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Teoria della valutazione Il monismo naturalistico di Dewey condiziona ampiamente anche la sua concezione della morale . Dato che l’uomo è in continua interazione con l’ambiente la sua azione non può essere guidata, kantianamente, da una ragione intesa come facoltà contrapposta agli impulsi della sensibilità. Per Dewey è dunque impossibile una netta distinzione tra razionalità e istinto. La stessa volontà non può essere considerata come una forza morale che si sottrae all’influenza dei condizionamenti ambientali: essa coincide piuttosto con l’abitudine, cioè con una somma di esperienze passate che predispongono l’uomo ad agire in un modo piuttosto che in un altro. La stessa libertà assume un carattere particolare nel contesto deweiano. Essa non comporta né il libero arbitrio né la capacità kantiana di essere principio di una serie causale, ma è data semplicemente dagli spazi di novità, di originalità e creatività che caratterizzano la risposta mentale dell’uomo allo stimolo puramente fisico dell’ambiente. Tenendo conto di ciò, come è possibile distinguere un’azione buona da una cattiva, un’azione giusta da una ingiusta o anche, poiché il problema si pone negli stessi termini, una cosa bella da una brutta? In altri termini, in che cosa consiste il valore e come sono possibili i giudizi di valore? A queste domande, Dewey risponde con la sua Teoria della valutazione . Premesso che i valori sono per lui come per Moore qualità immediate, che non possono essere né giustificate né discusse, la teoria della valutazione rende tuttavia possibile spiegare come nascono i valori e come si possono introdurre criteri per preferire gli uni agli altri. Alla prima questione Dewey risponde dicendo che i valori nascono sempre da un’esigenza insoddisfatta e coincidono con la condizione che soddisfa tali esigenze(in ciò la sua posizione non è troppo lontana dalla teoria jamesiana dei ‘claims’) Ma proprio perché il valore reclama la propria soddisfazione, alla teoria della valutazione è intrinseco l’esame del rapporto tra mezzi e fini : essa non si deve soltanto occupare dei valori in sé, cioè dei fini cui si tende, ma anche necessariamente dei mezzi necessari per conseguirli. La prima analisi non può procedere senza la seconda. In una condizione nella quale è impossibile discutere dei valori, poiché essi si giustificano da sé, la valutazione, e quindi la scelta dei valori stessi, è necessariamente condizionata dalla congruenza tra i fini che essi rappresentano con i mezzi necessari alla loro attuazione. Ciò significa che non ci sono valori o fini in sé che debbano essere acquisiti ad ogni costo, ma qualsiasi valore può essere rifiutato quando la sua realizzazione renda sproporzionato il rapporto mezzi-fini. Dewey insiste molto sulla reciproca intrinsecità di mezzi e fini, tanto da far entrare ciascuno dei due termini nella definizione dell’altro. Così i mezzi sarebbero parti frazionari dei fini, cioè non qualcosa di esterno e puramente strumentale al fine, ma già una sua parziale realizzazione. Analogamente i fini sarebbero mezzi procedurali, cioè avrebbero essi stessi valore di mezzo nella procedura della loro realizzazione, poiché fungerebbero, per così dire da causa finale interna allo stesso procedimento. Non a caso Dewey recupera, contro ogni tendenza della scienza moderna, la nozione classica di “fine naturale”; ogni processo naturale o sociale ha in se stesso un fine che costituisce la molla del proprio sviluppo. La tendenziale convergenza tra mezzi e fini ha come conseguenza la spontaneità del processo che conduce alla realizzazione del fine stesso: se compio un lavoro, perché mi piace, il fine non è soltanto nello scopo che mi propongo mediante il lavoro(costruire un manufatto), ma già nel lavoro stesso che, in quanto gratificante non è più soltanto un mezzo ma anche un fine. La convergenza tra mezzi e fini è quindi una condizione essenziale di quella felicità cui l’uomo tende naturalmente. La considerazione del rapporto tra mezzi e fin (segue nel file da scaricare)
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