Differenze fra la filosofia di Fichte e di Schelli - Studentville

Differenze fra la filosofia di Fichte e di Schelli

Confronto fra i due sistemi: Fichte e Schelling

Dalle poche pubblicazioni in cui si riconosce un sentimento della differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e Schelling, emerge più la preoccupazione di aggirarla o di nascondersela che non la chiarezza della coscienza di tale differenza. Nè l’immediata visione dei due sistemi, come essi stanno innanzi al pubblico, nè, tra l’altro, la risposta di Schelling alle obiezioni idealistiche di Eschenmayer contro la filosofia della natura hanno portato il discorso su quella differenza. Al contrario Reinhold, per esempio, ne ha avuto talmente poco sentore, che anzi la completa identità  dei due sistemi, assunta come nota una volta per tutte, ha distorto il suo punto di vista sul sistema di Schelling anche su questo argomento. Questa confusione di Reinhold, più che la minacciata, o ancor più annunciata come già  accaduta, rivoluzione della filosofia attraverso la sua riduzione alla logica, costituisce l’occasione di questa trattazione. Alla filosofia di Kant era necessario che il suo spirito fosse separato dalla lettera, e che il puro principio speculativo fosse estratto dalla parte restante, che apparteneva alla riflessione raziocinante o poteva essere utilizzata per essa. Nel principio della deduzione delle categorie questa filosofia ò autentico idealismo, ed ò questo principio ciò che Fichte ha estratto in forma più pura e rigorosa ed ha chiamato lo spirito della filosofia kantiana. Che le cose in sè – con cui ò espressa oggettivamente solo la vuota forma dell’opposizione, siano state nuovamente ipostatizzate e poste come assoluta oggettività , come le cose del dogmatico -, che le stesse categorie siano state trasformate in parte in settori immobili e morti dell’intelligenza, in parte nei più alti principi, per mezzo dei quali potesse essere distrutta l’espressione in cui viene esposto lo stesso assoluto, come per esempio la sostanza di Spinoza, e così il raziocinare negativo potesse porsi come prima al posto del filosofare, solo, con più pretenziosità , sotto il nome di filosofia critica; tutte queste circostanze stanno tutt’al più nella forma della deduzione delle categorie kantiana, non nel suo principio o nel suo spirito, e se noi non avessimo della filosofia kantiana altra parte che questa, quella trasformazione sarebbe [6] quasi incomprensibile. In quella deduzione delle forme dell’intelletto il principio della speculazione, l’identità  di soggetto e oggetto, ò espressa nel modo più fermo; questa teoria dell’intelletto ò stata tenuta a battesimo dalla ragione. Al contrario quando Kant pone questa stessa identità , come ragione, a oggetto della riflessione filosofica, l’identità  scompare a se stessa; se l’intelletto era stato trattato con la ragione, al contrario la ragione viene trattata con l’intelletto. Qui diviene chiaro a quale grado subalterno era stata compresa l’identità  del soggetto e dell’oggetto. L’identità  del soggetto e dell’oggetto si limita a dodici, o meglio solo a nove pure attività  del pensiero, poichè la modalità  non dà  alcuna determinazione veramente oggettiva, la non identità  del soggetto e dell’oggetto consiste essenzialmente in essa; al di fuori della determinazioni oggettive per mezzo delle categorie rimane un immenso regno empirico della sensibilità  e della percezione, una assoluta aposteriorità  per la quale non ò indicata alcuna apriorità  se non una massima soggettiva del Giudizio riflettente. Ciò vuol dire che la non-identità  viene elevata ad assoluto principio, come non poteva non avvenire dopo che all’idea, il prodotto della ragione, era stata sottratta l’identità , cioò il razionale, ed essa era stata assolutamente contrapposta all’essere; dopo che la ragione, come facoltà  pratica, era stata rappresentata non come assoluta identità , ma nell’opposizione infinita, come facoltà  della pura unità  intellettuale come deve essere pensata dal pensiero finito, cioò dall’intelletto. Da ciò ha origine il risultato contrastante che per l’intelletto non sono affatto presenti determinazioni oggettive assolute, mentre per la ragione sono presenti. Il puro pensiero di sè, l’identità  del soggetto e dell’oggetto, nella forma Io = Io ò il principio del sistema fichtiano, e se ci si attiene immediatamente a questo solo principio, così come nella filosofia kantiana al principio trascendentale che sta a fondamento della deduzione delle categorie, allora si ha, audacemente espresso, l’autentico principio della speculazione. Ma appena la speculazione fuoriesce dal principio che essa pone di se stessa, e si costituisce in sistema, essa abbandona se stessa e il suo principio e non ritorna in esso; essa rimette la ragione all’intelletto e trapassa nella catena delle finitezze della coscienza, dalle quali essa non si ricostituisce più in identità  e in vera infinità . Il principio stesso, l’intuizione trascendentale, ottiene così l’impropria posizione di un opposto contro la molteplicità  da lui dedotta; l’assoluto del sistema si mostra solo nella forma della sua manifestazione, inteso dalla riflessione filosofica, e questa determinatezza che gli ò data mediante la riflessione, dunque la finitezza e l’opposizione, non viene tolta; il principio, il soggetto-oggetto, si dimostra un soggettoggetto [7] soggettivo. In questo modo ciò che da esso viene dedotto ottiene la forma di una condizione della coscienza pura, dell’Io = Io, e la stessa coscienza pura prende la forma di una coscienza condizionata per mezzo di un’infinità  oggettiva: il progresso temporale in infinitum, in cui l’intuizione trascendentale si perde e l’io non si costituisce in autointuizione assoluta. Così Io = Io si trasforma nel principio: Io deve [soll] essere uguale Io. La ragione posta nell’opposizione assoluta, e così depotenziata in intelletto, diviene con ciò principio delle forme che l’assoluto deve darsi e delle loro scienze. Dover distinguere questi due lati del sistema fichtiano – l’uno secondo il quale esso ha posto puramente il concetto della ragione e della speculazione, e quindi reso possibile la filosofia, – l’altro secondo il quale esso ha posto la ragione e la coscienza pura come un’unica cosa, e ha elevato a principio la ragione colta in una figura finita – deve mostrarsi come intima necessità  della cosa stessa. L’occasione esteriore ò data dal bisogno del tempo, e in primo luogo dall’opera di Reinhold, che ò immersa in questo bisogno del tempo, Contributi alla più agevole visione complessiva dello stato della filosofia all’inizio del nuovo secolo, in cui non viene visto nè il lato secondo il quale il sistema di Fichte ò autentica speculazione e dunque filosofia, nè il lato del sistema schellinghiano secondo cui questo si differenzia da quello di Fichte e, nella filosofia della natura, contrappone al soggettoggetto soggettivo il soggettoggetto oggettivo, e espone entrambi unificati in qualcosa di più alto del soggetto. Per quanto riguarda il bisogno del tempo, la filosofia fichtiana ha fatto talmente scalpore ed epoca, che perfino coloro che si dichiarano contro di essa e si sforzano di introdurre propri sistemi speculativi cadono, solo in modo più torbido e impuro, nel principio della filosofia fichtiana e non sono in grado di difendersi da esso. La più prossima manifestazione che si offre di fronte ad un sistema che fa epoca sono i fraintendimenti e il comportamento maldestro dei suoi oppositori. Quando di un sistema si può dire che ha fatto fortuna, allora si ò rivolto ad esso, con una inclinazione istintiva, un più generale bisogno della filosofia, un bisogno che non ha saputo trasformarsi da sè in filosofia, altrimenti si sarebbe dato soddisfazione attraverso la generazione di un sistema. E l’apparenza dell’accettazione passiva poggia sul fatto che ciò che il sistema esprime ò presente nell’intimo, e che ancor più ognuno lo tiene per valido nella sua sfera di scienza o di vita. In questo senso non si può dire del sistema fichtiano che ha fatto fortuna. Per quanto ciò gravi sulle tendenze antifilosofiche [8] dell’epoca, ò altrettanto da mettere in conto che, quanto più l’intelletto e l’utilità  sanno darsi peso e rendere validi obiettivi limitati, tanto più forte ò l’urgere dello spirito migliore, soprattutto nell’ancor giovane mondo libero da pregiudizi. Se pubblicazioni come i Discorsi sulla religione non riguardano immediatamente il bisogno speculativo, tuttavia esse e la loro accettazione, e ancor più la dignità  che la poesia e l’arte cominciano ad ottenere, con sentimento oscuro o consapevole, nella loro vera estensione, indicano il bisogno di una filosofia in cui la natura sia ricompensata per i maltrattamenti che soffre nel sistema kantiano e fichtiano, e la ragione sia posta con la natura non in un accordo tale per cui rinunci a se stessa o debba diventare una sua vuota imitatrice, bensì in accordo in quanto essa stessa prende forma di natura per una propria forza interiore. Per quanto riguarda le riflessioni generali su bisogno, presupposto, principi ecc. della filosofia con cui comincia questo scritto, esse hanno il difetto di essere riflessioni generali, ed hanno la loro ragione nel fatto che l’ingresso della filosofia viene ancor sempre avvolto e ricoperto con tali forme, come presupposto, principi ecc., e perciò ò in un certo grado necessario avere a che fare con loro, finchè il discorso non verta finalmente su altro che la stessa filosofia. Alcuni dei più interessanti tra questi oggetti otterranno più avanti una più ampia trattazione. Jena, luglio 1801 DIVERSE FORME CHE SI PRESENTANO [9] NEL FILOSOFARE ATTUALE VISIONE STORICA DI SISTEMI FILOSOFICI Un’epoca che ha alle spalle come un passato una tale quantità  di sistemi filosofici sembra dover pervenire a quella indifferenza che la vita consegue dopo che si ò cimentata in tutte le forme. Se l’individualità  ossificata non rischia più se stessa nella vita, il desiderio di totalità  si manifesta ancora come desiderio di completezza delle conoscenze: essa cerca di procurarsi, per mezzo della molteplicità  di ciò che ha, l’apparenza di ciò che non ò. Trasformando la scienza in una conoscenza l’individualità  le ha negato la vivente partecipazione che la scienza esige, ed ha mantenuto la scienza lontana, ed in mera forma oggettiva, e se stessa indisturbata nella propria caparbia particolarità  contro tutte le pretese di elevarsi all’universalità . Per questo tipo di indifferenza, se riesce a trarsi fuori da sè fino alla curiosità , non c’ò nulla di più urgente che dare a una filosofia di nuova formazione un nome, ed esprimere, come Adamo ha espresso il suo dominio sugli animali dando loro un nome, il proprio dominio su una filosofia attraverso l’escogitazione di un nome. In questo modo tale filosofia ò trasposta nel rango delle conoscenze; le conoscenze riguardano oggetti estranei, nel sapere di una filosofia, che non ò mai stato altro che una conoscenza, la totalità  dell’interiorità  non si ò mossa e l’indifferenza ha perfettamente affermato la propria libertà . Nessun sistema filosofico può sottrarsi alla possibilità  di un simile recepimento: ognuno ò capace di essere trattato storicamente. Come ogni figura vivente appartiene nel contempo al fenomeno, così una filosofia come fenomeno si ò consegnata a quella potenza che può trasformare il sistema in una morta opinione e, fin dall’inizio, in un passato. Lo spirito vivente che abita una filosofia esige, per svelarsi, di essere generato da una spirito affine; egli sfiora appena, come un fenomeno estraneo, l’atteggiamento storico che parte da un qualunque interesse verso la conoscenza di opinioni, e non manifesta il suo intimo; può restargli indifferente dover servire ad ingrossare la restante collezione di mummie ed il generale cumulo di casualità , poichè egli stesso ò sfuggito tra le mani al curioso raccogliere conoscenze. Quest’ultimo rimane fermo al suo punto di vista indifferente verso la verità , [10] e mantiene la sua autonomia, sia che accetti opinioni, sia che le rigetti, o non si decida; esso non può dare ai sistemi filosofici nessun altro rapporto a se stesso se non quello secondo cui sono opinioni, e tali accidenti, come le opinioni, non gli possono nuocere; non ha riconosciuto che la verità  esiste. Tuttavia la storia della filosofia ottiene, quando l’impulso ad estendere la scienza si dedica ad essa, un aspetto più utile, in quanto cioò essa deve servire secondo Reinhold a penetrare nello spirito della filosofia più profondamente di quanto sia accaduto finora e a condurre più avanti i modi di vedere peculiari dei predecessori sull’approfondimento della realtà  della conoscenza umana attraverso nuovi peculiari modi di vedere; solo attraverso una simile conoscenza dei tentativi preliminari finora compiuti di assolvere il compito della filosofia, il tentativo potrebbe infine realmente riuscire, ammesso che questa riuscita sia concessa all’umanità . Si vede che alla base dello scopo di una simile ricerca sta un’immagine della filosofia secondo la quale essa sarebbe una specie di tecnica artigianale che può essere migliorata per mezzo di abilità  sempre nuovamente inventate; ogni nuova invenzione presuppone la conoscenza delle abilità  già  utilizzate e dei loro scopi, ma dopo tutti i miglioramenti finora avvenuti resta ancora sempre il compito principale, che dopo tutto Reinhold sembra raffigurarsi come se si dovesse trovare un’ultima abilità  universalmente valida per mezzo della quale l’opera si compia da sola per chiunque desideri farsene conoscitore. Se si avesse a che fare con una simile invenzione, e la scienza fosse una morta opera di una destrezza estranea, allora le converrebbe certamente quella perfettibilità  di cui sono capaci le arti meccaniche, e in ogni tempo i sistemi filosofici precedenti non sarebbero da considerare come nient’altro che esercizi preparatori di grandi menti. Ma se l’assoluto, come la ragione, sua manifestazione, ò eternamente uno e lo stesso, come infatti ò, allora ogni ragione che si ò rivolta a se stessa e si ò riconosciuta ha prodotto una vera filosofia e ha risolto il proprio compito, il quale, come la sua soluzione, ò in ogni tempo lo stesso. Poichè nella filosofia la ragione, che conosce se stessa, ha a che fare solo con sè, sta dunque anche in lei stessa tutta la sua opera come sua attività , e riguardo all’intima essenza della filosofia non si danno nè predecessori nè successori. Come non si può trattare di costanti miglioramenti, altrettanto poco il discorso può vertere su modi di vedere peculiari della filosofia; come potrebbe il razionale essere peculiare? Ciò che ò peculiare di una filosofia, proprio per il fatto che ò peculiare, può appartenere solo alla forma del sistema e non all’essenza della filosofia. Se una peculiarità  costituisse davvero l’essenza di un sistema, allora non ci sarebbe filosofia; e quando un sistema dichiara da sè una [11] peculiarità  come la sua essenza, allora potrebbe nonostante ciò essere scaturito da autentica speculazione, che ò fallita solo nel tentativo di esprimersi nella forma di una scienza. Chi ò prigioniero di una peculiarità , non vede negli altri altro che peculiarità . Se nell’essenza della filosofia viene concesso un posto a opinioni particolari, e se Reinhold ritiene una filosofia peculiare ciò a cui si ò rivolto nei tempi più recenti, allora ò possibile ritenere con Reinhold tutti i modi finora datisi in generale di rappresentare e risolvere il compito della filosofia come peculiarità  ed esercizi preparatori, attraverso i quali tuttavia – poichè, sebbene scorgiamo le coste delle Isole Felici della filosofia, alle quali aneliamo, ricoperte solo dei relitti di navi naufragate, e nessun vascello in salvo nelle loro baie, non possiamo tuttavia rinunciare alla convinzione teologica – viene causato, preparandolo, il tentativo destinato a riuscire. Non altrimenti si deve spiegare a partire dalla peculiarità  della forma in cui si ò espressa la filosofia fichtiana anche che Fichte potesse dire di Spinoza che Spinoza non può aver creduto alla propria filosofia, non può averne avuto la convinzione completa, intima e vivente; e degli antichi che sarebbe perfino dubbio se essi abbiano pensato consapevolmente il compito della filosofia. Se qui la peculiarità  della forma del proprio sistema e la sua robusta costituzione complessiva producono una simile asserzione, la peculiarità  della filosofia reinholdiana consiste invece nella tendenza all’approfondimento e alla fondazione, che si dà  molto da fare con opinioni filosofiche particolari e con uno sforzo storico. L’amore e la fede per la verità  si sono innalzati a una tale altezza pura e vertiginosa che egli, affinchè il passo dentro il tempio sia giustamente approfondito e fondato, erige un ampio vestibolo in cui essi, per risparmiarsi tale passo, si danno da fare tanto a lungo con l’analizzare e il metodizzare e il narrare, finchè si convincono, a consolazione della loro incapacità  per la filosofia, che i passi arditi degli altri non sono stati altro che esercizi preparatori e smarrimenti spirituali. L’essenza della filosofia ò propriamente priva di fondamento per le peculiarità , e per giungere alla filosofia ò necessario, se il corpo esprime la somma delle peculiarità , precipitarvisi dentro à  corps perdu; infatti la ragione, che trova la coscienza impigliata in particolarità , diviene speculazione filosofica solo elevandosi a se stessa e affidandosi unicamente a se stessa e all’assoluto, che diviene insieme suo oggetto; ciò facendo essa non rischia altro che finitezze della coscienza, e per superarle, e costruire l’assoluto nella coscienza, si eleva alla speculazione ed ha colto [12] nella mancanza di fondamento delle limitazioni e delle peculiarità  il suo proprio fondamento in se stessa. Poichè la speculazione ò l’attività  dell’unica e universale ragione su se stessa, allora essa, se ha liberato il proprio punto di vista dalle casualità  e limitazioni, deve, invece di vedere nei sistemi filosofici di diverse epoche e menti solo diversi modi e opinioni meramente peculiari, trovare attraverso le forme particolari se stessa, – e altrimenti trovare una mera molteplicità  di concetti e opinioni intellettuali, e una simile molteplicità  non ò filosofia. Quanto ò veramente peculiare in una filosofia ò l’individualità  interessante, in cui la ragione si ò organizzata una figura per mezzo dei materiali di costruzione di una determinata epoca; la ragione speculativa determinata trova in ciò spirito del suo spirito, carne della sua carne, vi si intuisce come una e medesima, e come un’altra essenza vivente. Ogni filosofia ò in sè compiuta ed ha, come un’autentica opera d’arte, in sè la totalità . Quanto poco le opere di Apelle e Sofocle, se Raffaello e Shakespeare le avessero conosciute, sarebbero potute apparire loro come meri esercizi preparatori per loro stessi, e non invece come una forza affine dello spirito, altrettanto poco la ragione può scorgere nelle sue figure precedenti solo utili esercizi preparatori di se stessa; e se Virgilio ha considerato Omero un simile esercizio preparatorio per se stesso e la sua epoca più raffinata, la sua opera ò proprio perciò rimasta un esercizio di imitazione. IL BISOGNO DELLA FILOSOFIA Se consideriamo più da vicino la forma particolare che una filosofia assume, allora la vediamo nascere da un lato dalla vivente originalità  dello spirito, che ha in lei ristabilito e autonomamente configurato per mezzo di sè la lacerata armonia, dall’altro dalla forma determinata che assume la scissione da cui il sistema scaturisce. La scissione ò la sorgente del bisogno della filosofia, e, in quanto cultura dell’epoca, il lato non libero e dato della figura. Nella cultura ciò che ò manifestazione dell’assoluto si ò isolato dall’assoluto e fissato come qualcosa di autonomo. Ma allo stesso tempo la manifestazione non può rinnegare la sua origine e deve prefiggersi di costituire in una totalità  la molteplicità  delle sue limitazioni; la forza del limitare, l’intelletto, intreccia al suo edifico, che pone tra gli uomini e l’assoluto, tutto ciò che per [13] l’uomo ha valore ed ò sacro, lo consolida per mezzo di tutte le potenze della natura e dei talenti e lo estende nell’infinità ; in esso si trova la totalità  completa delle limitazioni, ma non l’assoluto stesso; perduto nelle parti, l’assoluto spinge l’intelletto al suo infinito sviluppo della molteplicità , ma questi, mentre anela ad estendersi fino all’assoluto, produce infinitamente solo se stesso, e si prende gioco di sè. La ragione raggiunge l’assoluto solo uscendo da questa molteplice essenza parziale; quanto più solido e splendido ò l’edificio dell’intelletto, tanto più inquieto diviene l’anelito della vita, che ò vi impigliata come parte, ad abbandonarlo per porsi nella libertà ; non appena essa si allontana come ragione anche la totalità  delle limitazioni ò annientata, in questo annientare posta in relazione con l’assoluto e con ciò insieme posta e compresa come mero fenomeno. La scissione tra l’assoluto e la totalità  delle limitazioni ò scomparsa. L’intelletto imita la ragione nel porre assoluto, e per mezzo di questa forma si dà  l’apparenza della ragione, nonostante gli elementi posti siano in sè contrapposti e dunque finiti; esso lo fa con tanto maggiore verosimiglianza quando trasforma e fissa in un prodotto il negare razionale. L’infinito, in quanto viene opposto al finito, ò un tale razionale posto dall’intelletto; esso esprime per sè come razionale solo la negazione del finito; l’intelletto fissandolo lo oppone assolutamente al finito, e la riflessione, che si era innalzata fino alla ragione togliendo il finito, si ò di nuovo abbassata all’intelletto fissando il fare della ragione nell’opposizione, inoltre avanza la pretesa di essere razionale anche in questa ricaduta. La cultura delle diverse epoche ha configurato tali contrapposti, che dovrebbero valere come prodotti della ragione ed assoluti, in forme diverse, e l’intelletto si ò affaticato in essi. Gli opposti, che in genere furono importanti sotto la forma di spirito e materia, anima e corpo, fede e intelletto, libertà  e necessità  e così via, ed in vari altri modi in sfere più limitate, e attirarono a sè tutto il peso degli interessi umani, nel progresso della cultura sono trapassati nella forma dell’opposizione di ragione e sensibilità , intelligenza e natura e, per il concetto generale, di assoluta soggettività  e assoluta oggettività . Togliere tali opposizioni divenute fisse ò l’unico interesse della ragione; questo suo interesse non significa che essa si opponga in generale all’opposizione e alla limitazione, perchè la scissione necessaria ò Un fattore della vita, che si forma opponendo eternamente, e la totalità , nella più alta pienezza di vita, ò possibile solo per mezzo della ricostituzione a partire dalla più alta [14] divisione. Al contrario la ragione si oppone all’assoluto fissare la scissione da parte dell’intelletto, e tanto più, se gli assolutamente opposti sono scaturiti dalla ragione stessa. Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e gli opposti hanno perduto il loro vivente rapporto ed azione reciproca ed hanno acquisito autonomia, allora sorge il bisogno della filosofia; per tale riguardo esso ò una casualità , ma sotto la scissione data esso ò il tentativo necessario di togliere l’opposizione della soggettività  e dell’oggettività  divenute fisse e di comprendere come un divenire l’essere-divenuto del mondo intellettuale e reale e come un produrre il suo essere in quanto prodotto. Nell’attività  infinita del divenire e del produrre la ragione ha unito ciò che era separato ed ha abbassato la scissione assoluta ad una scissione relativa, che la ragione condiziona per mezzo dell’identità  originaria. Quando, dove ed in quale forma compaiono tali autoriproduzioni della ragione come filosofia, ò casuale. Questa casualità  deve essere compresa a partire dal fatto che l’assoluto si pone come una totalità  oggettiva; la casualità  ò una casualità  nel tempo in quanto l’oggettività  dell’assoluto ò intuita come un progredire nel tempo; in quanto invece appare come una contiguità  nello spazio, la scissione ò climatica; nella forma della riflessione fattasi fissa, come un mondo di essenza pensante e pensata in opposizione a un mondo di realtà , questa scissione cade nel nord -ovest. Quanto più la cultura progredisce, quanto più molteplice diviene lo sviluppo delle manifestazioni della vita, nelle quali si può intrecciare la scissione, tanto maggiore diviene la potenza della scissione, tanto più fissa la sua sacralità  climatica, tanto più estranei alla totalità  della cultura e privi di significato gli sforzi della vita di rigenerarsi nell’armonia. Tali tentativi, pochi in rapporto alla totalità , che hanno avuto luogo contro la cultura moderna, e le belle creazioni più significative del passato o della cultura straniera hanno potuto risvegliare solo quell’attenzione che resta possibile quando non può venir inteso il più profondo e serio rapporto all’arte vivente; con l’allontanamento da lei dell’intero sistema delle relazioni di vita ò perduto il concetto della sua connessione che tutto comprende, ed ò trapassato nel concetto o della superstizione o di un gioco di intrattenimento. La somma perfezione estetica, come si forma in una religione determinata, in cui l’uomo si eleva sopra ogni scissione e vede svanire nel regno della grazia la libertà  del soggetto e la necessità  dell’oggetto, ha potuto aver vigore solo fino ad un certo grado della cultura e nella barbarie universale o plebea. La cultura nel suo [15] progredire si ò scissa da tale perfezione estetica, e la ha posta accanto a sè, o si ò posta accanto a lei, e poichè l’intelletto ò divenuto sicuro di sè sono prosperate l’una accanto all’altra fino ad una certa quiete, grazie al fatto che si dividono in territori totalmente separati per ognuno dei quali non ha alcun significato ciò che accade nell’altro. Ma l’intelletto può anche essere attaccato dalla ragione immediatamente sul suo territorio, e i tentativi di annientare la scissione, e con ciò la sua assolutezza, per mezzo della stessa riflessione possono essere meglio compresi; per questo la scissione, che si sentiva attaccata, si ò rivolta così a lungo con odio e collera contro la ragione, finchè il regno dell’intelletto si ò lanciato in alto sino a una potenza tale che può ritenersi al sicuro dalla ragione. Tuttavia come si usa dire della virtù che il miglior testimone della sua realtà  ò l’apparenza che l’ipocrisia prende in prestito da lei, così anche l’intelletto non può difendersi dalla ragione, e cerca di garantirsi per mezzo di un’apparenza di ragione, con cui maschera le sue particolarità , contro il sentimento dell’interna vacuità  e contro il segreto timore da cui ò tormentata la limitatezza. Il disprezzo verso la ragione si mostra nel modo più forte non nel fatto che essa viene liberamente disdegnata e ingiuriata, ma nel fatto che la limitatezza si gloria di maestria nella filosofia e di amicizia con lei. La filosofia deve respingere l’amicizia con simili falsi tentativi che si gloriano in modo disonesto dell’annientamento delle particolarità , muovono dalla limitazione e applicano la filosofia come un mezzo per salvare e mettere al sicuro tali limitazioni. Nella lotta dell’intelletto con la ragione, quello guadagna una forza solo in quanto questa rinuncia a se stessa; il buon esito della lotta dipende dunque da lei stessa e dell’autenticità  del bisogno di ricomposizione della totalità  da cui procede. Il bisogno della filosofia può essere espresso come il suo presupposto, se alla filosofia, che comincia con se stessa, deve essere fatta una specie di vestibolo; e nei nostri tempi si ò molto parlato di un presupposto assoluto. Ciò che viene chiamato presupposto della filosofia non ò altro che il bisogno sopra espresso. Poichè il bisogno così ò posto per la riflessione, ò necessario che ci siano due presupposti. Uno ò l’assoluto stesso; esso ò la meta che viene cercata; esso c’ò già , come potrebbe altrimenti venir cercato? La ragione lo produce solo nel liberare la coscienza dalle limitazioni, questo togliere le limitazioni ò condizionato dalla presupposta illimitatezza. L’altro presupposto sarebbe l’esser-uscita della coscienza dalla totalità , la scissione in essere e non essere, in concetto ed essere, in finitezza e infinitezza. Per il punto di vista della scissione la sintesi assoluta ò un al di là , l’indeterminato e il privo di forma opposto alle sue determinatezze; [16] l’assoluto ò la notte, e la luce ò più giovane di lei, e la differenza tra di loro, così come l’uscire della luce dalla notte, ò una differenza assoluta; – il nulla ò il primo, da cui ò proceduto tutto l’essere, tutta la molteplicità  del finito. – Ma il compito della filosofia consiste nell’unire questi presupposti, nel porre l’essere nel non essere – come divenire, la scissione nell’assoluto – come sua manifestazione, il finito nell’infinito – come vita. Tuttavia ò maldestro esprimere il bisogno della filosofia come un suo presupposto, perchè così il bisogno ottiene una forma della riflessione; questa forma della riflessione si manifesta come principi contraddittori, di cui si parlerà  sotto; si può pretendere dai principi che si giustifichino, e la giustificazione di questi principi come presupposti non dovrebbe essere la filosofia stessa, e così l’approfondire e il fondare precedono e si dipartono dalla filosofia. LA RIFLESSIONE COME STRUMENTO DEL FILOSOFARE La forma che il bisogno della filosofia otterrebbe se dovesse essere espresso come presupposto, dà  il passaggio dal bisogno della filosofia allo strumento del filosofare, alla riflessione come ragione. L’assoluto deve essere costruito per la coscienza, ò il compito della filosofia; poichè tuttavia il produrre, come il prodotto, della riflessione sono solo limitazioni, questa ò una contraddizione. L’assoluto deve essere riflesso, posto, ma con ciò esso non ò stato posto, ma al contrario ò stato tolto, perchè nell’essere posto fu limitato. La mediazione di questa contraddizione ò la riflessione filosofica. Bisogna innanzitutto mostrare in che misura la riflessione ò capace di accogliere l’assoluto, e in che misura comporta nella sua occupazione, come speculazione, la necessità  e la possibilità  di essere sintetizzata con l’intuizione assoluta e di essere altrettanto compiuta per sè, soggettivamente, quanto deve esserlo il suo prodotto, l’assoluto costruito nella coscienza come insieme cosciente e incosciente. La riflessione isolata, come porre di contrapposti, sarebbe un togliere l’assoluto, ò la facoltà  dell’essere e della limitazione; ma la riflessione [17] ha, come ragione, rapporto all’assoluto, ed ò ragione solo attraverso questo rapporto. La riflessione annienta così se stessa e tutto l’essere e il limitato ponendolo in rapporto all’assoluto; insieme tuttavia il limitato ha un sussistere proprio per mezzo del suo rapporto all’assoluto. La ragione si presenta come forza dell’assoluto negativo, quindi come assoluto negare, e insieme come forza del porre l’opposta totalità  oggettiva e soggettiva. Per una volta essa eleva l’intelletto sopra se stesso, lo spinge ad un tutto secondo il suo modo, lo seduce a produrre una totalità  oggettiva. Ogni essere ò, perchè ò posto, un opposto, condizionato e condizionante; l’intelletto completa queste sue limitazioni mediante il porre le limitazioni opposte, come condizioni; queste abbisognano dello stesso compimento ed il suo compito si amplia all’infinito. La riflessione qui sembra solo intellettuale, ma questa guida alla totalità  della necessità  ò la partecipazione e la segreta efficacia della ragione; in quanto essa rende l’intelletto illimitato, esso ed il suo mondo oggettivo trovano il tramonto nella ricchezza dell’infinito. Poichè ogni essere che l’intelletto produce ò un determinato, ed il determinato ha un indeterminato davanti a sè e dietro di sè, e la molteplicità  dell’essere giace, incerta, tra due notti, essa poggia sul nulla, poichè per l’intelletto l’indeterminato ò nulla e finisce nel nulla. La pervicacia dell’intelletto riesce a lasciar sussistere non unificate l’una accanto all’altra le opposizioni del determinato e dell’indeterminato, della finitezza e dell’infinitezza assegnatagli, e a tener fermo l’essere di contro al non essere a lui altrettanto necessario. Poichè la sua essenza tende ad una generale determinazione, ma il suo determinato ò immediatamente limitato per mezzo di un indeterminato, il suo porre e determinare non esaurisce mai il compito, nello stesso porre e determinare già  avvenuto si trova un non-porre e un indeterminato, e dunque sempre di nuovo il compito stesso di porre e determinare. – Se l’intelletto fissa questi opposti, il finito e l’infinito, in modo che entrambi devono sussistere insieme come l’uno opposto all’altro, allora egli si distrugge, perchè l’opposizione di finito e infinito ha il significato che finchè uno di essi ò posto, l’altro ò tolto. In quanto la ragione riconosce ciò essa ha tolto lo stesso intelletto, il suo porre le appare come un non porre, i suoi prodotti come negazioni. Questo annientare, o il puro porre senza opposti della ragione, sarebbe, se essa viene contrapposta all’infinità  oggettiva, l’infinità  soggettiva, il regno della libertà  opposto al mondo oggettivo; poichè tuttavia tale regno in questa forma ò esso stesso opposto e condizionato, la ragione deve dunque, per togliere assolutamente l’opposizione, annientare anch’esso in quanto autonomo. [18] La ragione nell’unificarli li distrugge entrambi, poichè essi sono solo in quanto non sono unificati. In questa unificazione, nel contempo, entrambi sussistono, poichè l’opposto ò così posto in rapporto con l’assoluto; tuttavia esso non sussiste per sè, ma solo nella misura in cui ò posto nell’assoluto, cioò come identità . Il limitato, in quanto appartiene ad una delle due totalità  opposte e dunque relative, ò o necessario o libero; in quanto esso appartiene alla sintesi di entrambe la sua limitatezza ha termine, ò insieme libero e necessario, cosciente e incosciente. Questa cosciente identità  del finito e dell’infinitezza, l’unificazione nella coscienza dei due mondi, il sensibile e l’intelligibile, il necessario e il libero, ò il sapere. La riflessione, come facoltà  del finito, e l’infinito ad essa opposto sono sintetizzati nella ragione, la cui infinità  comprende in sè il finito. Fino a che la riflessione fa di se stessa il proprio oggetto [Gegenstand], la sua legge più alta, che le ò assegnata dalla ragione e per mezzo della quale essa diviene ragione, ò il suo annientamento. Essa sussiste, come tutto, solo nell’assoluto, ma come riflessione ò opposta ad esso; quindi per sussistere deve darsi la legge dell’autodistruzione. La legge immanente, per mezzo della quale essa si costituiva per forza propria come assoluta, sarebbe la legge della contraddizione, cioò che sia e rimanga il suo esser-posta; per mezzo di essa la riflessione fissava i suoi prodotti come assolutamente opposti all’assoluto, si dava come legge eterna di rimanere intelletto e di non diventare ragione, e di restar ferma alla sua opera che in opposizione all’assoluto ò nulla, – e in quanto limitata ò opposta all’assoluto. Come la ragione diviene qualcosa di intellettuale e la sua infinitezza diviene soggettiva se essa ò posta in una opposizione, così la forma che esprime il riflettere come pensiero ò capace di questa ambiguità  e di questo abuso. Se il pensare non vien posto come l’attività  assoluta della ragione stessa, per la quale non c’ò assolutamente alcuna opposizione, ma al contrario ò considerato solo un più puro riflettere, cioò un pensiero tale che in esso viene solo fatta astrazione dall’opposizione, allora un tale pensiero astraente non può mai uscire dall’intelletto per giungere alla logica che deve comprendere in sè la ragione, e ancor meno alla filosofia. L’essenza o l’intimo carattere del pensare in quanto pensare ò posta da Reinhold come l’infinita ripetibilità  dell’uno e medesimo come uno e medesimo, nell’uno e medesimo e per mezzo dell’uno e medesimo, o come identità ; si potrebbe essere indotti da questo apparente carattere di una identità  a vedere in questo pensiero la ragione, ma dalla sua opposizione a) contro un’applicazione del pensare, b) contro un contenuto assoluto, diviene chiaro che questo pensiero non ò l’assoluta identità , l’identità  del soggetto e dell’oggetto che li toglie entrambi nella loro opposizione e li comprende in sè, ma ò al contrario una identità  pura, sorta mediante [19] l’astrazione e condizionata dall’opposizione, l’astratto concetto intellettuale dell’unità , di uno degli opposti fissati. Reinhold vede l’errore della filosofia finora datasi nell’abitudine così ampiamente diffusa e così profondamente radicata tra i filosofi del nostro tempo di rappresentarsi il pensare in generale e nelle sue applicazioni come un pensare meramente soggettivo. Se ci fosse vera serietà  a proposito dell’identità  e della non soggettività  di questo pensare, allora Reinhold non potrebbe fare alcuna differenza tra pensare e applicazione del pensare; se il pensare ò identità  vera, e non soggettiva, dove si dovrebbe ancora prendere qualcosa di diverso dal pensiero, una applicazione, per non parlare poi del contenuto che viene postulato allo scopo dell’applicazione? Se il metodo analitico tratta un’attività , allora essa deve apparirgli sintetica, perchè deve essere analizzata; e mediante l’analizzare sorgono ormai i membri dell’unità  e di una molteplicità  ad essa contrapposta. Ciò che l’analisi rappresenta come unità  viene detto soggettivo, e il pensare viene caratterizzato come una tale unità  contrapposta al molteplice, come una identità  astratta; esso ò così qualcosa di puramente limitato e la sua attività  un applicare conforme alla legge e secondo regole su una materia già  presente, che non può penetrare fino al sapere. Solo nella misura in cui la riflessione ha rapporto all’assoluto essa ò ragione e la sua azione un sapere, tuttavia attraverso questo rapporto la sua opera svanisce e solo il rapporto sussiste ed ò l’unica realtà  della conoscenza; quindi non c’ò altra verità  della riflessione isolata, del puro pensare, che quella del loro annientarsi. Ma l’assoluto, poichè nel filosofare esso ò prodotto dalla riflessione per la coscienza, diviene così una totalità  oggettiva, un tutto di sapere, una organizzazione di conoscenze; in questa organizzazione ogni parte ò insieme il tutto, poichè sussiste come rapporto all’assoluto: come parte, che ne ha altre fuori di sè, ò un limitato ed ò solo mediante le altre; isolata come limitazione ò manchevole, ha senso e significato solo attraverso la sua connessione col tutto. Non si può dunque parlare di concetti singoli per sè, di conoscenze singole, come di un sapere. Può darsi una quantità  di singole conoscenze empiriche; come sapere dell’esperienza esse mostrano la loro giustificazione nell’esperienza, cioò nell’identità  del concetto e dell’essere, del soggetto e dell’oggetto; proprio perciò esse non sono un sapere scientifico, poichè hanno questa giustificazione solo in un’identità  limitata, relativa e nè si legittimano come parti necessarie di un tutto organizzato della conoscenza, nè ò riconosciuta in esse, mediante la speculazione, l’assoluta identità , il rapporto all’assoluto. RAPPORTO DELLA SPECULAZIONE CON IL BUON SENSO [20] Anche il razionale, come sa il cosiddetto buon senso, ò altrettanto costituito di singolarità  tratte dall’assoluto nella coscienza, punti luminosi che si innalzano per sè fuori dalla notte della totalità , per mezzo dei quali l’uomo si conduce razionalmente attraverso la vita; sono per lui giusti punti di vista da cui egli prende le mosse e a cui ritorna. Ma in realtà  l’uomo ha anche una tale fiducia nella loro verità  perchè l’assoluto lo accompagna in esse con un sentimento, e solo questo dà  loro significato. Tali verità  del senso comune prese per sè, isolate in modo meramente intellettuale, come conoscenze in generale, appaiono erronee e mezze verità , ed il buon senso può venir confuso dalla riflessione; non appena si impelaga in essa, ciò che ora egli esprime come principio della riflessione avanza la pretesa di valere per sè come un sapere, come conoscenza, ed egli ha rinunciato alla sua forza, quella di sostenere le sue enunciazioni mediante l’oscura totalità , presente come sentimento, e di opporsi solo con esso all’inquieta riflessione. Certamente il buon senso si esprime per la riflessione, ma i suoi enunciati non contengono anche per la coscienza il rapporto alla totalità  assoluta, questo al contrario rimane nell’interno ed inespresso; perciò la speculazione ben comprende il buon senso, ma il buon senso non comprende il fare della speculazione. La speculazione riconosce come realtà  della conoscenza solo l’essere della conoscenza nella totalità , tutto ciò che ò determinato ha per lei realtà  e verità  solo nel rapporto riconosciuto con l’assoluto; per questo essa riconosce l’assoluto anche in ciò che sta a base degli enunciati del buon senso, ma poichè per lei la conoscenza ha realtà  solo in quanto ò nell’assoluto, per lei ò annientato il conosciuto e il saputo così come ò espresso per la riflessione ed ha, proprio per questo, una forma determinata. Le identità  relative del buon senso, che avanzano la pretesa dell’assolutezza così come appaiono, nella loro forma limitata, per la riflessione filosofica divengono casualità . Il buon senso non può comprendere come ciò che per lui ò immediatamente certo per la filosofia sia nel contempo un nulla, perchè egli nelle sue verità  immediate sente solo il loro rapporto con l’assoluto, ma non separa questo sentimento dalla loro manifestazione, e proprio come tale manifestazione esse dovrebbero avere sussistenza e essere assoluto, ma per la speculazione scompaiono. [21] Ma il buon senso non solo non può comprendere la speculazione, ma anzi deve anche odiarla, ove ne faccia esperienza, e, se non si trova nella piena indifferenza della sicurezza, detestarla e perseguitarla. Infatti come per il buon senso l’identità  dell’essenza e della contingenza dei suoi enunciati ò assoluta ed egli non ò in grado di separare i limiti del fenomeno dall’assoluto, allo stesso modo anche ciò che egli separa nella sua coscienza ò assolutamente opposto, ed egli non può unificare nella coscienza ciò che riconosce come limitato con l’illimitato; essi sono certamente identici in lui, ma questa identità  rimane qualcosa di interiore, un sentimento, qualcosa di non conosciuto ed inespresso. Come egli ricorda il limitato, e questo ò posto nella coscienza, così per la coscienza l’illimitato ò assolutamente opposto al limitato. Questo rapporto o relazione della limitatezza con l’assoluto, secondo il quale nella coscienza ò presente solo l’opposizione, mentre circa l’identità  c’ò solo una completa incoscienza, si chiama fede. La fede non esprime il sintetico del sentimento o dell’intuizione, essa ò un rapporto della riflessione all’assoluto, e la riflessione in questo rapporto ò certo ragione e annienta certamente se stessa come un separante e separato, come anche i suoi prodotti – una coscienza individuale -, eppure ha mantenuto ancora la forma della separazione. L’immediata certezza della fede, di cui tanto si ò parlato come dell’ultimo e del sommo della coscienza, non ò altro che l’identità  stessa, la ragione, che tuttavia non si riconosce, ma ò accompagnata dalla coscienza dell’opposizione. Ma la speculazione eleva alla coscienza l’identità , inconsapevole per il buon senso, o costruisce in identità  ciò che nella coscienza del senso comune ò necessariamente opposto, e questa unione di ciò che per la fede ò diviso ò per lui un orrore. Poichè il sacro e il divino sussiste nella sua coscienza solo come oggetto, esso vede nell’opposizione tolta, nell’identità  per la coscienza, solo distruzione del divino. In particolare tuttavia il buon senso non deve scorgere null’altro che distruzione in quei sistemi filosofici che soddisfano l’esigenza dell’identità  consapevole in un superamento della scissione tale che uno degli opposti, in particolare se esso ò già  fissato dalla cultura del tempo, ò elevato all’assoluto e l’altro ò annientato. Qui la speculazione come filosofia ha certamente tolto l’opposizione, ma come sistema ha elevato all’assoluto un limitato secondo la sua forma abitualmente nota. L’unico aspetto che qui ò in questione, e cioò quello speculativo, non ò affatto presente per il senso comune; sotto questo aspetto speculativo il limitato ò qualcosa di completamente diverso da quel che appare al senso comune; [22] proprio perchè ò stato elevato all’assoluto esso non ò più questo limitato. La materia del materialista, o l’io dell’idealista, sono – non più quella la morta materia che ha una vita come opposizione e formazione; – non più questo la coscienza empirica, che come limitata deve porre fuori di sè un infinito. Spetta alla filosofia la questione se il sistema ha in verità  purificato da ogni finitezza quel fenomeno finito che innalzò all’infinito, se la speculazione, nel suo massimo allontanamento dal senso comune e dal suo fissare opposti, non ò soggiaciuta al destino della sua epoca di aver posto assolutamente una forma dell’assoluto, e quindi un che di essenzialmente opposto. Se la speculazione ha realmente liberato il finito, che ha reso infinito, da tutte le forme della manifestazione, allora ò innanzitutto il nome ciò contro cui cozza il senso comune, se non ha altrimenti notizia dell’agire speculativo. Se [sono] i finiti che la speculazione di fatto innalza all’infinito e con ciò annienta – e materia, io, in quanto devono comprendere la totalità , non sono più io, non più materia – tuttavia manca ancora l’ultimo atto della riflessione filosofica, e precisamente la coscienza del loro annientamento; e se anche l’assoluto del sistema, malgrado questo annientamento di fatto avvenuto, ha conservato una forma determinata, almeno non ò da disconoscere l’autentica tendenza speculativa, di cui tuttavia il senso comune non capisce nulla. Non scorgendo affatto il principio filosofico, il togliere la scissione, ma solo il principio sistematico, egli trova uno degli opposti elevato all’assoluto e l’altro annientato, dunque c’era dalla sua parte ancora un vantaggio a riguardo della scissione: nel senso comune come nel sistema ò presente una opposizione assoluta, eppure egli aveva proprio la completezza dell’opposizione, e si irrita doppiamente. – Del resto a un simile sistema filosofico, a cui inerisce la manchevolezza di innalzare all’assoluto qualcosa di ancora da un lato o dall’altro opposto, viene, oltre al suo aspetto filosofico, ancora un vantaggio e un guadagno, di cui il senso comune non solo non comprende nulla, ma che anzi esso deve anche detestare, – il vantaggio di aver abbattuto d’un colpo, con l’innalzamento di un finito a principio infinito, tutta la massa delle finitezze che dipendono dal principio opposto, – il guadagno, riguardo alla cultura, di aver reso la scissione tanto più dura, e di aver tanto rafforzato il bisogno dell’unificazione nella totalità . La testardaggine del buon senso di tener saldo se stesso nella forza della sua inerzia, l’incosciente nella sua originaria pesantezza ed opposizione [23] contro la coscienza, la materia contro la differenza, che vi porta la luce solo per ricostruirla a sintesi in una più alta potenza, – tale testardaggine richiede sotto i climi settentrionali certamente un più lungo periodo di tempo per essere provvisoriamente dominata a tal punto che la materia atomistica stessa diventi più molteplice, che l’inerzia venga trasposta in un movimento sul suo terreno innanzitutto mediante un più molteplice combinarsi e scomporsi e mediante la maggiore quantità  di atomi fissi che viene così generata, in modo che il buon senso si confonda sempre più nel suo agire e sapere intellettuale, sinchè non si renda capace di sopportare il superamento di questa confusione e dell’opposizione stessa. Se per il buon senso appare solo l’aspetto annientatore della speculazione, questo annientare tuttavia non gli appare in tutta la sua estensione, e se egli potesse comprendere tale estensione non considererebbe la speculazione la sua avversaria; poichè la speculazione nella sua sintesi più alta del conscio e dell’inconscio esige anche l’annientamento della coscienza stessa, e la ragione affonda così nel suo proprio abisso il suo riflettere l’assoluta identità , e il suo sapere, e se stessa, e in questa notte della mera riflessione e dell’intelletto raziocinante, che ò il mezzogiorno della vita, possono entrambi incontrarsi. PRINCIPIO DELLA FILOSOFIA NELLA FORMA DI UNA PROPOSIZIONE FONDAMENTALE ASSOLUTA La filosofia come una totalità  del sapere prodotta mediante la riflessione diviene un sistema, un tutto organico di concetti, la cui legge suprema non ò l’intelletto ma la ragione; l’intelletto deve indicare esattamente gli opposti di ciò che ha posto, i suoi confini, fondamento e condizione, ma la ragione unifica questi contraddittori, li pone insieme e li toglie entrambi. Al sistema in quanto organizzazione di proposizioni può porsi la richiesta che gli sia presente l’assoluto, che sta a fondamento della riflessione, anche al modo della riflessione come suprema proposizione fondamentale assoluta. Ma una tale richiesta porta già  in sè la sua nullità , poichè un posto mediante la riflessione, una proposizione, ò per sè un limitato e condizionato, e abbisogna di un altro per la sua fondazione e così via all’infinito. Se l’assoluto viene espresso in una proposizione fondamentale valida mediante e per il pensare, la cui forma e materia siano uguali, allora o ò posta la mera uguaglianza, ed ò esclusa l’ineguaglianza di forma e materia, e la proposizione fondamentale ò condizionata da questa ineguaglianza, – in questo caso la proposizione fondamentale [24] non ò assoluta ma anzi manchevole, esprime solo un concetto dell’intelletto, un’astrazione -; oppure nel contempo ò contenuta in lei la forma e la materia come ineguaglianza, la proposizione ò insieme analitica e sintetica, dunque la proposizione fondamentale ò un’antinomia, e per questo non una proposizione: essa in quanto proposizione ò sottoposta alla legge dell’intelletto, di non contraddirsi in sè, di non togliersi ma essere un posto, e tuttavia come antinomia si toglie. Questa folle illusione, che qualcosa di posto solo per la riflessione debba necessariamente stare al vertice di un sistema come suprema assoluta proposizione fondamentale, o che l’essenza di ogni sistema si lasci esprimere in una proposizione che sia assoluta per il pensare, fa di un sistema a cui applichi il suo giudizio un facile affare; infatti si può dimostrare molto facilmente che un pensato, che la proposizione esprime, ò condizionato da un opposto e quindi non ò assoluto; di questo opposto alla proposizione si dimostra che deve essere posto, e che dunque quel pensato che la proposizione fondamentale esprime ò nullo. Tale illusione si ritiene tanto più giustificata se il sistema stesso esprime l’assoluto, che ò suo principio, nella forma di una proposizione o di una definizione che tuttavia in definitiva ò una antinomia, e perciò toglie se stessa in quanto qualcosa di posto per la mera riflessione; così ad esempio smette di essere un concetto, poichè gli opposti sono uniti in una contraddizione, il concetto di Spinoza della sostanza, che viene spiegata come insieme causa e causato, concetto ed essere. – Nessun cominciamento di una filosofia può avere un aspetto peggiore del cominciamento con una definizione, come in Spinoza, un cominciamento che fa il più straordinario contrasto con il fondare, approfondire, dedurre i principi del sapere, con il faticoso riportare tutta la filosofia ai supremi dati di fatto della coscienza e così via; ma se la ragione si ò purificata dalla soggettività  del riflettere, allora può essere ritenuto pertinente anche quel candore di Spinoza, che comincia la filosofia con la filosofia stessa e lascia fare il suo ingresso alla ragione immediatamente con un’antinomia. Se il principio della filosofia deve essere espresso per la riflessione in proposizioni formali, allora come oggetto di questo compito non c’ò innanzitutto nient’altro che il sapere, in generale la sintesi del soggettivo e dell’oggettivo, o il pensare assoluto; la riflessione tuttavia non ò in grado di esprimere la sintesi assoluta in una proposizione, se questa proposizione deve valere come una proposizione vera e propria per l’intelletto; essa deve separare ciò che nell’identità  assoluta ò uno, ed esprimere la sintesi e l’antitesi separate, in due proposizioni: in una l’identità , nell’altra la scissione. In A = A, come principio di identità , si riflette sull’essere-in-rapporto, e in questa pura identità  ò contenuto questo rapportare, questo essere-uno, l’uguaglianza; viene fatta astrazione [25] da ogni ineguaglianza. A = A, l’espressione del pensare assoluto, o della ragione, ha per la riflessione formale, che parla in proposizioni intellettuali, solo il significato dell’identità -dell’intelletto, della pura unità , cioò di un’unità  tale in cui ò fatta astrazione dall’opposizione. Ma la ragione non si trova espressa in questa unilateralità  dell’unità  astratta; essa postula anche il porre di ciò da cui veniva fatta astrazione nella pura uguaglianza, il porre dell’opposto, dell’ineguaglianza. Il primo A ò soggetto, l’altro ò oggetto, e l’espressione per la loro differenza ò A non = A, o A = B. Questo principio contraddice esplicitamente il precedente, in esso ò fatta astrazione dalla identità  pura ed ò posta la non-identità , la forma pura del non-pensare, come nel primo la forma del puro pensare, che ò altro dal pensare assoluto, la ragione. Solo perchè ò pensato anche il non pensare, perchè mediante il pensare ò posto A non = A, questo principio può in generale essere posto. In A non = A o A = B ò parimenti l’identità , il rapportare, lo “=” del primo principio, ma solo soggettivamente, cioò solo in quanto il non-pensare ò posto mediante il pensare, ma questo essere-posto del non- pensare per il pensare ò per il non-pensare totalmente accidentale, una mera forma per il secondo principio da cui, per avere pura la sua materia, deve essere fatta astrazione. Questo secondo principio ò tanto incondizionato quanto il primo, e in quanto tale ò condizione del primo, come il primo ò condizione del secondo principio. Il primo ò condizionato per mezzo del secondo in quanto sussiste mediante l’astrazione dall’ineguaglianza che il secondo contiene; il secondo in quanto, per essere un principio, abbisogna di un rapporto. Il secondo principio ò del resto stato espresso sotto la forma subalterna di principio del fondamento, o meglio ò stato abbassato a questo significato eminentemente subalterno perchè lo si ò trasformato nel principio di causalità . A ha un fondamento significa che ad A spetta un essere che non ò un essere di A, A ò un essere-posto che non ò l’essere-posto di A, quindi A non = A, A = B. Se viene fatta astrazione dal fatto che A ò un posto, come deve farsi astrazione per avere puro il secondo principio, così esso esprime in generale un non-essere-posto di A. Porre A insieme come posto e come non posto ò già  la sintesi del primo e del secondo principio. Entrambi i principi sono principi di contraddizione solo nel significato rovesciato; il primo, dell’identità , dichiara che la contraddizione ò = 0; il secondo, in quanto ò posto in rapporto col primo, dichiara che la contraddizione ò altrettanto necessaria della non-contraddizione; entrambi, in quanto principi, sono due posti per sè di uguale potenza. In quanto il [26] secondo ò espresso in modo tale che il primo ò in pari tempo rapportato ad esso, esso ò la suprema espressione possibile della ragione mediante l’intelletto; questo rapporto reciproco ò l’espressione dell’antinomia, e in quanto antinomia, in quanto espressione della identità  assoluta, ò indifferente porre A = B o A = A, se precisamente A = B e A = A viene assunto come rapporto di entrambi i principi. A = A contiene la differenza dell’A come soggetto e dell’A come oggetto, insieme con l’identità , come A = B l’identità  dell’A e del B insieme alla differenza di entrambi. Se l’intelletto non riconosce nel principio del fondamento, come rapporto di entrambi i principi, l’antinomia, allora non ò giunto alla ragione, e formaliter il secondo principio non ò per lui nulla di nuovo; per il mero intelletto A = B non dichiara più del primo principio, l’intelletto cioò comprende dunque l’essere-posto dell’A come B solo come una ripetizione dell’A, ossia tiene ferma solo l’identità  ed astrae dal fatto che essendo ripetuto l’A posto come B, o in B, ò posto un altro, un non A, e proprio come A, dunque A come Non A. – Se si riflette meramente sul formale della speculazione, e si tiene ferma la sintesi del sapere in forma analitica, allora l’antinomia, la contraddizione che toglie se stessa, ò la suprema espressione formale del sapere e della verità . Nell’antinomia, se la contraddizione viene riconosciuta come l’espressione formale della verità , la ragione ha sottomesso a sè l’essenza formale della riflessione. Tuttavia l’essenza formale ha il sopravvento se il pensare deve essere posto, nell’unica forma del primo principio, opposto al secondo, con il carattere di una unità  astratta come primo vero della filosofia e se dall’analisi dell’applicazione del pensare deve essere eretto un sistema della realtà  della conoscenza; allora il corso completo di questo operare puramente analitico si mostra nel modo seguente. Il pensare come assoluta ripetibilità  dell’A come A ò una astrazione, il primo principio espresso come attività ; ma ora manca il secondo principio, il non- pensare; si deve necessariamente passare ad esso come condizione del primo, e si deve porre anche questo, la materia. Con ciò gli opposti sono completi, ed il passaggio ò un certo modo di rapporto reciproco di entrambi, che si chiama un’applicazione del pensare ed ò una sintesi altamente incompleta. Ma anche questa debole sintesi ò essa stessa contro il presupposto del pensare come porre dell’A come A all’infinito, poichè nell’applicazione A viene insieme posto come Non A, e il pensare nel suo sussistere assoluto come un infinito ripetere dell’A come A viene tolto. – Ciò che ò opposto al pensare viene determinato, mediante il suo rapporto al pensare, come un pensato, = A. Poichè tuttavia un tale pensare, porre = A, ò condizionato mediante un’astrazione, e dunque ò un opposto, dunque anche il pensato, oltre ad [27] essere un pensato = A, ha ancora altre determinazioni = B che sono del tutto indipendenti dal mero essere-determinato mediante il puro pensare, e queste sono meramente date al pensare. Dunque al pensare, come principio del filosofare analitico, deve essere dato un contenuto assoluto, di cui si parlerà  più avanti. Il fondamento di questa opposizione assoluta non lascia all’operare formale, su cui poggia la nota scoperta di ricondurre la filosofia alla logica, alcun’altra sintesi immanente che quella dell’identità  dell’intelletto, di ripetere A all’infinito; ma per la stessa ripetizione essa abbisogna di un B, C ecc., nei quali l’A ripetuto possa essere posto. Questi B, C, D ecc. sono a causa della ripetibilità  dell’A un molteplice, a sè opposto, – ognuno ha particolari determinazioni non poste mediante A, – cioò un contenuto assolutamente molteplice, il cui b, c, d, ecc. si deve congiungere, come può, con l’A; una tale insulsaggine del congiungere prende il posto di una identità  originaria. L’errore fondamentale può essere rappresentato così, che non si ò riflettuto sotto il riguardo formale sull’antinomia dell’A = A e dell’A = B. A fondamento di una tale essenza analitica non sta la coscienza cha la manifestazione puramente formale dell’assoluto ò la contraddizione, una coscienza che può sorgere solo se la speculazione muove dalla ragione, e dall’A = A come assoluta identità  del soggetto e dell’oggetto. INTUIZIONE TRASCENDENTALE In quanto la speculazione viene considerata dal lato della mera riflessione, l’assoluta identità  appare in sintesi di opposti, dunque in antinomie. Le identità  relative, in cui si differenzia quella assoluta, sono certo limitate, e in quanto tali sono per l’intelletto e non antinomiche; nel contempo tuttavia poichè sono identità  non sono meri concetti intellettuali, e devono essere identità  perchè in una filosofia nessun posto può stare senza rapporto all’assoluto; ma dal lato di questo rapporto perfino ogni limitato ò una (relativa) identità , e in quanto tale un antinomico per la riflessione, – e questo ò il lato negativo del sapere, il formale, che guidato dalla ragione distrugge se stesso. Oltre a questo lato negativo il sapere ha un lato positivo, e precisamente l’intuizione. Il puro sapere, che significherebbe sapere senza intuizione, ò l’annientamento degli opposti nella contraddizione; l’intuizione senza questa sintesi degli opposti ò empirica, data, inconscia. Il sapere trascendentale unisce entrambi, riflessione e intuizione; esso ò insieme concetto ed essere. Per il fatto che [28] l’intuizione diviene trascendentale entra nella coscienza l’identità  del soggettivo e dell’oggettivo, che nell’intuizione empirica sono separati; il sapere, in quanto diviene trascendentale, non pone semplicemente il concetto e la sua condizione, – o la loro antinomia, il soggettivo, – ma pone insieme l’oggettivo, l’essere. Nel sapere filosofico l’intuìto ò un’attività  dell’intelligenza e della natura, della coscienza e dell’incosciente insieme. Esso appartiene a entrambi i mondi, nel contempo all’ideale e al reale – all’ideale, in quanto ò posto nell’intelligenza, e così nella libertà , – al reale, in quanto ha il suo posto nella totalità  oggettiva, ò dedotto come un anello della catena della necessità . Se ci si pone dal punto di vista della riflessione o della libertà , allora l’ideale ò il primo e l’essenza e l’essere sono solo l’intelligenza schematizzata; se ci si pone dal punto di vista della necessità  o dell’essere, allora il pensiero ò solo uno schema dell’essere assoluto. Nel sapere trascendentale sono entrambi unificati, essere e intelligenza; allo stesso modo sapere trascendentale e intuizione trascendentale sono uno e lo stesso, la diversa espressione indica solo la prevalenza del fattore ideale o reale. àˆ estremamente significativo che sia stato stabilito con tanta serietà  che non si può filosofare senza intuizione trascendentale: cosa potrebbe poi significare filosofare senza intuizione? Disperdersi senza fine in finitezze assolute. Che queste finitezze siano soggettive o oggettive, concetti o cose, o anche che si passi da una specie all’altra, così il filosofare senza intuizione procede in una serie senza fine di finitezze, e il passaggio dall’essere al concetto, o dal concetto all’essere, ò un salto ingiustificato. Un tale filosofare si dice un filosofare formale, perchè la cosa, come il concetto, sono, ognuno per sè, solo forma dell’assoluto; esso presuppone la distruzione dell’intuizione trascendentale, una assoluta opposizione dell’essere e del concetto, e quando parla dell’incondizionato fa diventare di nuovo perfino questo un incondizionato formale, quasi nella forma di un’idea che sia opposta all’essere. Quanto migliore ò il metodo, tanto più brillanti divengono i risultati. Per la speculazione le finitezze sono raggi del fuoco infinito, che li emana e insieme ò costituito da essi, il fuoco ò posto nei raggi ed essi nel fuoco. Nell’intuizione trascendentale ogni opposizione ò tolta, ò annientata ogni differenza

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