Vita e opere Emanuele Severino nasce nel 1929 a Brescia, si laurea a Pavia nel 1950 con una tesi straordinaria su ” Heidegger e la metafisica “. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università . Nel 1964 sconvolge il dibattito teoretico con il saggio ” Ritornare a Parmenide “. Dal 1970 ò ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove ò stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989. E’ accademico dei Lincei. Tra le sue numerose opere ricordiamo: ” Note sul problematicismo italiano “, Brescia, 1950; ” La struttura originaria ” (1957), Milano, 1981; ” Studi di filosofia della prassi ” (1962), Milano, 1984; ” Essenza del nichilismo “, Milano, 1972; ” Gli abitatori del tempo “, Roma, 1978; ” Legge e caso “, Milano, 1979; ” Le radici della violenza “, Milano, 1979; ” Destino della necessità “, Milano, 1980; ” A Cesare e a Dio “, Milano, 1983; ” La strada “, Milano, 1983; ” La filosofia antica “, Milano, 1985; ” La filosofia moderna “, Milano, 1985; ” Il parricidio mancato “, Milano, 1985; ” La filosofia contemporanea “, Milano, 1988; ” Il giogo “, Milano, 1989; ” La filosofia futura “, Milano, 1989; ” Alle origini della ragione “, Milano, 1989; ” Antologia filosofica “, Milano, 1989; ” Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica “, Milano, 1990; ” La guerra “, Milano, 1992; ” Oltre il linguaggio “, Milano, 1992; ” Tautotes “, Milano, l995; ” La gloria “, Milano, 2001. Ha pubblicato, inoltre, una storia divulgativa della filosofia (Filosofia antica, moderna, contemporanea, futura), ed un manuale scolastico (Filosofia, 3 volumi). Ci troviamo di fronte ad un lavoro sterminato e, per lo più, scritto con un linguaggio da addetti ai lavori. Massimo Cacciari lo definisce un gigante, l’unico filosofo che nel Novecento si possa contrapporre a Heidegger. Il pensiero Severino, come egli stesso ricorda in un’intervista, rammenta quando formulò le sue idee per la prima volta, quelle idee destinate a suscitare così tanto stupore. Aveva ventitrò anni, era già libero docente all’Università , e un giorno stava lavorando attorno al primo libro della “Fisica” di Aristotele, su nello studiolo, quando fu travolto da un’ondata d i pensieri nuovi: ” fu come trovarsi in un vortice, in un maelstrà¶m, e in basso apparve la terra. L’essere eterno mi si presentò in questo modo, aveva il carattere di questo fondo marino “. Da lì ebbe inizio la sua avventura filosofica. La filosofia di Emanuele Severino si innesta nel dibattito ontologico avviato da Heidegger e, tuttavia (a differenza di Heidegger), si propone un ritorno all’antico pensiero di Parmenide di Elea. Per Severino la questione principale da affrontare risale alla metafisica classica e riguarda la contraddizione o meno tra l’essere e il non essere o divenire. Il filosofo affronta il problema tenendo presenti autori contemporanei quali Nietzsche e Heidegger. La tesi generale ò che il peccato e l’errore dell’Occidente e del cristianesimo compreso consistono nell’essersi allontanato dal precetto parmenideo secondo il quale tra solo l’essere ò e può essere pensato e definito. Scegliendo di non rispettare l’insegnamento di Parmenide e introducendo il divenire nel pensiero e nella storia, l’Occidente si ò trovato in una situazione senza uscita che ha portato all’attuale dominio della ragione e della tecnica. Quindi bisogna ritornare a Parmenide. Il peccato originale dell’Occidente ò avvenuto dopo Parmenide, quando il pensiero greco, invece di considerare soltanto l’essere, ha evocato il divenire inteso come la dimensione visibile dove le cose provengono dal niente e ritornano nel niente, dopo essersi trattenute provvisoriamente nell’essere. Il divenire diventa l’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente: ma Severino, sull’onda dell’insegnamento parmenideo, nega l’esistenza stessa del divenire. L’impianto filosofico di Severino può essere così sinteticamente riassunto: a) L’abbandono dell’essere parmenideo e la scelta del divenire provocano nell’umanità occidentale un sentimento di angoscia di fronte al niente, di nostalgia, di bisogno dell’essere. b) L’Occidente con la logica del rimedio innalza gli immutabili per difendersi dal divenire che esso ha evocato, cioò costruisce le entità (Dio) e i valori (etici, naturali, ecc. ) trascendenti e permanenti. c) Al di sopra degli immutabili l’epistème, cioò l’essenza originaria della filosofia, la volontà di conoscere stabilmente la verità del mondo. L’epistème ò la dimensione stabile del sapere, all’interno della quale vengono innalzati tutti gli immutabili dell’Occidente. La fede cristiana eredita i caratteri di stabilità dell’epistème e si rivolge alle masse. Severino prende le mosse dal pensiero del suo maestro Bontadini – fondatore della Neoscolastica milanese – ma presto se ne allontana: se per Bontadini nel mondo domina il divenire (come ci attestano i sensi stessi), l’unica via per ammettere qualcosa di eterno ò Dio, inteso come ente immutabile ed imperituro. Ora Severino stravolge il discorso del suo maestro: giacchò nel mondo non vi ò il divenire – esso ò solo una doxa degli uomini, secondo l’insegnamento parmenideo -, non ò necessario far riferimento ad un ente eterno e trascendente; il mondo stesso che ci appare dinanzi ò eterno. Ben si capisce come in virtù di queste sue posizioni Severino fu allontanato dalla cattolica di Milano. Accrescere il proprio potere sulle cose e sugli dòi: questo ò sempre stato il desiderio più profondo degli uomini, i quali pensano che la potenza li renda capaci di vincere il dolore e la morte. Nel paradiso terrestre il serpente assicura che non si morirà mangiando il frutto proibito; anzi si diventerà come dòi, si avrà cioò la loro potenza. Tecniche, religioni, filosofia, arti, sono i grandi espedienti escogitati dall’uomo per diventare sempre più potente. La tecnica fondata sulla scienza moderna ò ormai il più potente strumento di trasformazione del mondo. Ma il Luogo che contiene tutti i luoghi ò la totalità dell’essere. La filosofia ha inteso indicarne il volto. Dapprima ha affermato l’esistenza di Dio, ossia dell’Essere immutabile che nessuna potenza umana può dominare. Poi la filosofia del nostro tempo ha mostrato che nessun Dio immutabile ed eterno può esistere. Cosicchè, dapprima, ha avuto la strada sbarrata da Dio e dalle sue leggi; poi la filosofia ha liberato la strada da ogni ostacolo. Il cristianesimo, quindi, va incontro allo stesso destino della filosofia, con l’aggravante di mettere da parte lo spirito critico con cui la filosofia cerca di argomentare le ragioni della necessità degli immutabili che servono come difesa e riparo rispetto al divenire, e sono paragonabili alle creazioni della volontà di potenza di cui parla Nietzsche. Gli immutabili, prevedendo e controllando il divenire soffocano e minacciano la volontà di esistere, in modo più insopportabile della stessa minaccia del divenire. L’uomo ricorre allora, come ad un’ancora di salvezza, alla scienza e alla tecnica, affinchè lo liberino da questa minaccia. La filosofia contemporanea tende a tramontare nel sapere scientifico, proprio perchè essa ò negazione e distruzione degli immutabili. A questo proposito, asserisce Severino: ” La filosofia va necessariamente verso il proprio tramonto, cioò verso la scienza, che tuttavia ò il modo in cui oggi la filosofia vive. [… ] Tutti possono vedere che la filosofia, su scala mondiale, declina nel sapere scientifico ” ( ” Che cosa fanno oggi i filosofi? “, Milano 1982). Del resto, lo stesso Heidegger, cui Severino si ispira costantemente (pur auspicando un ritorno a Parmenide), aveva affermato, in ” Ormai solo un dio ci può salvare “: ” La filosofia ò alla fine. [â¦]Quella che ò stata la funzione della filosofia fino ad oggi ò stata ereditata dalle scienze. [… ] La filosofia si dissolve in singole scienze: la psicologia, la logica, la politologia “. Aristotele, così aperto verso le posizioni dei suoi predecessori, pur confutandole, di fronte alla filosofia di Parmenide si spazientisce e la bolla come una follia. Lâesempio più caro a Severino, nellâargomentare la sua posizione parmenidea, ò quello della legna che per lâazione del fuoco âdiventaâ cenere: nella tradizione occidentale, siamo soliti pensare che la legna si trasformi in cenere; quando scorgiamo la cenere, del resto, la associamo subito alla legna, convinti che da essa derivi. Siamo così portati a dire che ò cenere da parte della legna; similmente, quando Socrate cresce in altezza, diciamo che ò alto da parte di Socrate. Ma ciò non toglie che diciamo anche âSocrate ò altoâ: similmente, si dovrà per Severino affermare che la legna ò cenere. Eâ questa una follia per la tradizione occidentale: Platone stesso, nel âTeetetoâ, spiegava come neanche nei sogni o nella follia fosse possibile predicare il contrario di una cosa, dicendo ad esempio che il cavallo ò il toro, ò il bue, ecc. Ugualmente, ò assurdo, folle, predicare che la legna ò la cenere: ma questo per una tradizione che ò essa stessa folle e si ò separata da Parmenide e che mescola indebitamente essere e non essere (la legna che finisce nel nulla, la cenere che dal nulla nasce). Ma, secondo Severino, l’abbandono dell’essere parmenideo e la scelta del divenire ò la follia dell’Occidente, il sentiero della notte, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’ ò angoscia del divenire, l’Occidente, rispondendo alla logica del rimedio, ha evocato ò gli immutabili (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc. ). La civiltà della tecnica domina il mondo. All’inizio della nostra civiltà Dio, il Primo Tecnico, crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica, ultimo dio, ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia che esso provoca. Il divenire ò una follia. Riecheggiando Nietzsche, si tratta di comprendere che non solo non può esistere alcun Dio immutabile ed eterno, ma che il divenire non ò un percorso rettilineo e irreversibile ma un circolo che eternamente ritorna su di sè (immaginiamo una pellicola cinematografica su cui le stesse immagini girano in eterno). Chi ò capace di scorgere la necessità di questo circolo ò il “superuomo”, il quale possiede la volontà più potente di ogni altra. Sapendo che la strada ò circolare si ò infatti essenzialmente più potenti, nel procedere e nell’agire, di chi, ignorandolo, e credendo che il percorso sia rettilineo, va continuamente fuori strada. E allora, chiediamoci, la tecnica guidata dalla scienza moderna, proprio la tecnica, che oggi si presenta come produttrice della potenza suprema dell’uomo, può permettersi di ignorare che il corso degli eventi del mondo ha un carattere circolare? Può ignorare il tratto fondamentale del mondo? Una tecnica che lo ignori non ò forse impotente rispetto alla tecnica che lo conosce e pone questa conoscenza al proprio fondamento? E in tal modo non ci si deve forse preparare ad ammettere quella che ci sembrava l’affermazione più paradossale, cioò che la dottrina dell’eterno ritorno solleva la tecnica al culmine delle proprie possibilità ? Severino può apparire paradossale, anche assurdo, inconcepibile, perchè sostiene che tutto ò eterno, non solo ogni uomo e ogni cosa, ma anche ogni momento di vita, ogni sentimento, ogni aspetto della realtà , e quindi niente scompare, niente muore: l’eternità ò la sua passione, la sua vocazione. Tutti da millenni credono che le cose e gli uomini nascono dal nulla e nel nulla ritornano: Severino stesso dice che ” nascere vuole dire [… ] uscire dal niente; morire vuol dire tornare nel niente: il vivente ò ciò che esce dal niente e torna nel niente ” ( ” Che cosa fanno oggi i filosofi? “, Milano 1982). Tuttavia per Severino tutto ò eterno. Non basta: solo in superficie si crede che le cose vengano dal nulla e che nel nulla alla fine precipitino, perchè nel profondo siamo convinti che quel breve segmento di luce che ò la vita ò esso stesso nulla. E’ il nichilismo. E’ l’ omicidio primario, l’uccisione dell’essere. Ma ò una contraddizione: ciò che ò non può non essere, nè può essere stato o potrà mai essere nulla. Una contraddizione che ò la follia dell’Occidente, e ormai di tutta la terra. Una ferita che necessita di numerosi conforti, dalla religione all’arte, tutti affreschi sul buio, tentativi di nascondere, medicare il nulla che ci fa orrore. Per fortuna ci attende la Non Follia, l’apparire dell’eternità di tutte le cose. Noi siamo eterni e mortali perchè l’eterno entra ed esce dall’apparire. La morte ò l’assentarsi dell’eterno. Abbiamo tutti nel sangue il nichilismo. Ci crediamo mendicanti quando invece siamo re. Come dice Orazio, ” pulvis et umbra sumus ” (“siamo polvere e ombra”): l’uomo diventa polvere, ma anche la polvere ò eterna. Si può forse esorcizzare la morte aiutandosi con le religioni o con le filosofie, si può anche credere che tutto finisca in un grande silenzio, simile a quello che precede la nascita. La scienza riesce a prolungare la vecchiaia, i piaceri che ricerchiamo avidamente stordiscono le preoccupazioni accumulate dai giorni, la bellezza ci aiuta a disprezzare gli insopportabili ragionamenti dei mediocri. Un frammento di Eraclito recita: ” attendono gli uomini, quando sono morti, cose che essi non sperano nè suppongono “. Quali spettacoli si mostrano, se si mostrano, dopo la morte? La morte ha un significato che sta al di là di ciò che si intende comunemente con questo termine. Sta al di là della stessa contrapposizione tra morte e immortalità . L’Occidente, la cui preistoria ò l’Oriente, la intende invece come annientamento, salvando in alcuni casi l’anima o la coscienza che continuerebbero ad avere una loro vita. Severino cerca di dimostrare che la persuasione che una qualsiasi cosa o evento (uomo, pianta, stella, situazione, istante) possa annientarsi, e annientato sia niente, ò Follia essenziale. à la Follia più profonda che possa manifestarsi non soltanto nel mondo umano, ma nel Tutto. In diverse forme la Follia domina la storia della Terra; al di fuori della Follia appare l’eternità di ogni cosa e di ogni evento. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, ò un evento interno a tale manifestazione. Essa non ci travolge, ma ò una parte del nostro esistere. à una condizione necessaria della felicità . Noi siamo destinati alla felicità che ò l’oltrepassamento di tutte le contraddizioni e non un premio concesso. à necessità . à inevitabile che dopo il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell’abulia l’uomo sia felice. In tale prospettiva, Dio non ò il demiurgo ma l’apparire infinito degli eterni, ò essenzialmente diverso da quello della tradizione religiosa e filosofica. Dio non sta in un altro mondo: nel profondo noi siamo l’oltrepassamento della totalità delle contraddizioni. Non ò facile cogliere il suo messaggio, il suo linguaggio inusuale. Il mondo ò troppo concreto per permettersi il lusso di strapparsi dalla pelle gli accidenti della giornata, che stanno addosso agli uomini come dei fastidiosi pidocchi, che ci tormentano come questi parassiti e che divorano le nostre vite succhiandoci il tempo e il sangue. In virtù di queste sue idee (e, più in generale, dell’intero suo impianto filosofico), Severino fu allontanato dall’università Cattolica nel 1969: ” mi resi conto che il mio discorso conteneva il no più radicale alla tradizione metafisica dell’Occidente e dell’Oriente. Non era rivolto specificamente contro la religione cristiana “. Ma l’educazione cattolica ricevuta da Severino non ò mai completamente svanita, anche dopo l’elaborazione della sua filosofia: certo, egli mette da parte la nozione di Dio, ma non quella di Verità , cardinale nella tradizione cristiana. ” La Verità prende il posto di Dio, che ò rimedio dell’angoscia contro il nulla. Dio ò all’interno della follia, del nichilismo, del credere che le cose muoiono “. Per Severino la tecnica non ò ancella delle forze che governano il mondo, ma ò essa stessa a governare i destini dell’umanità . La tecnica prosegue il proprio cammino sapendo che non incontrerà alcuno ostacolo e alcun limite invalicabile. La filosofia contemporanea l’ ha resa completamente libera, l’ ha sollevata al culmine delle sue possibilità . Ascoltando la voce della filosofia del nostro tempo, la tecnica può assumere ora un’andatura del tutto diversa ed essenzialmente più incisiva. Il mezzo (la tecnica, le nuove tecnologie, le reti telematico-informatiche) sta diventando lo scopo, il fine della comunicazione. Così la celebre frase di Mac Luhan, ” il medium ò il messaggio “, alla luce di questa riflessione diviene immediatamente comprensibile: il mezzo della comunicazione forma e trasforma i messaggi che veicola, e sovente, nell’ epoca postmoderna, diventa il fine del comunicare stesso, lasciando sullo sfondo concetti e idee. Il concetto stesso di etica sta cambiando drasticamente, l’etica sta diventando tecnica, ossia la potenza e la capacità di trasmettere e diffondere informazioni. L’etica così come ò stata pensata da Aristotele e da altri illustri filosofi, sta lasciando il posto al dominio della tecnica. Il pensiero postmoderno ò figlio di un processo lungo due secoli durante i quali il concetto di verità ò stato smontato, specie nel suo legame col divino. Dio ò morto e con lui la verità , lasciando il posto, si potrebbe aggiungere, a relativismi, possibilismi e revisionismi di ogni sorta. In questa prospettiva storico-cosmica, Severino colloca la situazione italiana, meno liberata rispetto ad altre. In Italia il tramonto della filosofia nella scienza avviene più lentamente che altrove, soprattutto perchè nel nostro paese esistono il centro del cattolicesimo mondiale e il più forte partito comunista del mondo occidentale, due istituzioni che, in modi specifici, contribuiscono a tenere in vita il senso tradizionale della filosofia, cioò la filosofia come epistème, luogo dell’evocazione degli immutabili. E’ molto rilevante il titolo di un’opera di Severino, composta nel 1985: ” Il parricidio mancato “; il parricidio in questione sarebbe quello commesso da Platone (come il filosofo ateniese stesso afferma) ai danni di Parmenide, padre della filosofia dell’essere. Ora Severino, che si riaggancia al pensiero dell’antico ontologo, vuol mettere in luce come, in realtà , si sia trattato di un “parricidio mancato”: la filosofia di Parmenide ò ancora viva e vegeta ed ò ad essa che Severino intende riallacciarsi. Parmenide infatti, secondo Severino, mette in luce per la prima volta il senso radicale della contrapposizione tra l’essere e il niente e chiarisce quindi il senso assoluto di questi due enti, comprendendo filosoficamente ciò che prima non era stato possibile chiarire dal mito. I primi pensatori iniziarono a capire che l’essere poteva essere visto come il Tutto al di là del quale non vi era nulla: infatti il niente non ò qualcosa che possa venire conosciuto o del quale si possa parlare. Parmenide ò importante perchè approfondisce ed interpreta il concetto di essere. Infatti se il non essere non ò, non può inframmezzarsi all’essere e dividerlo in parti; nè può essere qualcosa da cui l’essere sorga o in cui si dissolva. In questa argomentazione di Parmenide, viene utilizzato il fondamentale principio logico detto di “non-contraddizione”, secondo il quale non vengono accettati contemporaneamente di una stessa realtà un carattere ed il suo contrario. Infatti, Parmenide fa notare che ò logicamente contraddittorio affermare che il non essere ci sia, che il nulla esista, perchè il non essere ò il contrario dell’essere e affermare della stessa realtà un carattere e il carattere contrario ò un errore logico: un nonsenso. Il divenire dell’essere ò quindi un’opinione senza verità , un’apparenza illusoria di cui si convincono i mortali, che seguono il percorso della non-verità , ovvero di ciò che ò apparenza. Con il medesimo ragionamento Parmenide ammette che l’essere non ò mai nato, nè mai morirà , cioò ò eterno. Per affermare infatti che sia nato, bisognerebbe ammettere che ci fosse stato qualcosa da cui ò stato generato, ma siccome l’essere ò unico, ciò ò logicamente contraddittorio. Per la stessa ragione non possiamo accettare il fatto che l’essere si muova, perchè per farlo dovrebbe passare da un luogo ad un altro e muoversi in un elemento, lo spazio vuoto, il non essere, che permetta lo spostamento e ciò ò logicamente contraddittorio. Severino riflettendo su Parmenide e sulla storia della filosofia occidentale, che ha posto al suo centro il divenire, la follia che domina il mondo, giunge ad affermare che tutto ò eterno. Tutto ò eterno significa che ogni momento della realtà ò, ossia non esce e non ritorna nel nulla, significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si ò soliti riservare a Dio. Eterni sono ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini. E anche tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall’uomo, il pianto di Gesù appena nato, l’oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo, Hiroshima viva ed il suo cadavere. Eterni ogni speranza ed ogni istante del mondo, con tutti i contenuti che stanno nell’istante, eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la follia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino. Ma dissertare di filosofia non ò produttivo, dice Severino: infatti, ” parlare di filosofia uccide la filosofia, perchè non si vede la profonda vena d’oro e vien fuori uno spettro, un mito nel migliore dei casi, un discorso strano di un intellettuale un po’ squilibrato “. Riassunto di alcune opere In ” Tautotes ” Severino mette in questione la definizione aristotelica dell’identità (tautà³tès) intesa come dimensione in cui si mantiene ogni tentativo dell’Occidente di pensare l’identità , superando in modo originale l’aporia di fondo: come dire le differenze fra una cosa e un’altra senza per ciò stesso dire che questo non ò quello e cadere quindi nella contraddizione di dire di un ente che non ò. In â Essenza del nichilismo Severino conduce un’audace analisi, che ci guida ai confini di quell’Occidente che ò “la Repubblica fondata da Platone” per aprirsi su ciò che, al di fuori di quella Repubblica, perennemente ò; la tesi portante ò che â più si parla di nichilismo, più diventa indispensabile pensare l’essenza del nichilismo. Essa continua a rimanere al di là di tutto ciò che la nostra cultura crede di sapere intorno al nichilismo e alla sua essenza â. â Heidegger e la metafisica â costituisce il tentativo di mostrare come “la filosofia di Heidegger, nella sua essenza, renda possibile il sapere metafisico” e come “il problema fondamentale di Heidegger sia quello di una radicale costruzione del sapere metafisico”. Note sul problematicismo italiano, steso già nel 1948 sullo sfondo del dibattito su attualismo e problematicismo, forma invece il terreno in cui era maturato il saggio heideggeriano. Impliciti in entrambi gli scritti sono da un lato il riconoscimento di Gentile e Heidegger come punti di riferimento essenziali del pensiero nel nostro secolo, dall’altro l’individuazione dei tratti che li accomunano, certo non meno importanti delle radicali divergenze. Infine, in una lunga Avvertenza, Severino ha voluto chiarire il senso di vari passaggi del suo iter, visti con gli occhi di oggi. Completano il volume un gruppo di scritti teorici, fra i quali Lineamenti di una fenomenologia dell’atto, La struttura dell’essere. Metafisica, fenomenologia, sociologia, e uno studio sulla riflessione rosminiana sull’essere e sulle affinità di quella riflessione con il pensiero di Heidegger. â La tendenza fondamentale del nostro tempo â: in questo libro – analisi straordinariamente lucida del movimento, segreto e palese, che governa il nostro tempo – Emanuele Severino mette il suo pensiero alla prova dei fatti che ci circondano. Fatti enormi, secondo la convinzione di tutti, mutamenti epocali. Ma in quale dirczione? Che cosa significa, per esempio, la decadenza dell’Europa? Non va forse insieme, questo fenomeno, al diventare planetario del dominio della tecnica, che ò il frutto specifico del pensiero europeo? E qual ò il rapporto della tecnica con la scienza? Che cosa significa la preoccupazione, oggi sempre più insistente, di porre limiti alla ricerca? E si può parlare di un’etica della scienza? Sono questi solo alcuni dei temi che qui vengono affrontati. Temi gravissimi, ma troppo spesso abbandonati agli opinionisti dei quotidiani, i quali offrono, appunto, opinioni. Qui invece questi temi trovano il loro luogo strategico all’interno di una costruzione speculativa rigorosa. Non tutti saranno inclini a seguire Severino fino alle sue estreme conseguenze, che sono audacissime. Ma per tutti sarà prezioso seguire in ogni passo le sue analisi, perchè toccano ogni volta il nervo delle questioni. E le questioni trattate in questo libro sono quelle che ci vengono incontro inevitabilmente ogni giorno. â Destino della necessità â: quest’opera si presenta come la più compiuta di Severino, come una summa del suo pensiero, che qui riprende, in un linguaggio molto diverso ma con puntuali corrispondenze, il vasto disegno della Struttura originaria (1958) e di Essenza del nichilismo (1972). L’indagine di Severino ha come primo oggetto il nichilismo. Con questa parola, da Nietzsche a Heidegger, si ò spesso inteso designare quella peculiare macchina di concetti e opposizioni – macchina distruttrice e autodistruttrice, e al tempo stesso produttrice di potenza -, all’interno della quale si ò mosso tutto il pensiero occidentale. Severino non solo sottrae questo termine a ogni vaghezza e allusività , ma gli conferisce un senso radicalmente diverso mostrando come la persuasione che l’ente sia niente sia necessariamente legata alla fede nel divenire e nella storicità del mondo. Caratteristico del nichilismo ò di presentarsi, infatti, sempre di nuovo sotto altre forme, celando il suo fondamento: così, se davvero, come Severino afferma, il nichilismo ò il “contenuto essenziale della storia dell’Occidente”, e insieme “l’inconscio della preistoria dell’Occidente”, per seguirne le metamorfosi occorrerà analizzare tutta la vicenda dell’Occidente, in cui noi stessi siamo immersi, sino a rendere evidente, nei suoi vari passaggi, la trama celata. Una tale analisi non può fermarsi all’articolazione dei testi classici della filosofia. Prima ancora, ò nell’articolarsi del lessico stesso del pensiero greco che si può osservare la genesi del processo nichilistico: ad essa Severino dedica una lunga, audace sezione di quest’opera, individuando un primo scindersi del lessico, nelle lingue indoeuropee, fra “timbro della flessione” e “timbro dell’inflessibile”. E, d’altra parte, il processo nichilistico si prolunga in tutta la “struttura dell’azione” in quanto “struttura del dominio”, quale ò stata “formulata una volta per tutte da Aristotele”, per essere poi ripresa in varianti innumerevoli nel corso dei secoli. Il quadro, dunque, che Severino qui ci offre ò una grandiosa immagine globale di ciò che ò stato, e di ciò che ò, quell’oscuro fenomeno designato come pensiero occidentale, pensiero alla cui base c’ò una decisione di separarsi dal Tutto per meglio dominare il mondo. Severino però non intende solo ricostruire ciò che l’Occidente ha pensato, ma altrettanto ciò che ha dovuto espungere dal suo pensiero e dalle sue opere e che rimane ancora di fronte a noi nella sua enigmatica estraneità . “L’Occidente… ò uno dei due corsieri che guidano e trascinano in direzioni contrastanti l’accadimento della terra: ò il corsiero “visibile”, cioò testimoniato, e “visibile” ò il sentiero che esso percorre”, guidato da una “volontà di potenza” che si svela alla fine “essenzialmente impotente”, l’altro corsiero-invisibile – ò guidato da una “volontà del destino” che in queste pagine ò testimoniata. â Legge e caso â Scienza e dominio si intrecciano ormai in modo inestricabile. Ma “perchè il dominio non deve essere esercitato? Ed esercitato senza limiti? Forse perchè finisce col violare i diritti dell’uomo? Ma quale conoscenza ò ormai in grado di mostrare i veri diritti e di stabilire il vero limite che divide il diritto dalla stortura dell’uomo? “. Con queste domande felicemente provocatorie, Severino avvia un’indagine stringente e acutissima, che vuole isolare il senso specifico in cui oggi la scienza parla di legge e di caso – e insieme risalire alla sua lontana origine, che ò nella nascita del pensiero greco. Perchè lì si forma la tensione che attanaglia tutto il pensiero dell’Occidente: da una parte l’affermazione inaudita del divenire in quanto ” irruzione dell’imprevisto”, in quanto caso che dal niente passa all’essere – e non solo ò imprevisto ma imprevedibile, perchè “ò impossibile una previsione del niente”; dall’altra la radicale “volontà di salvarsi dalla minaccia di divenire”, che si esprime nell’epistème, in quanto esorcismo conoscitivo che si fonda sull'”incantesimo degli immutabili”. Ma quest’ultima forma della conoscenza si ò rivelata inadeguata di fronte all’avida volontà di dominio della scienza: anche le ultime larve di “immutabili”, segnali di una verità incontrovertibile, sono state dissolte da una speculazione e da una pratica tecnica con cui la scienza raggiunge oggi “là forma più radicale di dominio proprio perchè si espone al caso, cioò distrugge gli immutabili che lo rendono impensabile”. Ma così si afferma anche “l’alienazione più abissale”; “la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente”. â Studi di filosofia della prassi â: l’espressione “filosofia della prassi” nomina qualcosa di più originario di quanto con essa viene usualmente indicato: nomina il legame originario che unisce verità e prassi. “Prassi” ò la parola con la quale il pensiero greco indica in generale, e una volta per tutte nella storia dell’Occidente, Fazione in quanto forza consapevole che conduce le cose nell’essere e nel niente (“le cose” nel senso più ampio di questa espressione: stati “esterni” e “interni”, forme, situazioni, rapporti, processi – ogni non-niente). La “prassi” appartiene all’essenza del nichilismo: ò una delle categorie fondamentali secondo cui il nichilismo pensa le cose. E quindi una delle categorie fondamentali dell’errore”. Così scrive Severino nella “Prefazione” a questa edizione ampliata degli Studi di filosofia della prassi, che ripropone il testo del 1962, ma con l’aggiunta di un vasto apparato di “Postille” inedite e di una “Appendice” che contiene, sotto forma di una sequenza di domande e risposte, l’elucidazione di una tesi inglobante ogni filosofia della prassi: “L’Occidente ò la Repubblica di Platone”. Nelle “Postille” il pensiero di Severino si abbandona a un affascinante contrappunto con se stesso, che mira a stabilire la necessità delle tesi di questi Studi e insieme a rilevare in quale misura esse sono ancora irretite nella “implicazione fra nichilismo e prassi”. Sono così compresenti in quest’opera le due facce, e anche i due linguaggi, del pensiero di Severino: da una parte quello serratamente analitico, che era apparso con La struttura originaria, dall’altra quello che si rivela a partire dagli scritti di Essenza del nichilismo. â Oltre il linguaggio â: può la tecnica offrire il rimedio contro i danni che essa produce? O ò proprio questa l’estrema illusione che ci abbaglia? Si possono porre dei limiti alla violenza? Ma chi ha il potere di imporre che un limite non sia oltrepassato? Qual ò il nesso fra essere e linguaggio? E’ vero, come vuole molta della filosofia moderna, che âl’essere che può venire compreso ò il linguaggioâ? Temi insidiosi, ardui: in questo libro sono l’occasione per un’indagine che, partendo dalla più recente fra le opere maggiori di Severino, Destino della necessità , e richiamandosi ai fondamenti del suo pensiero, esposti nella Struttura originaria, si inoltra in nuovi territori. Come sempre in Severino, l’estrema chiarezza e il vigore delle argomentazioni fanno sì che questi saggi siano preziosi per risolvere questioni di alta precisione speculativa, ma sappiano anche svelare, a un pubblico più vasto, l’urgenza dei problemi trattati. â Se la violenza ò la volontà che vuole l’impossibile, e se la volontà ò essenzialmente un volere che qualcosa divenga altro da sè, allora – poichè il diventare altro da sè ò qualcosa di impossibile (giacchè l’impossibile ò innanzitutto l’essere altro da sè) – la volontà ò, in quanto tale, il volere l’impossibile, e cioò la volontà ò, in quanto tale, violenza. La devastazione dell’uomo e della terra ò la forma visibile della violenza; la carità , l’amore, la tolleranza sono forme nascoste della violenza. Anche ogni volontà salvifica ò dunque una forma nascosta di violenza – come ogni volontà “creatrice”. Nessun creatore e nessun salvatore ci può salvare. Ma non perchè la salvezza debba essere cercata altrove, ma perchè il concetto stesso di salvezza – così come esso si presenta lungo la storia dell’Occidente – ò nella sua essenza violenza, cioò volontà di trasformare il mondo, e quindi volontà che vuole l’impossibile â. â Lâanello del ritorno â: âCorpo estraneoâ o âproblema insoluto della filosofia nietzscheana, la dottrina âdell’eterno ritorno dell’ugualeâ ò tanto citata quanto misconosciuta. Anche nella trattazione di Heidegger, non ò difficile riconoscere elementi funzionari al pensiero dell’interprete. La complessa lettura di Severino – che fra l’altro discute a fondo l’esegesi di Heidegger – scende nella dimensione più inaccessibile del pensiero di Nietzsche, e ha perciò, anzitutto, il merito di restituire l’eterno ritorno al lettore che voglia avvicinar la nuda, ipnotica vertigine, ontologica. Applicando il suo sguardo analitico a tutta la costellazione filosofica disposta da Nietzsche intorno al movimento circolare dell’anello, Severino giunge a scorgere nell’ eterno ritorno la conseguenza inevitabile della fede nel divenire e cioò della fede nella morte di Dio; d’altra parte questa inevitabilità ò anche la forma estrema assunta dal nichilismo quale Severino lo concepisce. Con la dottrina dell’ eterno ritorno Nietzsche porta al suo, âculmineâ il carattere costitutivo non solo della filosofia contemporanea, ma della stessa civiltà della tecnica cioò âla distruzione inevitabile della tradizione, filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidenteâ. L’eterno ritorno, come âestrema approssimazione del mondo del di venire al mondo dell’essereâ, ha fatto emergere âla punta della montagna di ghiaccioâ che vaga nelle acque profonde del pensiero contemporaneo. La montagna ò la follia del divenire come convinzione che le cose vengano dal nulla per ritornarvi- l’abnorme âfollia dell’Occìdenteâ da cui tutto il pensiero di Severino, il pensiero della Gioia, ovvero del destino della verità immutabile dell’essere – ha cercato e cerca di âsvegliarciâ e âdisincantarciâ. Già da queste osservazioni si può arguire che l’ anello del ritorno ò destinato ad assumere una posizione centrale fra le opere teoretiche del suo autore. “Non ci si ò mai resi conto che anche la dottrina dell’ eterno ritorno di tutte le cose ha lo stesso intento della dottrina della morte di Dio: escludere in nome dell’ evidenza della creatività dell’ uomo e del divenire, ogni Essere immutabile che, con la sua esistenza, smentirebbe e ridurrebbe a semplice apparenza tale evidenza. Una dottrina dell’ eterno ritorno che, lungi dall’ essere un corpo estraneo nel pensiero di Nietzsche, appartiene alla voce essenziale dell’ Occidente e anzi le aggiunge un timbro di straordinaria potenza. Riguarda il tempo; e propriamente il passato”. â La gloria â: ò il pensiero di Severino condotto alle sue ultime conseguenze. Destino della necessità , sino a oggi l’opera di Severino su cui convergono tutte le altre, si chiudeva con la promessa di una Parte seconda che avrebbe fornito risposta alle domande più gravi e più sorprendenti che il testo aveva evocato. Alla pars destruens condotta con rigore sulle tesi fondamentali del pensiero occidentale doveva seguire una pars construens che mostrasse come ò possibile e che cosa implica un pensiero non fondato sul presupposto che ogni essente sorga dal nulla e al nulla ritorni. Quella promessa viene mantenuta, a distanza di ventun anni, con questo libro. Dove alla Gioia, termine già presente in Destino della necessità e inusuale nel discorso filosofico, si appaia la Gloria, termine che ha un lungo passato, ma teologico più che filosofico. E di conseguenza l’uomo stesso – ovvero il soggetto che legge – scoprirà di essere, da sempre, qualcosa di radicalmente diverso da ciò che suppone di essere. Che ò appunto la più alta ambizione del pensiero in genere. ” Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, ò la Gloria. [â¦] E a maggior ragione ò la Gloria, se si tiene presente che la risposta ora fattasi innanzi dice che l’eterna e finita manifestazione dell’eterno e del destino ò un dispiegamento infinito che non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra, non ha la strada sbarrata da alcuno spettacolo conclusivo; e portando alla luce regioni sempre diverse della totalità dell’eterno non lascia cadere nell’oblio nemmeno la più piccola e irrilevante di tutte quelle che esso ha già portato alla luce â. La gloria ” La Gloria “, il cui titolo completo include il frammento eracliteo “Assa ouk òlpontai ” (cose che essi non sperano), ò un libro che, come lo stesso autore dichiara, rappresenta un debito nei confronti di chi, estimatori del suo pensiero, da anni, attendono risposte a domande lasciate in sospeso in quello che ò certamente una delle sue opere più indicative e importanti, cioò il ” Destino della necessità ” (1980), da cui si traevano le inevitabili conclusioni di un discorso che impegnava il filosofo sin dal 1964. Ma come accade spesso, in ogni autentico filosofare, le conclusioni non sono mai definitive, molte sono le sorprese che s’incontrano lungo il cammino a volte estenuante. E quello che l’autore ci offre in questo libro ò una chiarificazione che nulla concede al lettore ma tutto alla tesi in questione. Nel consueto modo di argomentare, Severino, ci conduce verso le asperità del suo pensiero prendendo in considerazione, sotto una luce diversa, temi oggi al centro del dibattito filosofico quali, il dolore, l’intersoggettività e il problema connesso dell’alterità . Il tutto attraverso una prosa di non sempre facile lettura, che non mancherà , soprattutto su alcune importanti questioni, di regalare momenti di gioia, ma anche di pena, a tutti i cultori di un pensiero argomentato con rigore. Il 1964 segna un’importante svolta nella filosofia di Severino. à l’anno della pubblicazione del suo celebre articolo ” Ritornare a Parmenide ” (1964), che farà molto discutere, nel quale si stabiliva la necessità di rimeditare il senso delle parole: l’essere ò e il non essere non ò. Sono gli anni in cui Heidegger interveniva in una serie di seminari, dedicati a Parmenide, in cui sosteneva che, per allontanarsi definitivamente dal giogo della soggettività moderna, era auspicabile un ritorno all’inizio, precisando, però, che tale ritorno non sarebbe dovuto consistere in un ritorno a Parmenide. Severino stesso ci riferisce, in ” La legna e la cenere ” (2000), l’opinione di Gennaro Sasso secondo cui le parole di Heidegger sarebbero forse un’allusione alla tesi contenuta nel suo articolo. Ma cosa si deve intendere con ritornare a Parmenide? Come Severino preciserà in più di un’occasione, si trattava di porre l’attenzione su queste semplici e pur inquietanti parole al fine di ripetere il parricidio platonico, che ò il maggior responsabile del nichilismo d’occidente, ormai penetrato sin nelle più intime fibre della nostra cultura, che si ò posto alla guida di tutto il mondo. L’età della tecnica, nella quale noi viviamo, esprime, più di ogni altra epoca del passato, la volontà di potenza, la volontà di poter produrre ogni cosa, persino l’uomo. Il nichilismo ò pensare che ogni cosa proviene dal niente ed ò destinata al niente. La cosa, priva d’ogni legame necessario con l’essere, può essere modificata a piacimento. Ma si tratta di comprendere che ciò ò un’illusione: perchè ò impossibile che l’essere possa non essere. Tutto il passato e il futuro sono, nulla proviene da nulla, essi non sono nè il semplice ricordo nè la palpitante attesa. Il passato, così come il futuro, sono eternamente in salvo dal niente anche se di questo non abbiamo coscienza. Ogni cosa, compresi noi stessi, siamo e non potremo mai morire veramente, poichè, al pari degli dòi, siamo eterni. Questo pensiero, qui semplificato, costituisce il tema cardine che, come in un poema sinfonico, ricorre nelle sue variazioni fino alla sua più autentica celebrazione espressa in questo libro. Da qui il frammento eracliteo, l’eternità ò ciò che noi non speriamo. La Gloria ò lo splendore incontrovertibile dell’eternità . “Dialogo su diritto e tecnica” Inconsueto, ma di notevole interesse, ò il dialogo tra il giurista e il filosofo, rispettivamente Natalino Irti – professore di Diritto civile – e Emanuele Severino. Interessante il tema, ossia il rapporto tra diritto e tecnica, e la forma, realmente dialogica ossia costruita sul contraddittorio, sulla “schermaglia” argomentativa, che si accende anche grazie alla, pur da lui stesso negata, confidenza con le “cose” filosofiche del giurista Irti. à questi ad esordire – il dialogo si articola in due “atti” – profilando la sua concezione del diritto, consolidata nella contemporaneità : il diritto, dopo la crisi del giusnaturalismo, non può che essere “positivo”: “posto [nel senso del participio passato di ponere]: e posto dagli uomini nella storicità del loro vivere”. A costituire il diritto, quindi, sono norme aventi esclusivamente validità procedurale, e non verità di contenuto. à all’interno di tali norme che le proposizioni ideologico-politiche o economiche -i molteplici là³goi- devono tradursi per riuscire ad ottenere efficacia (il che, ovviamente, significa prevalere sulle altre, antagoniste). Con una digressione sulla differenza che intercorre tra diritto e politica da una parte, legati al “territorio”, e economia e tecnica dall’altra, delocalizzate e destoricizzate, Irti giunge alla perentoria tesi che, nonostante l’indebolimento della politica e la normatività giuridica -tralasciamo alcune considerazioni sulla natura della democrazia- permane “la differenza logica tra la regola e il regolato: ossia, tra diritto, da un lato, e capitalismo e tecnica, dall’altro”. Irti affronta quindi la definizione che Severino dà della tecnica (si veda âIl destino della tecnicaâ) come “incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che ò incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni”. La sua critica si concentra su questo punto: siffatta capacità della tecnica non comprende, per sua costitutiva essenza, la capacità di scegliere “uno”, un “determinato”, scopo; la tecnica sarebbe segnata dall’astrattezza – o se si vuole dall’indeterminatezza – e perciò non in grado di rispondere alle domande fondamentali del diritto: che cosa prescrivere? Come comportarsi? In base quale criterio decidere, cioò separare la ragione e il torto? Alla fine dell’atto primo, Irti riassume la differenza tra la sua concezione e quella di Severino – sostenitore a suo giudizio di un “giustecnicismo” -in questi termini: se quello del diritto positivo ò il mondo della decisione e della scelta in circostanze determinate, esso si presenta come capacità di realizzare determinati scopi: la tecnica, così come pensata da Severino, rischia di essere invece un “apparato che risuscita gli antichi dòi”. Evidenziato l’accordo relativo al tramonto della verità immutabile e incontrovertibile, la risposta di Severino affonda nel cuore dell’intera questione: se la norma riesca in qualche modo a controllare la tecnica (o sia la tecnica a subordinare a sè il diritto, le norme). Se l’atteggiamento politico-giuridico continua a volere regolare la tecnica (così come l’economia), ciò non implica il successo di tale volontà . Al contrario, ò la tecnica che per Severino ò “destinata a diventare il principio regolatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà “. A partire da qui egli sviluppa la sua argomentazione: caratteristica di forme di volontà di potenza, nelle vesti di norme religiose, morali, giuridiche, politiche, economiche ò la volontà di realizzare scopi escludenti, ossia “la cui realizzazione mira insieme all’esclusione della realizzazione di altri scopi”. La tecnica per sua essenza non mira a scopi escludenti, bensì ha come scopo la crescita infinita nella propria potenza. Qual ò lo scenario epocale aperto dalla contemporaneità ? “La tecnica tende all’onnipotenza”. La tecnica rivela però una sua concretezza, poichè ò la forma della produzione reale degli scopi, produzione che concorre all’aumento indefinito dell’apparato scientifico-tecnologico: la tecnica ò non trascendente, come in fondo pensa Irti, bensì, si noti, trascendentale. Severino sottolinea che la dominazione della tecnica, che ò “processo tuttora in atto”, non elimina la norma, ma la subordina a sè. Un esempio concreto di ciò ò offerto dalla manipolazione genetica, dalla sua capacità di trasformare la normatività tradizionale a vantaggio della potenza della tecnica. Questa “distrugge” e sostituisce l’onnipotenza di Dio instaurando una dominazione che si presenta coma la forma rigorosa della Follia estrema dell’Occidente: solo rispetto al divenir altro delle cose del mondo, degli enti, infatti, può costituirsi una qualsiasi forma di volontà di realizzare scopi. Alla luce della tesi dell’intrascendibilità del diritto, Irti riprende il filo del suo discorso insistendo sul fatto che il capitalismo, come la tecnica, ha un costitutivo bisogno di diritto. A suo giudizio la tecnica in Severino assume, con “inattesa movenza kelseniana”, i caratteri della Grundnorm, norma suprema da cui ogni ad alta norma deriva. Egli ritiene però che anche la stessa tecnica, la normatività tecnologica, non possa non presentare un carattere escludente e contenutistico. Il rapporto tra il diritto e il capitalismo, o la tecnica, che dev’essere pensato sul piano del “prevalere storico”, sarebbe stravolto da Severino sulla base di un “rovesciamento logico” e dell’eliminazione della differenza tra principio regolatore (diritto) e regolato (tecnica): si assisterebbe così ad una derivazione di norme politico-ideologiche dalla Grundnorm tecnologica. Essa, in quanto “forma di volontà mirante per raggiungere scopi non escludenti, escluderebbe tutti gli scopi contrastanti con la propria infinita capacità di raggiungere scopi”. Irti intende sostenere, con acutezza, che la tecnica ha pur sempre uno scopo, ossia proprio quello di realizzare scopi, e quindi deve negare il suo opposto, che possiamo chiamare “anti-tecnica”? Non si procede oltre. Sottolineiamo en passant che nella sua prospettiva il diritto finisce per condividere alcuni connotati propri della tecnica: il diritto infatti si potrebbe definire come “infinita capacità di rendere efficaci (ed escludenti) volontà o proposizioni, ideologiche (politiche, economiche eccetera)”. Ritornando all’argomentazione di Irti, il presunto giustecnicismo severiniano si dovrebbe ridurre a ipotesi politico-ideologica in conflitto con le altre, costretta, se vuole imporsi, a “scorrere” nei nomodotti, nei canali procedurali del diritto. Anche la tecnica, con linguaggio forense, sarebbe una parte in causa agli occhi del giurista e non, come pensa invece il “filosofo”, super partes. In conclusione, la tecnica o ò teologicamente astratta oppure ò un’ipotesi contendente, tra le altre. Severino replica svolgendo le sue argomentazioni ad un livello più profondo. Egli nega che il contenuto delle norme sia ricavabile dalla volontà della tecnica di incrementare la propria potenza: piuttosto il diritto, il capitalismo o quant’altro, sono destinati a sottostare alla regola imposta dalla tecnica: il diritto diviene “mezzo” della tecnica. Nella filosofia di Severino la tecnica si sviluppa sull’impossibilità dell’esistenza di limiti assoluti dell’agire: questa ò la prospettiva decisiva dischiusa dal pensiero contemporaneo. à sì possibile dire che la tecnica “prevale storicamente”, ma in ciò avviene anche quel fondamentale “rovesciamento”, che Irti considera a torto puramente logico, per cui la tecnica stessa diviene scopo, regola, secondo necessità o destino (in ogni caso ò mantenuta la differenza regola/regolato). E si configura come tale perchè l'”esclusione” che essa implica non concerne l’opposto (antitecnica) ma, su un piano diverso, – ò un punto chiave della replica severiniana -, il carattere escludente degli scopi-volontà di potenza. Riguardo al contenuto delle norme (= mezzi), questo non ò annullato, cambia semplicemente: il loro contenuto inoltre non ò deducibile dalla “legge” della tecnica, con la quale invece ò possibile una sintesi (tra l’altro neanche in Kelsen dalla Grundnorm ò deducibile il contenuto delle altre norme). Nell’ultima, pregnante parte dell’analisi di Severino si delinea l’orizzonte peculiare della sua filosofia. Nel rivendicare l’esistenza di un conflitto tra le varie forme di volontà di potenza, Irti viene ad esprimere la tesi di fondo del pensiero contemporaneo: ma questa stessa tesi si rivela in fondo essere un’interpretazione. In che senso? Il pensiero contemporaneo non ò scetticismo ingenuo, ma consiste nella negazione della verità metafisico-epistemica (immutabile, che ò anche “morte di Dio”), sul fondamento-verità assoluta del divenire. Ma ò proprio quest’ultima che Severino ha da sempre messo in questione. Nel finale egli illustra una delle molteplici ragioni che sostengono l’inevitabilità del dominio della tecnica, la quale ò però condizionata dall'”evidenza” che il divenire, e il conflitto, il “gioco” (delle volontà di potenza) che ne ò espressione, sia innegabile: il dominio della tecnica, peraltro, se ha una sua inesorabile logica, ò però esso stesso casuale e destinato a tramontare. L’altra strada che si può percorrere ò allora quella tracciata dallo stesso Severino, impervia ed estrema, che confuta la verità del divenire e che, in particolare, non offre nella tecnica, come pensa Irti, la figura di un “nuovo Dio “, poichè proprio il Dio metafisico ha definitivamente soppiantato la tecnica (la filosofia di Severino proprio negli ultimi tempi ha conosciuto, forse, una sua “risoluzione” nel libro âLa Gloriaâ). “Lâanello del ritorno” â Come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno? Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poichè io ti amo, Eternità ! â; âCosì parlò Zarathustra, “I sette sigilli (ovvero il canto del sì e dell’amen)â. Con queste parole, Nietzsche esprime il senso del rapporto tra il divenire e l’eternità dell’eterno ritorno – dell’anello del ritorno: la volontà di creare (di “avere figli”), ossia il divenire stesso come continua creazione, ò possibile solo se non ò bloccata, resa impotente, dagli immutabili metafisico-morali e da quell’immutabile che ò il passato (che si costituisce come la dimensione dell’immodificabile per eccellenza, come il macigno del “così fu”: nel linguaggio dello Zarathustra, ciò ò rappresentato dallo “spirito di gravità “); quindi, il divenire – l’evidenza innegabile dell’Occidente – sarà possibile solo sul fondamento dell’eterno ritorno, della potenza della volontà sullo stesso passato. â L’anello del ritorno â ò dedicato all’analisi di queste tematiche e di queste implicazioni: attraverso un costante confronto con l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche, il volume di Severino esamina i testi in cui viene fondata la dottrina dell’eterno ritorno, prendendo in considerazione i cardini concettuali del pensiero nietzscheano e la sua potenza speculativa, che segna un punto di massimo rigore nello sviluppo del pensiero dell’Occidente e della fede nel divenire. Assieme a Leopardi (e – per quanto riguarda l’indagine sulla concreta struttura del divenire – a Gentile), Nietzsche rappresenta – per Severino – uno dei massimi punti di autoconsapevolezza del pensiero occidentale, uno dei momenti in cui l’essenza dell’Occidente – l’essenza del nichilismo – raggiunge la maggior chiarezza consentita a chi rimanga nell’orizzonte del nichilismo stesso: essi si spingono â fino al limite estremo della coscienza che l’Occidente, rimanendo se stesso, può avere della propria autentica essenza [… ] Leopardi e Nietzsche si portano a ridosso di quel limite, perchè scorgono ciò che per l’Occidente ò l’assolutamente impensabile, ossia che il divenire dell’essere ò contraddizione (autocontraddittorietà , impossibilità ) â. Il pensiero di Nietzsche va quindi preso sul serio: ma prendere sul serio il pensiero di Nietzsche significa innanzitutto, per Severino, evitare di ridurlo ad una riformulazione dello scetticismo ingenuo: significa, cioò, evitare di attribuire – come invece fa Heidegger – un carattere trascendentale alla negazione nietzscheana della verità , il quale riporterebbe il pensiero del nostro filosofo ad una posizione che, ben lungi dal costituire qualcosa di “abissale”, era già stata formulata e confutata fin dai tempi della Sofistica. Ora, Severino rileva invece che â affermazioni come: âogni conoscenza ò sempre falsa, ma vi ò, in tal modo, un rappresentareâ non hanno nulla a che vedere con lo scetticismo assoluto, ma dicono che, proprio perchè la conoscenza ò sempre falsa (âin tal modoâ), la conoscenza rappresenta qualcosa, ossia c’ò un rappresentare, e questo esserci ò la nostra unica certezza â. La “certezza fondamentale” ò la “constatazione” di un “fatto”; anzi, del “fatto”, il “fatto” del divenire dell’essere – dell'”essere che ha rappresentazioni”: â che l’essere abbia rappresentazioni non ò un problema, ò il fatto: se in generale vi sia un essere diverso da quello che ha rappresentazioni, se il rappresentare sia una qualità dell’essere [… ], questo ò un problema â. Allo stesso modo, non va intesa in senso trascendentale neppure la negazione nietzscheana del principio di non contraddizione: quello che Nietzsche nega, infatti, non ò l’opposizione di essere e nulla, di positivo e negativo (essenziale perchè si possa parlare di divenire: se il qualcosa fosse immediatamente identico al proprio altro, non potrebbe infatti diventare questo altro, proprio perchè lo sarebbe già ), bensì ò la valenza “logica” del principio di non contraddizione, quella fondata sul concetto di “cosa”; concetto che – sottolinea Nietzsche – ò di per sè falsificante, in quanto interpreta il flusso caotico del divenire introducendo in esso (per un’esigenza di conservazione vitale: per rendere prevedibile il divenire, rendendo uguale ciò che ò diverso) la stabilità . Ma – appunto – questa valenza “logica” del principio di non contraddizione viene rifiutata da Nietzsche proprio in quanto essa ò falsificante e, in ultima analisi, contraddittoria (in quanto in essa vengono identificati i contraddittori, viene considerato uguale – sulla base del principio di assimilazione – ciò che ò diverso): viene rifiutata, quindi, in forza dello stesso principio di non contraddizione, che esclude l’identità dei diversi (A non ò non-A). E, d’altro lato, la stessa dottrina dell’eterno ritorno richiede che ciò che eternamente ritorna, ritorni â così come esso ò stato ed ò â (Al di là del bene e del male, aforisma 56), cioò nel suo essere identico a ciò che esso ò stato, e nel suo non essere l’altro da ciò che esso ò stato. Se il pensiero di Nietzsche non ò riducibile ad una forma di scetticismo ingenuo, la negazione in esso operata delle “verità ” appartenenti all’ordine metafisico-morale non può essere fine a se stessa, ma deve essere sviluppata a partire da un’altra verità , considerata come la verità originaria, evidente e innegabile: e qual ò, per Nietzsche, questa verità innegabile? à (come sottolineato dal filosofo tedesco in una annotazione della primavera-autunno 1881, dal titolo “Certezza fondamentale”) la verità del divenire, che ò immediatamente presente come flusso di rappresentazioni: â l’annotazione sulla âcertezza fondamentaleâ rileva infatti che [… ] ò di per sè chiaro che il rappresentare non ò nulla di immobile, di uguale a se stesso, di immutabile: l’essere, dunque, che unicamente ci ò garantito, ò in mutamento, non ò identico a se stesso… [non ha, cioò, la fissità che il principio di assimilazione, con il concetto di “cosa”, vorrebbe imporgli, falsificando ciò che esso in realtà ò] – Questa ò la certezza fondamentale dell’essere â. à indubitabile l’essere delle rappresentazioni (ò indubitabile l’attività del rappresentare, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno l’attività di un soggetto), e questo essere si manifesta in continuo divenire: questa dimensione originaria ed innegabile del divenire verrà indicata da Nietzsche come “volontà di potenza”, e sarà da lui posta come l’essenza stessa dell’essere. Il divenire come volontà di potenza ò quindi per Nietzsche la verità prima e indubitabile. L’impegno centrale del testo di Severino sta nel mostrare come la dottrina dell’eterno ritorno, ben lungi dal rappresentare un corpo estraneo nel pensiero nietzscheano o, comunque, un “postulato pratico”, non teoreticamente fondato, sia invece la necessaria conseguenza di questa affermazione del divenire, e come questa necessità sia rigorosamente fondata negli scritti di Nietzsche. In particolare, Severino prende in esame lo sviluppo logico che intercorre fra tre capitoli di âCosì parlò Zarathustraâ: “Sulle isole beate”, “Della redenzione” e “La visione e l’enigma”. La distruzione – operata da Nietzsche – della tradizione occidentale ò la distruzione degli immutabili via via eretti da questa tradizione: in primo luogo, dell’immutabile costituito da Dio, inteso come l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro, qualcosa cioò che si sottrae alla volontà . Di fronte a questo Dio, alla volontà umana â non resterebbe più nulla da creare â. Il creare ò infatti innovazione, e l’innovazione presuppone che ci sia un ambito aperto alla novità : ora, la posizione di questo Dio immutabile che, come omnitudo realitatis, contiene già tutto in sè (ò “Pieno” e “Satollo”), esclude proprio la possibilità dell’esistenza di questo ambito di novità , necessario perchè il creare non sia ridotto a semplice apparenza, illusione. Ma che il creare umano non sia semplice illusione, ò per Nietzsche – così come per la tradizione che egli critica – l’evidenza fondamentale, la verità prima e indubitabile: ò evidente – per l’Occidente – che le cose divengono, passano dall’essere al nulla, esistono ora ma non esistevano prima e non esisteranno dopo. In quanto il divenire ò inteso come passaggio dall’essere al nulla (e viceversa), esso ò creazione: la creazione non ò quindi soltanto l’opera di Dio (che ò un determinato tipo di creazione, in cui viene posta in essere anche la materia, il sostrato delle cose), ma ò ciò che ò proprio di ogni tipo di divenire (perchè almeno qualcosa, qualche aspetto di ciò che diviene, passa dall’essere al nulla). Quindi, poichè il divenire ò l’evidenza fondamentale (ciò che per l’Occidente non può esser negato), poichè il divenire ò creazione, e poichè la creazione richiede l’apertura di un ambito di novità , Nietzsche conclude che l’esistenza di Dio (che, includendo già tutto in sè, esclude la possibilità dell’esistenza di questo ambito di novità ) vada negata: l’evidenza del divenire implica necessariamente la morte di Dio. Ora, Severino sottolinea come la forza della distruzione nietzscheana stia nel fatto che essa si basa sulla stessa fede nell’esistenza e nell’evidenza del divenire, che ò condivisa anche dalla tradizione criticata: la critica nietzscheana non ò dunque, per questa tradizione, qualcosa di puramente estrinseco, ma ò qualcosa di estremamente intrinseco, ò il necessario sviluppo di ciò che da quella tradizione ò affermato. Ma la critica nietzscheana non si ferma qui, bensì si estende (necessariamente) ad ogni immutabile epistemico che, posto al di sopra del divenire, finisce per vanificarlo, renderlo illusorio: l’uomo “metafisico-morale” della tradizione occidentale ha eretto questa serie di immutabili (metafisici, logici, etici… ) per dominare il divenire, per porre un rimedio all’angoscia che esso – in quanto imprevedibile – genera, ma questo rimedio si ò mostrato essere peggiore del male (perchè viene a ridurre ad illusione ciò che l’Occidente pone come l’evidenza prima, come la dimensione della vita stessa dell’uomo); l’uomo “dionisiaco”, il “superuomo”, si rende conto di questo ed affermando il divenire in tutti i suoi aspetti, pronunciando gioiosamente il proprio “sì” alla vita (anche nei suoi aspetti dolorosi e tragici), distrugge quella serie di immutabili che la tradizione ha edificato. Ma – e l’osservazione ò di centrale importanza – il “superuomo” non ò semplicemente altro rispetto all’uomo “metafisico-morale”: esso ò invece il necessario sviluppo di quest’ultimo, che si ha quando egli (in quella che Nietzsche indica come “l’ora del meriggio”) si rende conto che, con la posizione degli immutabili, ha tradito la propria più profonda essenza, il proprio essere volontà di potenza, divenire creatore. Ogni immutabile, ogni dimensione che si sottragga al divenire creatore, ò una forma di negazione dell’evidenza del divenire stesso (si badi: della fede nel divenire, che per l’Occidente ò la suprema evidenza); ogni immutabile, infatti, costituendo una dimensione alla quale ciò che nel divenire viene ad essere deve adeguarsi, dà un senso al divenire, lo rende in qualche modo prevedibile (se, ad esempio, la legge della gravitazione universale viene considerata come immutabile, allora si deve ritenere che ciò che viene ad essere debba adattarsi a questa legge, ed in ciò esso ò reso prevedibile). Ma l’essenza del divenire richiede che il divenire non abbia un senso, proprio perchè questo senso costituirebbe qualcosa al quale il divenire dovrebbe adattarsi, configurarsi, sì che esso non potrebbe più avere quella imprevedibilità che gli viene dal fatto che ciò che viene ad essere, viene (almeno in parte) dal nulla, ossia dall’assolutamente imprevedibile: dire che ciò che viene ad essere sia in qualche modo prevedibile – abbia quindi un senso che vada oltre al suo puro esserci di fatto -, significa dire che il nulla dal quale le cose provengono non sia realmente il nulla, e che quindi il divenire delle cose – come passaggio dall’essere al nulla – sia soltanto illusorio. Ora, l’ultima dimensione dell’immutabile destinata a cadere ò, per Nietzsche (Così parlò Zarathustra, “Della redenzione” e – quindi – âLa visione e l’enigmaâ), quella
- 1900
- Filosofia - 1900