gallico che fu riunito a Roma senza colpo ferire. A fronte dei successi va registrata tuttavia la rinuncia da parte di Aureliano della difesa della Dacia, che fu evacuata dai Romani nel 274. Infine, a dimostrazione della persistenza del pericolo barbarico, deve esser ricordata la costruzione, tra il 271 e il 274 , di una nuova cinta muraria a difesa dell’Urbe (mura aureliane).

I successori di Aureliano, vale a dire Tacito -che trascorse i suoi sei mesi di regno nel 275 combattendo i Goti -, Probo (276-282) -che fu celebrato nelle monete come "victoriosus semper" e Caro, Carino e Numeriano, i quali governarono collegialmente tra il 282 e il 284, dovettero continuamente far fronte ai nemici esterni dell’Impero, i barbari e i Persiani. La situazione, resa precaria dalle numerose guerre esterne, fu inasprita da alcune pericolose sollevazioni: la rivolta di Giuliano, il governatore (corrector) della Venezia, e la ribellione dei contadini celtici dell’Armorica, i Bagaudi.

La tetrarchia e il fallimento del sistema tetrarchico

Assicuratosi, con l’assassinio di Carino (284), il controllo di tutto l’Impero, Diocleziano si affiancò al potere un valente generale originario di Sirmium in Pannonia, Massimiano (M. Aurelius Valerius Maximianus), da lui elevato al rango di  Augusto nel 286 dopo la repressione della rivolta bagauda. Per evidenziare il tipo di rapporto gerarchico che intercorreva tra i due Augusti e, al tempo stesso, per celare agli occhi dei loro sudditi l’oscura origine dei due sovrani, Diocleziano assunse allora il soprannome divino di "Giovio" e concesse al suo collega quello di "Erculeo". Il primo Augusto fissò quindi la sua capitale a Nicomedia, in Asia Minore; il secondo risiedette invece ad Aquileia e a Milano.

Nel 293, per favorire la regolare successione al trono e per impedire lo scoppio delle consuete lotte di potere tra i candidati all’Impero, due personaggi vicini alle corti imperiali, Galerio (C. Galerius Valerius Maximianus) e Costanzo (C.Flavius Valerius Constantius) assunsero il titolo di Cesari, rispettivamente a Nicomedia e a Milano. Il primo, preposto al governo dell’Illirico (la regione che si estendeva dal mar Nero alle Alpi Orientali e al fiume Inn), fu adottato da Diocleziano; il secondo, posto a capo delle Gallie, fu adottato invece da Massimiano. I due figli adottivi, elevati dunque al rango di  Cesari –in pratica di "ausiliari" degli Augusti-, fissarono la loro residenza l’uno a Sirmium, l’altro a Treviri.

I quattro sovrani ("Tetrarchi") procedettero quindi ad una serie di riforme. Quella  che ebbe maggior continuità e importanza fu senza dubbio la riforma amministrativa:  tutte le province –ad eccezione di quelle di più antica tradizione, l’Africa, l’Asia e l’Acaia, che continuarono a esser governate da proconsoli di rango senatorio-, non furono più amministrate da un solo governatore ma furono sottoposte all’amministrazione di due dignitari appartenenti all’ordine dei cavalieri: un governatore civile, detto preside, (praeses) e uno militare, detto duca (dux). Ridotte di dimensioni e aumentate quindi di numero, le province furono riunite in 12 "diocesi" e le diocesi furono a loro volta sottoposte all’autorità di funzionari di rango equestre che, in quanto vice-prefetti del pretorio, erano detti vicari.

Le varie diocesi furono infine riunite e subordinate al controllo dei prefetti del pretorio, potenti dignitari di rango equestre le cui competenze non avevano precisi limiti né funzionali né territoriali. Il cuore stesso dell’Impero, l’Italia, equiparata allora per la prima volta alle altre province, fu  suddivisa in una "diocesi d’Italia" –corrispondente al solo Norditalia- e in una diocesi  sottoposta al vicarius in urbe Roma.

In linea con il processo di provincializzazione dell’Italia, si stabilì inoltre che l’Italia settentrionale fosse sottoposta alla pari delle altre province all’annona, ovvero all’imposta che gravava sulla proprietà agraria: per questo motivo la parte settentrionale della penisola fu detta Italia annonaria. L’Italia centro-meridionale, obbligata a fornire vino, bestiame e legno per il rifornimento della città di Roma (l’Urbe), fu detta invece Italia suburbicaria. Questo provvedimento rientrava nel quadro di un’importante riforma di carattere fiscale  che si fondava sull’istituzione dei  censimenti quinquennali ("interdizioni") con cui venivano fissate le unità fiscali, -basate tanto sulla terra (iugum) che sulle persone (capita) atte a lavorarla-, da sottoporre all’annona. Tra le conseguenze di questa riforma ricordiamo almeno l’enorme impulso che essa diede allo sviluppo del colonato: va considerato infatti che i proprietari terrieri erano obbligati a pagare le imposte tanto per i loro fondi che per i loro schiavi ma non per i loro coloni, i quali erano invece soggetti per proprio conto al pagamento dell’annona. Sempre per quanto concerne la politica economica, va ricordato l’editto del 301 con cui, nel vano tentativo di arginare l’inflazione, i Tetrarchi fissarono i prezzi massimi per l’oro, l’argento e per ogni tipo di merce e di prestazione lavorativa.

Per quel che attiene invece alla politica interna, i Tetrarchi decretarono la feroce repressione (296) dei seguaci di Mani, un profeta giustiziato nel 276 dal governo persiano, artefice di una dottrina (il "manicheismo") che fondeva  elementi dello zoroastrismo, del cristianesimo e del neoplatonismo. Ancor più violenta fu la persecuzione, caldeggiata a quanto pare da Galerio, dei cristiani contro i quali furono promulgati ben 4 editti (301-304): il primo editto privava i cristiani dei diritti civili e decretava la distruzione delle chiese e dei testi sacri del cristianesimo; il secondo  prevedeva l’arresto del clero; il terzo obbligava i cristiani ad omaggiare i culti pagani; il quarto infine imponeva loro la scelta tra il sacrificio agli dei e la morte. Non ci si può esimere dal segnalare, per quel che riguarda  la diffusione della dottrina cristiana, che tanto Prisca, la moglie di Diocleziano, che Valeria, la moglie di Galerio, e forse Teodora, la moglie di Costanzo, erano cristiane.

Sul piano della politica estera, vanno ricordate le vittorie di Galerio sul re persiano Bahram II (297) e di Massimiano sui Carpi della Dacia e sulle tribù maure dell’Africa (297-298).  Le incursioni germaniche vennero fermate con le armi e molti prigionieri barbari furono deportati nelle regioni più spopolate dell’Impero. Fu in particolare Costanzo che, dopo avere reintegrato con la forza nell’Impero lo stato creato in Britannia dal generale ribelle Museo Carausio (297), a condurre delle vittoriose campagne militari sul Reno contro gli Alamanni (298).

Nel 305, secondo quanto avevano già concordato a Roma nel 303, Diocleziano e Massimiano abdicarono in favore di Galerio e Costanzo, i quali, promossi al rango di Augusti, si associarono al trono, in qualità di Cesari, Massimino Daia (Galerius Valerius Maximinus) e Severo (Flavius Valerius Severus): l’uno era il nipote di Galerio e l’altro era un suo amico.

Nonostante questo cambio ai vertici del potere, il sistema tetrarchico fu messo per la prima volta in crisi, quando, al ritorno di una spedizione vittoriosa contro i Picti della Scozia, Costanzo morì e le sue truppe proclamarono imperatore suo figlio Costantino (306): sotto la pressione dei militari, Galerio fu costretto a concedergli il titolo di Cesare e la sovranità sulla Britannia e la Gallia.

Più ancora dell’intrusione di Costantino nel collegio dei Tetrarchi, a scompaginare definitivamente l’assetto voluto da Diocleziano fu la proclamazione ad imperatore di Massenzio, il figlio di Massimiano. La sua investitura  al  trono  da parte dei pretoriani e della plebe di Roma, scontenta dalle misure fiscali che Galerio aveva esteso dalle proprietà agricole alle  popolazioni urbane, segnò il ritorno alla politica di Massimiano stesso, il quale, dopo aver costretto alla resa Severo (306) e dopo alcuni vani tentativi di associarsi il figlio in qualità di subordinato, si vide costretto a rifugiarsi presso Costantino.  A Costantino fu quindi riconosciuto  il titolo di Augusto che, nel frattempo, Massenzio aveva già usurpato dopo la proditoria uccisione di Severo (307).

Dopo un fallito tentativo di accordo a Carnuntum nel 308, la situazione fu resa ancor più caotica dalla  proclamazione ad Augusti di Massimino Daia e di un compagno d’armi di Galerio, il generale illirico Licinio (Valerius Licinianus Licinius). Gli anni che seguirono videro la scomparsa e, soprattutto, la progressiva eliminazione violenta dei vari concorrenti: Massimiano fu fatto assassinare da Costantino nel 310; Galerio morì di morte naturale nel 311; Massenzio, dopo aver invano concentrato le sue truppe nella Venetia nel timore di un attacco da parte di Licinio, fu sconfitto a più riprese (a Torino e a Verona) da Costantino e perse la  vita nel 312 nella battaglia  detta dei Saxa Rubra  o di  Ponte Milvio; infine, Massimino Daia fu sconfitto a Tzirallum in Tracia da Licinio nel 313.

I due superstiti, Licinio e Costantino, accordatisi nel 313 a Milano (dove promulgarono il celebre Editto di tolleranza e dove Licinio sposò Costanza, la sorella di Costantino), rimasero gli unici padroni dell’Impero. Tre anni più tardi, l’artefice del sistema tetrarchico, Diocleziano, si spegneva nella solitudine del suo palazzo di Spalato.

Gli accordi di Milano non eliminarono però le fortissime tensioni esistenti tra Costantino, sovrano indiscusso della parte occidentale dell’Impero, e Licinio, imperatore di quella orientale. Già nel 314, un fallito attentato alla vita del primo diede origine ad una prima guerra tra i due Augusti: sconfitto in Slavonia a Cibalae e in Tracia al Campus Ardiensis, Licinio fu costretto a cedere all’avversario l’intero Illirico ad eccezione della diocesi della Tracia. Fu però la politica religiosa dell’imperatore d’Oriente ad acuire i contrasti già esistenti: Licinio, abbracciata la causa di Ario sulla non consustanzialità del Padre e del Figlio, cominciò infatti a limitare sensibilmente lo strapotere della Chiesa e le sue ingerenze nella vita dello stato. Il pretesto per passare alle armi giunse però solo nel 323, quando Costantino, per ricacciare oltre il Danubio delle bande di Goti, penetrò nella diocesi della Tracia, la quale era sottoposta, secondo il trattato di pace del 314, alla sovranità di Licinio. Il conflitto fu quindi deciso l’anno seguente sulle rive del Bosforo a Chrysopolis, dove le armate di Costantino sbaragliarono l’esercito di Licinio.

Rimasto unico Augusto, Costantinò abrogò tutte le disposizioni intraprese da Licinio contro il clero cattolico e radunò, nel maggio del 325, un concilio ecumenico a Nicea, in Bitinia. Oltre a varie risoluzioni relative alla gerarchia ecclesiastica, il concilio sancì anche la consustanzialità del Padre e del Figlio e condannò quindi come eretica la dottrina di Ario. Sotto il profilo politico, è indubbio che il concilio, i cui lavori furono presieduti dallo stesso Costantino, riconobbe all’imperatore  una sorta di primato sulla Chiesa.

In politica interna, Costantino, il primo imperatore ad adornarsi, nel 325, con il diadema di perle tipico dei monarchi orientali, diede avvio ad una serie di riforme di carattere amministrativo che favorirono l’orientalizzazione dell’apparato burocratico dell’Impero. Fu senz’altro in linea con questa politica la decisione di fondare Costantinopoli, la nuova Roma cristiana, che fu inaugurata solennemente l’11 maggio del 330.

Per quanto riguarda la politica estera, l’imperatore, vittorioso sul Reno sugli Alamanni (328), ottenne la sottomissione di alcune tribù sarmate che, nel 334, furono ammesse entro i confini dell’Impero: ben 300.000 sarmati ottennero dunque delle terre nelle regioni più devastate della penisola balcanica.  A Oriente, l’attacco persiano al regno cristiano d’Armenia, provocò nel 336 lo scoppio di una nuova guerra con l’Impero, ma, ammalatosi durante i preparativi di una grande spedizione offensiva, Costantino morì a Nicomedia nel maggio del 337.

Le fortificazioni

La trattazione delle fortezze dell’età romana deve prendere avvio da una premessa di ordine generale che concerne tanto l’esatto significato del termine limes quanto il concetto stes­so di frontiera.

Per quel che attiene al primo punto, va sottolineato come il termine "limes" non abbia in realtà un preciso corrispondente nelle lingue moderne, e come le sue varie accezioni ("fascia condotta trasversalmente in uno spazio", "striscia di terra libera  e non usucapibile che corre tra due proprietà", "strada che consente il passaggio degli eserciti in un territorio ostile", "strada che percorre la zona di confine collegando fortilizi e accampamenti", o quella che prevalse nel Tardo Impero e nell’età bizantina di "distretto, -non necessariamente confinario-, affidato all’amministrazione militare") non afferiscano al concetto moderno di "frontiera fortificata"  o alludano ad esso solo in un senso molto lato.

Per quanto concerne invece il secondo punto, si deve tenere conto che la "frontiera" non costituiva un limite all’espansionismo romano ma rappresentava una linea di demarcazione tra aree su cui Roma esercitava due differenti tipi di controllo: un’area suddivisa in "province" e sottoposta direttamente all’amministrazione romana e un’area di stati clienti o abitata da tribù soggette ai Romani. La considerazione che un’"area soggetta ad una forma di controllo indi­retto" poteva trasformarsi in qualsiasi momento in un’"area direttamente sottoposta all’ammin­istrazione provinciale romana" ci aiuta dunque a comprendere che i principali obiettivi dell’esercito romano erano rappresentati, da una parte, dalla conquista e, dall’altra, dal controllo delle genti sottomesse e dal consolidamento del dominio di Roma nei territori di recente con­quista. Le frontiere romane possono quindi definirsi delle "frontiere logistiche" finalizzate al mantenimento dello status quo e funzionali più alla conquista che alla difesa ad oltranza: lungi dal rappresentare una barriera in grado di fermare l’avanzata degli invasori barbari, esse erano dunque atte ad impedire infiltrazioni di lieve entità e a controllare i flussi migratori dei popoli transfrontalieri e fungevano, al tempo stesso, da base di partenza delle spedizioni militari e da installazioni per il rifornimento degli eserciti.

Se dalle fortezze site ai confini delle province si passa ad analizzare la funzione delle in­stallazioni che sorgevano all’interno del territorio romano si rende necessaria un’ulteriore precisazione: va cioè chiarito preliminarmente che la forma di controllo che i Romani esercitavano sul proprio Imperium era molto più simile ad una "sovranità di tipo egemonico" che non ad una "di tipo territoriale". In altre parole il loro precipuo interesse non consisteva nella difesa a palmo a pal­mo del territorio ma nel controllo delle sue risorse e delle sue infrastrutture: in primo luogo delle arterie viarie che consentivano i traffici e dunque permettevano la fruizione di tali ricchezze. Non a caso, la maggior parte di queste strutture erano poste lungo le vie, in prossimità degli in­croci o nelle vicinanze di guadi, sorgenti e cisterne. Al tempo stesso è evidente per molti di ques­ti insediamenti che la difendibilità non rappresentava il fattore determinante per la scelta del loro sito: si tratta spesso di strutture di fondovalle, dominate da alture e palesemente inadatte a sostenere assalti e lunghi assedi. E’ pertanto scorretto interpretare le fortificazioni come capisal­di per la resistenza passiva o come infrastrutture utilizzate unicamente per la difesa dai nemici esterni: per troppo tempo una chiave di lettura della storia di tipo strategico-militare ha con­dizionato l’interpretazione di queste infrastrutture, che lungi dal rappresentare dei baluardi di arroccamento contro i barbari, costituivano dei punti di controllo e di ricognizione utilizzati non solo dall’esercito e dalle "forze di polizia" degli organismi (colonie, municipi) dai quali era composto l’Impero, ma anche dai latifondisti e dagli amministratori delle proprietà imperiali.

Ciò detto, appare innegabile che tali installazioni rispondessero a molteplici funzioni riconducibili tanto all’esigenza di controllare i collegamenti e le risorse quanto alla necessità di gestire in senso amministrativo il territorio. Oltre che come posti di guardia, le "fortezze" potevano servire dunque anche come sedi per l’amministrazione della giustizia o per la riscos­sione delle imposte, come luoghi tutelati di scambio con i non-romani e come ricetti per vian­danti e pastori. Non va poi dimenticato che, nell’epoca delle invasioni, esse potevano essere utilizzate come rifugi d’altura a beneficio delle popolazioni civili. Né va trascurato il fatto che molte fattorie e molte dimore di campagna dei notabili romani potevano esser cinte di mura e munite di torri con la conseguenza che oggi giorno non è sempre semplice distinguerle dalle infrastrutture militari. Molto sarebbe infine da dire su quei fortini e di quelle torri di vigilanza che erano "gestite" non dall’esercito ma da milizie locali, polizie municipali, presìdi di contadini cui era imposta questa corvée o gendarmi impegnati a reprimere il brigantaggio.

Per passare alle nostre zone, bisognerà ricordare che, sulle Alpi Giulie, nella zona compresa tra Tarsatica (l’attuale Rijeka/Fiume) e Forum Iuli (Cividale), sono ancora visibili lunghi tratti di mura, nonché resti di torri, castelli e fortilizi dei Claustra Alpium Iuliarum  ("Chiuse delle Alpi Giulie"). Le Chiuse, il cui principale caposaldo era costituito dalla fortezza poligonale di Castra (l’odierna Ajdovscina/Aidussina) sul fiume Frigidus (Vipava/Vipacco), vigilavano sulle principale diret­trici di collegamento tra l’Italia e le regioni danubiane (e, per converso, di possibile penetrazi­one in Italia da Oriente) e, in primo luogo, sulla strada che da Aquileia portava ad Emona (Ljubljana/Lubiana) e a Celeia (Celje).   Non è possibile al momento stabilire se queste installazioni fossero parti integranti di un unico "sistema" di difesa: infatti, secondo alcuni studiosi, certi fortilizi (come Gradis>c>e presso Vhrnika) possono esser fatti  risalire al tempo delle campagne militari di Augusto nell’Illirico mentre altri sembrano invece coevi alla costruzi­one della strada romana (14 d.C.)  o al momento in cui, per far fronte ai Marcomanni che avevano assediato Aquileia e distrutto Oderzo (Opitergium), fu costituita la regione militarizzata detta Praetentura (avamposto) dell’Italia e delle Alpi. Altri studiosi ritengono invece che i presidi, gli accampamenti e le postazioni di guardia (sta­tiones) di guardia dei Claustra fossero stati concepiti come  un sistema unitario. Ma anche ammettendo che tutte queste strutture, se non concepite unitariamente,  fossero state almeno utilizzate contemporaneamente, si perviene comunque alla conclusione che esse non furono impiegate  per la difesa dell’Italia dai barbari ma furono utilizzate agli inizi del IV secolo durante leguerre intestine tra i sovrani dell’Impero d’Occidente e i loro colleghi della Pars Orientis. Le discese in Italia dei goti Alarico e Ataulfo, dell’unno Attila e dei Longobardi non furono in alcun modo ostacolate da contingenti acquarti­erati in presidi alpini nè si ha notizia di un utilizzo dei Claustra nel corso delle battaglie sull’Iso­nzo tra l’ostrogoto Teodorico e Odoacre (489) e sul fiume Frigidus tra i Longobardi e gli Avari (664).  Al contrario, molti fortilizi possono esser fatti risalire ai tempi della guerra tra Costantino e Licinio e appare possibile il loro utilizzo nella guerra tra Costanzo II e l’usurpatore Mag­nenzio (la cui sorte fu decisa nel 351 nella sanguinosissima battaglia di Mursa), nello scontro tra Teodosio e l’usurpatore Massimo (sconfitto nel 388) e, soprattutto, nella lotta tra Teodosio e l’usurpatore Eugenio, decisa nella battaglia sul fiume Frigidus.

A nord,  sulle Alpi Carniche  non è attestata invece la presenza di fortezze che tutelassero i passi della Carnia, del Ca­nal del Ferro o del settore alpino compreso tra le Caravanche e le Alpi Giulie. Fa eccezione la Carinzia dove sono presenti due strutture difensive del II secolo, probabilmente dei tempi dell’invasione marcomannica: la chiusa di Rattendorf (slov. Rotna Ves) nella valle del Gail e il castello che dal monte Hoischhu"gel domina la confluenza del Gail con il torrente Klaus. La chiusa di Rattendorf era costituita da un muro (detto "Heidenmauer" -slov. Ajdovski zid-) lungo 1,5 km e mezzo e spesso 1,20 m; il castello sull’Hoischhu"gel, distrutto nel tardo VI secolo (nel V secolo ospitò probabilmente una chiesa), ampio 220 metri x 90, era in origine -come indurrebbe a credere il rinvenimento di quattro altari dedicati da beneficiarii- una stazione di controllo viario. Va segnalato inoltre come, sia lun­go la via che passava per Stari Trg presso Slovenj Gradec (Colatio) sia lungo i percorsi che attraver­savano la valle di Tuhinj, i passi di Jezersko, Ljubelj e Koren, sia infine in prossimità di Villaco e nel Canal del Ferro, fossero stati edificati dei rifugi tardo-antichi, che risultano peraltro difficilmente distinguibili dai fortilizi.

Il brigantaggio

La delinquenza organizzata rappresenta un fenomeno sociale ed economico che, seppur disconosciuto, minimizzato o enfatizzato a seconda delle contingenze storiche, risulta attestato in ogni epoca e connaturato in ogni società.  A livello ufficiale, i governi antichi interpretavano il banditismo come una minaccia all’integrità delle proprie istituzioni, alla  pace e all’ordine costituito, e perseguivano contro di esso una lotta senza quartiere. Nella prassi, essi assumevano invece degli  atteggiamenti intransigenti solo nei confronti di alcuni soggetti cui riservavano varie forme di repressione di stampo terroristico. Nei confronti di altri individui non meno criminali, i vari governi –non escluso quello romano- adottavano invece dei comportamenti ben diversi che comprendevano la legittimazione dei soggetti politicamente utili, la cooptazione dei banditi nelle strutture dello Stato e la tolleranza per le connivenze tra i membri della leadership e gli esponenti di spicco di una malavita ben radicata nel territorio.

Era del resto sin troppo perspicuo a quei tempi, -come lo è del resto oggi-, che la sopravvivenza di determinate forme di banditismo era proporzionale al grado di coinvolgimento del notabilato locale in questo genere di illeciti, ma tornava senza dubbio più conveniente alle autorità arrogarsi il controllo dei più importanti centri abitati, delle principali arterie stradali,  degli empori  e, in generale, dei centri di produzione, delegando ai centri del potere periferico, -che erano, in definitiva,  espressione dei potentati locali-, la repressione di quei fenomeni di delinquenza "anarcoide" che minavano le basi del cosidetto ordine costituito.

Non mancano certo i documenti che attestano quanto  fossero ipocriti i proclami che inneggiavano alla lotta senza quartiere al brigantaggio. Sappiamo ad esempio che, dopo la morte di Cesare, al tempo della guerra civile, l’Italia era percorsa da signorotti che, alla testa di bande di armati, approffittavano del caos per schiavizzare uomini liberi e per incrementare la loro potenza: nobiles potenti che, dopo il ristabilmento dell’ordine e l’ascesa al potere del divino Augusto, non incorsero in alcuna forma di punizione. In modo non troppo dissimile erano rimasti impuniti in precedenza, nel II secolo a.C., i latifondisti della Sicilia che avevano agito come mandanti delle bande di schiavi-banditi e avevano fomentato una sanguinosa guerra servile.  È attestato inoltre che, in piena età imperiale (III secolo), i curiali di Germanicopolis, ai confini dell’Isauria, fungevano "da mediatori fra il potere centrale ed i montanari-banditi, valendosi del loro ruolo di patroni nei confronti degli abitanti della regione" e che alcuni maggiorenti delle Alpi occidentali non solo si erano arricchiti in passato con i rapimenti e gli abigeati  ma erano pronti all’evenienza a tornare alle forme di guerra proprie dei latrones. Né  mancano infine le costituzioni promulgate durante il Tardo Impero con cui si tentava di impedire ai curiales di dare rifugio ai briganti e in cui si accennava alla loro complicità negli abigeati.

Prima di affrontare il tema che si siamo proposti, è doveroso accennare alla concezione che i Romani avevano del loro territorio: ai nostri giorni il territorio costituisce l’essenza stessa di uno stato mentre ai tempi dell' impero romano esso era importante solo nei termini  in cui rappresentava una fonte di entrate o un tramite per la circolazione delle ricchezze. Inoltre va considerato che l'impero stesso, lungi dall’essere organizzato secondo la struttura centralistica propria degli Stati attuali, era in realtà un coacervo di popoli e di res publicae ossia di entità statuali autogestite che avevano ampia autonomia in materia di sicurezza interna. Infine, va tenuto conto che uno degli obiettivi primari di una società fortemente gerarchizzata come quella romana era rappresentato dal mantenimento della concordia almeno all’interno dei ceti dominanti: ciò significa che, da un lato, si perseguiva l'assimilazione e l’integrazione  delle élites locali nella classe dirigente romana benché, dall’altro, si fosse pienamente consapevoli, come si è detto, che la sopravvivenza di determinate forme di banditismo dipendeva dagli interessi e dalle connivenze dei  notabilati locali in questo genere di illeciti.

L’atteggiamento delle autorità romane nei confronti del brigantaggio era dunque il risultato dell’incontro tra due forze che tendevano a opposte direzioni. Da un lato c’era una conclamata esigenza di giustizia: il latro doveva esser debellato con ogni mezzo e annichilito senz’alcuna pietà. Dall’altro, basta leggere con attenzione le lettere che Cicerone spedì dalla provincia di cui era governatore per rendersi conto di quanto l’atteggiamento dei Romani nei confronti dei principi locali dediti al brigantaggio sapesse esser duttile e spregiudicato.

La legislazione romana prevedeva dunque contro i briganti due provvedimenti raccapriccianti: da una parte la presunzione giudiziaria che consentiva ad ogni privato di uccidere impunemente il  ladro non solo per legittima difesa ma anche in assenza di un reale pericolo e, dall’altra, la comminazione da parte dello Stato di pene – modellate sul criterio dell’esemplarità ovvero dell’intimidazione mediante l’atrocità del supplicium -, rese spesso ancor più deterrenti con la pena aggiuntiva dell’esposizione del cadavere. Come lo schiavo o il malato di mente, il brigante era privo di ogni diritto civile, e in quanto non-individuo veniva giustiziato dopo un processo sommario. Tanto nelle mani degli inquirenti così come al cospetto del giudice, era  dunque sottoposto a torture di inaudita crudeltà, allo scopo di estorcergli i nomi dei suoi complici: va da sè che la cattura di un brigante era seguita da eccidi di conniventi e fiancheggiatori, da rappresaglie di tipo terroristico e da una lunga scia di condanne.

Dall’altra parte, se si tien conto  dell'oggettiva impossibilità che i Romani avevano di controllare palmo a palmo un impero esteso dalla Mesopotamia alla Britannia, si comprenderanno i motivi per cui essi si sentissero investiti del compito di reprimere solo  quelle forme di criminalità che ledevano i loro interessi e che minacciavano l'ordine costituito. In definitiva il brigante non doveva oltrepassare con i suoi illeciti una determinata soglia ed è probabile che, come racconta nelle "Metamorfosi" di Apuleio (VII, 5) il predone trace Haemus, le sue scorrerie e le sue devastazioni in Macedonia non avrebbero mai avuto fine se, per la malignità di un dio, non gli fosse passata per la testa l’idea di saccheggiare la casa di un procuratore romano.

Tali atteggiamenti erano dunque condizionati da alcuni limiti oggettivi. Lo stato romano non disponeva di una forza di polizia, almeno nel senso di un  "coherent centrally organized police force" come sottolinea Shaw o di un "corps intermédiaire et spécialisé comme l’est celui de nos modernes policiers" come ricorda Le Bohec. Per tale motivo erano i reparti dell’esercito ad essere investiti delle funzioni di polizia: alcuni sottufficiali legionari (principales) e una parte dei cavalieri ausiliari (equites singulares) erano distaccati presso i quartieri generali dei governatori provinciali; i frumentarii, commissari dell’intendenza militare preposti al collegamento tra Roma e le unità di appartenza, potevano fungere anche da corrieri e da agenti segreti;  nell’Urbe e in alcune metropoli dell’Impero erano acquartierate le coorti dei pretoriani, dei vigili e degli urbani; infine, un livello minimo di sicurezza era assicurato lungo le vie dalle pattuglie dei viatores e dagli stationarii che presidiavano gli incroci,  i punti strategici e i centri minori.  Era proprio attraverso il dislocamento di alcuni graduati legionari (beneficiarii) nelle stationes (i presidi  posti a tutela dei centri abitati, dei principali assi viari, degli empori e delle miniere)  che si perseguiva di norma la lotta al brigantaggio. Le missioni speciali e la cattura dei criminali più pericolosi erano invece affidate ai centurioni o agli evocati (pretoriani richiamati dal congedo che agivano agli ordini dei prefetti del pretorio), mentre le situazioni più a rischio necessitavano l’intervento di interi distaccamenti (vexillationes) legionari e ausiliari.

La repressione militare del banditismo imponeva alle forze armate un’elasticità che non era loro propria. Sappiamo ad es. che, all’epoca di Tiberio, le operazioni contro il latro numidico Tacfarinas richiesero una duplice deroga alle loro consuetudini militari: gli organici dell'esercito dislocato in Africa furono dapprima divisi in tre corpi d'armata e poi in compagnie; inoltre le truppe, affidate al comando dei centurioni più esperti,  invece che esser acquartierate sul far dell'inverno negli hiberna, furono dislocate in castelli. Con l’andar del tempo, venne dato sempre più spazio alle truppe di frontiera degli superventores, dei praeventores e degli insidiatores che erano armati alla leggera, specializzati nella controguerriglia e adatti alle battaglie non campali. Queste formazioni irregolari -dette numeri – erano formate da barbari alleati, sottomessi o prigionieri. Esse erano in grado di assolvere  quei compiti  (il pattugliamento del limes, la ricognizione delle tribù transfrontaliere, la 'munizione' dei fortini -burgi speculatorii- con cui si spiavano le infiltrazioni dei latrones, il collegamento delle varie postazioni militari, la "bonifica" del territorio nemico a tutela delle avanguardie stesse dell'esercito) che risultavano ardui ai pesanti reparti della fanteria legionaria e della fanteria e della cavalleria ausiliaria. Tra i numeri si segnalavano per efficacia  i cavalieri Mauri, discendenti di quei reparti "di Mauri resi avezzi alla guerra dai latrocini e dalle rapine", menzionati da Tacito tra le forze di un procuratore romano del 69 d.C.!

Ma non tutte le province erano presidiate dalle legioni e dagli auxilia. Così i governatori che non potevano avvalersi di ingenti forze militari erano costretti a ricorrere ad «altri mezzi». Ad esempio, Flavio Giuseppe narra che, per far fronte alle scorrerie del brigante Eleazar, il procuratore della Giudea Cumanus non esitò a ricorrere ad una milizia samaritana, mentre apprendiamo da un'epistola del 153-154 indirizzata ad Antonino Pio dal proconsole dell’Asia Frontone che un tal Iulius Senex, un consulente particolarmente esperto "nella caccia e nella repressione del brigantaggio" fu convocato in Asia dalla lontana Mauretania. Non difettavano le soluzioni: erano pronti ad entrare in scena  killers semiprofessionisti al servizio dei grandi proprietari terrieri, briganti cui un rescritto dell’imperatore Adriano condonava la pena in cambio dell’uccisione dei loro "colleghi", sobillatori ed eversivi deportati nelle aree in cui era endemico il brigantaggio, nonché milizie di contadini reclutati con la coercizione.

Va però tenuto conto che, con il pretesto di reprimere il brigantaggio, queste forze militari e paramilitari si abbandonavano a loro volta a rapine e a violenze di ogni genere:  in una costituzione promulgata da Onorio e Teodosio il 25 dicembre del 409 si manifesta la volontà di estirpare sin dalle radici la "razza  perniciosa per lo stato" degli irenarchi, poiché essi con il pretesto di assicurare la quiete e la pace nei territori di loro competenza, finivano con il perpetrare crimini peggiori di quelli che avrebbero dovuto contrastare; il 29 febbraio del 412, gli stessi Onorio e Teodosio impongono al magister militum Costantius di rimuovere i funzionari detti tribuni, i quali, con la scusa di perseguire i nomadi  e i disertori, devastavano la provincia d’Africa e ordinano di giustiziare chiunque avesse assunto in futuro il loro "infausto ufficio". Un secolo dopo, Giustiniano ingiunse tanto ai dignitari imperiali quanto ai maggiorenti delle città, cioè in definitiva ai privati, di ricorrere a sgherri chiamati latronum in/persecutores-expulsores. Questi ufficiali sono detti "ladri violenti e corrotti che conoscono i malfattori solo nella misura in cui a loro stessi e ai loro governatori giungono dei lauti guadagni". In definitiva i "persecutori dei briganti"  latrocinavano,scorrazzavano per le province, rapivano le donne, razziavano il bestiame, rubavano, commettevano crimini, violenze e altri illeciti e, approfittando del loro mandato, si  macchiavano dei peggiori misfatti.

Era poi una prassi comune dei Romani delegare la risoluzione dei problemi di ordine  pubblico delle aree periferiche ai re clienti, come il tetrarca Erode cui fu lasciata l’incombenza di snidare dai loro covi sotterranei i fuorilegge della Trachonitis (23 a.C.) o come il re della Commagene, Antioco, incaricato di disgregare con la sua torbida diplomazia quelle bande di briganti cilici che avevano procurato più di un dispiacere alle legioni di Roma.

Nei momenti di particolare difficoltà -ovvero di crisi del potere centrale- non restava invece che affidarsi agli eserciti dei notabili locali che, in cambio del loro intervento, venivano elevati al rango di principi alleati: rivestono in tal senso non poco interesse le iscrizioni di quei duces lici del III sec. che, per aver scongiurato con le loro truppe la minaccia dei briganti isaurici, furono celebrati con l'epiteto di "potentissimi alleati degli Augusti" ed elogiati dai comandanti romani.

Infine, nei casi disperati, i Romani, strenui oppositori a parole di ogni forma di banditismo, non esitavano infine a scendere a compromessi. Non era questa una loro peculiarità: si considerino ad esempio i doni e gli onori che furono tributati ai banditi giudei Asinaios e Anilaios dal re dei Parti Artabanus. Per quanto riguarda Roma, sono stati evidenziati degli episodi ambigui che sembrano alludere all’esistenza di contatti tra il potere e i briganti più insidiosi: l’episodio in cui il divino Augusto dona al bandito spagnolo  Corocotta il milione di sesterzi che aveva messo come taglia per la sua cattura o quello del bacio che il bandito siriano Claudio – che non a caso restò impunito- da all’allora governatore Settimio Severo.

Il vero punto focale per comprendere queste collusioni è di tipo "ideologico" e può essere espresso nel modo seguente: c’era violenza e violenza ed era la sanzione dello stato a fare la differenza. Ogni soggetto violento poteva in realtà essere convertito e un processo di conversione passava inequivocabilmente attraverso l’arruolamento del bandito reale o potenziale nelle file dell’esercito romano. E’ un punto che merita una breve digressione.

Ora sia il termine greco leestees -che deriva da leeis, leeizomai (= "bottino", "far bottino"), e designa tanto il rapinatore armato quanto il miliziano che saccheggia le terre del nemico-, sia il termine latino latro, -passato dal significato originario di "mercenario" a quello di "soggetto violento delegittimato"-, richiamano una violenza fatta di razzie, insidie ed agguati propria tanto dei briganti che dei mercenari. Nelle fonti classiche, il termine greco leesteia  e il termine latino latrocinium definiscono una forma "non convenzionale" di conflitto  che rappresentava, al tempo stesso, una forma di economia "propria degli uomini oziosi" (Plat., Leg. VII, 823d-e cfr. Arist. Pol., 1256 a): una sorta di tara ereditaria rimasta ai popoli barbari dediti alla caccia e/o alla pastorizia e a quei Greci dell’entroterra che, agli occhi dei colti ateniesi, apparivano più efferati per costumi degli stessi  barbari (Thuc., I, 5, 3-6, 2) . E' quindi sintomatico che tanto i mercenari impiegati nei colpi di stato che portarono all’instaurarsi delle tirannidi nella Grecia arcaica, quanto i soldati di mestiere che, nei fatti d’arme dell’età ellenistica, diedero prova del loro valore più nelle razzie, nei saccheggi e nei colpi di mano, che nelle battaglie campali, fossero reclutati tra quei barbari imputati di latrocinio o tra quei Greci (Etoli, Acarnani, Cretesi) "abituati a vivere dell’altrui" (Pol., IV, 3, 1) e disprezzati in quanto briganti.  Il latrocinio, che in una scala fondata sull’etica era collocato nel punto più infimo, era dunque un'espressione dell’anarchia prestatale, una forma di potere personale storicamente anteriore alla genesi dello Stato e da questo delegittimata.  Una violenza anarcoide che necessitava o di un habitat di latente anarchia, sul quale lo stato centrale esercitava  un imperfetto controllo (una zona di confine, un’impervia montagna, la palude o la foresta), o di un momento in cui la crisi dello stato ripristinava il caos prestatale o  di forme economiche (il mercenariato, la caccia o la pastorizia) e di condizioni di marginalità (la fuga dalla schiavitù o la diserzione) che favorivano il ricorso alle rapine e alle violenze: non è ad esempio un caso che dei tre capi briganti che operavano in Giudea dopo la morte di Erode uno fosse un pastore, uno uno schiavo del re, ed uno un soldato. Né è un caso che il brigante Viriathus (Liv. Periochae, 52) fosse divenuto "ex pastore venator ex venatore latro" o che  Tacfarinas si fosse trasformato da disertore in brigante.

Chiarito dunque che il latrocinio costituiva una violenza tipica di tutte le società primitive ed anarcoidi, si deve accennare alla concezione che i Romani avevano dei propri progenitori : essi sapevano di discendere da quei ladri di bestiame che, presso un altare a sud dell'Aventino, veneravano nella dea Laverna la loro protettrice (Varr., Lingua lat., V, 164) ed erano ben consci che il fondatore della loro città, il pastore Romolo, aveva derubato i latrones, saccheggiato le campagne dello zio Numitore, rapito le donne sabine e dato ricetto a briganti e malfattori (Liv., I, 4, 9; 5, 4 cfr. Eutr., I, 1). Disposti dunque ad ammettere che il brigantaggio non era stato alieno al comportamento dei  loro avi dell’epoca delle origini, i Romani  dell’ epoca storica preferivano attribuire la pratica del latrocinium agli altri popoli e agli altri stati: in una commedia di Plauto la professione di reclutatore di latrones per conto dello squalificato re Seleukos di Siria viene attribuita ad un altrettanto squalificato "miles gloriosus" di Ephesos (Plaut.,  Mil. Gl., 72-77; 948-950).
La realtà era ben differente: risulta  infatti evidente, malgrado le reticenze di Livio (XXVI, 40, 17), che nel 210 a.C. a devastare le terre dei Bruttii per conto dei Reggini alleati di Roma, furono assoldati (Pol., frg.  IX, 27, 10-11) con la mediazione del console Valerius Laevinus dei criminali dediti alle rapine e ai latrocinia. Si può quindi concludere che, mentre per le genti dedite alle razzie la scelta tra il mercenariato e il latrocinio rappresentava essenzialmente un "affaire de circostances", da un punto di vista del potere romano, era  la "sanzione dello Stato" e "la scelta del campo giusto" a fare la differenza tra il criminale e il soldato di professione.

Era dunque una preoccupazione del potere romano incorporare nelle forze dello stato quanti si sarebbero potuti opporsi ad esso, facendo quindi rientrare entro i termini della violenza legittimata dal potere, i potenziali attori della violenza illegale. Veniamo così a sapere che tra le varie accuse mosse da Cicerone all’ex proconsole della Macedonia  Calpurnio Pisone vi era quella di aver compromesso i rapporti con due tribù tracie  che, seppur in fama di briganti,  erano state disposte a fornire fanti e cavalieri e, nella generale defezione dei sottomessi, avevano difeso il dominio romano sulla provincia. Abbiamo poi già accennato al passo di Tacito in cui si registra la presenza nelle forze di un governatore provinciale di un contingente etnico reso adatto alla guerra dalla consuetudine al latrocinio. Nell’Historia Augusta si ricorda come l’imperatore Marco Aurelio procedette al reclutamento dei latrones della Dalmazia e della Dardania per far fronte alle scorrerie nei Balcani dei "latrones" Costoboci. Vale poi la pena rammentare un’iscrizione di III secolo  rinvenuta in una località dell’attuale Bulgaria significativamente nota oggi come Hajdus<ko kladenc<e (= fonte dei briganti hajduki), una località abitata un tempo dai Bessi, che a detta di Strabone  "erano chiamati  briganti dai briganti stessi". L’epigrafe riporta l’ex-voto al dio Asklepios Zymyzdrenos di un tal Aurelios Dionysodoros che si qualifica come ordinarius  ovvero come centurione dei  primi ordines. Nella dedica il centurione ringraziava il dio per aver proceduto con successo all’arruolamento di alcuni briganti!

Nel IV secolo, il brigante Charietto, un barbaro dal fisico possente, dotato di grande coraggio e aduso alle scorrerie, dopo aver rinunciato a perpetrare latrocini ai danni delle città romane della Gallia, intraprese in loro difesa, contro i predoni germani Chamavi e Alamanni una guerriglia dapprima solitaria e poi con una banda  di  briganti che l’imperatore Giuliano non tardò a  sponsorizzare. Nel corso della sua spedizione contro i Persiani (363 d.C.) l’imperatore Giuliano fu ben lieto di accogliere nelle sue fila alcuni capi dei Saraceni perché, malgrado la fama di latrones di cui godevano le loro genti, li  ritenne quanto mai atti a eseguire  quelle "operazioni" che Ammiano definisce furta bellorum. Lo stesso Ammiano non esita invece ad etichettare come "famosi nominis latro" il philarcus dei Saraceni Assaniti, Malechus Podosaces, che aveva teso un agguato al generale romano Hormizdas e si comprende quindi come a seconda delle scelte di campo o a seconda degli interessi che volevano perseguire, i predoni del deserto fossero etichettati come "alleati" o come "briganti".

Infine, nell’epoca bizantina, apprendiamo da Procopio (Hist 1, 15, 19-25) come, fallita per così dire l'opzione militare contro gli Tzani dell'Iberia che perpetravano rapine ai danni dei  vicini, le autorità di Bisanzio si risolsero a "persuaderli" ad abbandonare il latrocinio, a convertirsi al cristianesimo e ad arruolarsi nell'esercito. L’entità dei contingenti arruolati dai bizantini tra i popoli dediti al brigantaggio può  essere quantificata sulla base di  un altro passo di Procopio, relativo alla guerra gotica (BG IV, 31):  il corpo di spedizione comandato da Belisario era composto da 4000 uomini dell’esercito regolare e dei federati, da 3000 Isauri e da 3200 alleati Unni e Mauri.

La trasformazione del brigante in soldato era considerata però un processo reversibile: secondo Cassio Dione (LVII, 27, 4) l'esercito imperiale romano sarebbe stato costituito da uomini che altrimenti si sarebbero potuti dedicare al brigantaggio e lo scioglimento delle coorti pretorie per volontà di Settimio Severo (LXXV, 2, 5) avrebbe indotto la gioventù italiana a dedicarsi al banditismo.

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