Seneca, De Brevitate Vitae, 12: testo originale in latino
Quaeris fortasse quos occupatos vocem? Non est quod me solos putes dicere quos a basilica immissi demum canes eiciunt, quos
aut in sua vides turba speciosius elidi aut in aliena contemptius, quos officia domibus suis evocant ut alienis foribus
illidant, [aut] hasta praetoris infami lucro et quandoque suppuraturo exercet. 2 Quorundam otium occupatum est: in villa aut in
lecto suo, in media solitudine, quamvis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa vita dicenda est sed
desidiosa occupatio. Illum tu otiosum vocas qui Corinthia, paucorum furore pretiosa, anxia subtilitate concinnat et maiorem
dierum partem in aeruginosis lamellis consumit? qui in ceromate (nam, pro facinus! ne Romanis quidem vitiis laboramus)
spectator puerorum rixantium sedet? qui iumentorum suorum greges in aetatum et colorum paria diducit ? qui athletas novissimos
pascit? 3 Quid? Illos otiosos vocas quibus apud tonsorem multae horae transmittuntur, dum decerpitur si quid proxima nocte
succrevit, dum de singulis capillis in consilium itur, dum aut disiecta coma restituitur aut deficiens hinc atque illinc in
frontem compellitur? Quomodo irascuntur, si tonsor paulo neglegentior fuit, tamquam virum tonderet! Quomodo excandescunt si
quid ex iuba sua decisum est, si quid extra ordinem iacuit, nisi omnia in anulos suos reciderunt! Quis est istorum qui non
malit rem publicam turbari quam comam suam? qui non sollicitior sit de capitis sui decore quam de salute? qui non comptior esse
malit quam honestior? Hos tu otiosos vocas inter pectinem speculumque occupatos? 4 Quid illi qui in componendis, audiendis,
discendis canticis operati sunt, dum vocem, cuius rectum cursum natura et optimum et simplicissimum fecit, in flexus
modulationis inertissimae torquent, quorum digiti aliquod intra se carmen metientes semper sonant, quorum, cum ad res serias,
etiam saepe tristes adhibiti sunt, exauditur tacita modulatio? Non habent isti otium, sed iners negotium. 5 Conviuia me
hercules horum non posuerim inter vacantia tempora, cum videam quam solliciti argentum ordinent, quam diligenter exoletorum
suorum tunicas succingant, quam suspensi sint quomodo aper a coco exeat, qua celeritate signo dato glabri ad ministeria
discurrant, quanta arte scindantur aves in frusta non enormia, quam curiose infelices pueruli ebriorum sputa detergeant: ex his
elegantiae lautitiaeque fama captatur et usque eo in omnes vitae secessus mala sua illos sequuntur, ut nec bibant sine
ambitione nec edant. 6 Ne illos quidem inter otiosos numeraveris qui sella se et lectica huc et illuc ferunt et ad gestationum
suarum, quasi deserere illas non liceat, horas occurrunt, quos quando lavari debeant, quando natare, quando cenare alius
admonet: [et] usque eo nimio delicati animi languore solvuntur, ut per se scire non possint an esuriant. 7 Audio quendam ex
delicatis (si modo deliciae vocandae sunt vitam et consuetudinem humanam dediscere), cum ex balneo inter manus elatus et in
sella positus esset, dixisse interrogando: “Iam sedeo?” Hunc tu ignorantem an sedeat putas scire an vivat, an videat, an
otiosus sit? Non facile dixerim utrum magis miserear, si hoc ignoravit an si ignorare se finxit. 8 Multarum quidem rerum
oblivionem sentiunt, sed multarum et imitantur; quaedam vitia illos quasi felicitatis argumenta delectant; nimis humilis et
contempti hominis videtur scire quid facias: i nunc et mimos multa mentiri ad exprobrandam luxuriam puta. Plura me hercules
praetereunt quam fingunt et tanta incredibilium vitiorum copia ingenioso in hoc unum saeculo processit, ut iam mimorum arguere
possimus neglegentiam. Esse aliquem qui usque eo deliciis interierit ut an sedeat alteri credat! 9 Non est ergo hic otiosus,
aliud illi nomen imponas; aeger est, immo mortuus est; ille otiosus est cui otii sui et sensus est. Hic vero semivivus, cui ad
intellegendos corporis sui habitus indice opus est, quomodo potest hic ullius temporis dominus esse?
Seneca, De Brevitate Vitae, 12: traduzione
Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che
soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con
maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni
spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l’asta del pretore fa travagliare con un
guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all’asta dei bottini di guerra e
degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel
loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve
definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa
pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose?
Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che
lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E
che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell’ultima notte,
mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla
fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po’ disattento, come se tosasse un uomo!
Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in
anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più
preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi
tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare
canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e
il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando
si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non
annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l’argenteria, con quanta
cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale
vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto
femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non
irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso
e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure
annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all’ora delle loro
passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono
nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se
hanno fame. Sento che uno di questi delicati – se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine
umana – , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: “Sono già seduto?”. Tu reputi che
costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo
sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano;
alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell’uomo umile e disprezzato;
ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è
apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi
è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato,
dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a
cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento?
Vedi anche:
- Scuole Superiori
- Letteratura Latina
- De Brevitate Vitae di Seneca
- Seneca
- De Brevitate Vitae