Che cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi? Qualcosa di molto sostanziale. Non solo, infatti, i personaggi modificano il loro nome (Fermo Spolino diventa Renzo Tramaglino, filatore di seta, come ricorda il cognome; Lucia Zarella si chiama Lucia Mondella; fra Galdino, il cappuccino che protegge i fidanzati, assume il nome di padre Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve la misteriosa denominazione dell’innominato, Marianna De Leyva diventa l’anonima monaca di Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla narrazione. Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono il frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia l’innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e ridotte. Di queste figure il lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le notizie fondamentali: in compenso è approfondito lo scandaglio psicologico, a tutto vantaggio della poeticità e suggestione della loro personalità. Infatti la storia della fanciulla monacata per forza nel Fermo e Lucia è così vasta da costituire davvero “un romanzo nel romanzo”, che spiazza il lettore e gli fa dimenticare il filo centrale della narrazione. Inoltre, subito dopo l’interminabile odissea della monaca, ecco apparire il tenebroso Conte del Sagrato, anche lui con una lunghissima biografia alle spalle, vero excursus in cui il lettore si immerge nel mondo violento dei sicari secenteschi. Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo pagine e pagine, ricompare il povero Fermo, che poi è il protagonista, sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si aggiunge, come osservano gli amici di Manzoni, che emerge un eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi, violenti dei personaggi. Per esempio l’autore illustra con esagerato realismo l’agguato del Conte a un nemico sul sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel descrivere l’assassinio di cui la monaca si rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire solamente il passato dell’innominato, il romanzo acquista maggiore eleganza e omogeneità stilistica, mentre i personaggi risultano più misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili e forti di una incredibile capacità di ricreare la suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni voglia davvero fare di lui l’incarnazione del male di tutto un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è scosso da una vera passione per la ragazza e vive una tremenda crisi di gelosia nei confronti di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un sentimento che potrebbe, se non giustificarla, renderla umanamente comprensibile. Nella redazione successiva, invece, gli ostacoli che frappone alle nozze nascono da una futile scommessa stipulata con il cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che impazzisce per il contagio della peste e si getta in una furibonda cavalcata nel lazzaretto, vengono riequilibrate, smorzate nella suspense, a tutto vantaggio dell’armonia della narrazione.
Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in parte modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi narrativi: i due episodi della monaca di Monza e dell’innominato vengono distanziati con l’inserimento delle avventure di Renzo nei tumulti di Milano.
Nell’edizione del Ventisette il Manzoni attua anche tagli decisi nelle parti più specificatamente metodologiche e storiografiche: abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo e toglie tutta la documentazione dei processi agli untori (presunti responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto negli atti riportati dalle cronache milanesi. Questa documentazione, peraltro di grande interesse, verrà enucleata e rielaborata nella [i]Storia della colonna infame[i], pubblicata nel 1842 in appendice all’ultima e definitiva edizione del romanzo.
Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al romanzo quel tono di realismo, arricchito da un umorismo sottile che tempera la drammaticità di alcuni episodi. Per esempio l’autore inventa il soliloquio di Renzo che, in fuga verso Bergamo, sta cercando un facile guado dell’Adda. È un capolavoro di introspezione psicologica: chi non ha mai parlato da solo, in maniera concitata e aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang Goethe, ma seguono rapidamente giudizi molto positivi di scrittori francesi come Stendhal (1783-1842), Alphonse de Lamartine e di autori che languiscono nelle carceri austriache, come Silvio Pellico (“quanto consola il vedere in Manzoni il cristiano senza pusillanimità, senza servilità, senza transazioni co’ pregiudizi dell’ignoranza”, scrive dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta revisione linguistica dell’opera. L’autore è da tempo interessato alla questione della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII secolo: se ne occupa Dante Alighieri (1265-1321) nel [i]De vulgari eloquentia[i], se ne occupano importanti trattatisti del Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi politicamente, si sentono uniti nella cultura e nell’Ottocento aspirano a una lingua letteraria che sia nazionale. La tradizione addita nel fiorentino l’idioma più raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo romanzo un’opera italiana, e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi a Firenze qualche tempo. Ha bisogno di “orecchiare” il toscano parlato dalle classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al linguaggio della narrazione.
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- Alessandro Manzoni
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