Èmile Zola: la vita
Nasce a Parigi il 2 aprile 1840 e si trasferisce ad Aix-en-Provence tre anni più tardi al seguito del padre, per la costruzione di un canale che avrebbe dovuto portare l’acqua alla piccola cittadina francese. Rimasto orfano a soli cinque anni e in una precaria situazione economica, è costretto a frequentare prima il convitto di Notre-Dame e poi il collegio governativo di Aix, dove incontra alcuni suoi futuri compagni “d’arte” come Césanne, Baille, Valabrégue, Solari. E’ con loro che nelle pause degli studi, poco interessanti a suo giudizio, inizia ad avvicinarsi alla letteratura: «A quell’epoca i nostri amori erano, prima di tutto, i poeti. Non andavamo a zonzo da soli, avevamo sempre qualche libro nelle tasche o nei carnieri da caccia». Zola legge quindi i drammi di Hugo, De Musset, i romanzi di Scott, Balzac, Flaubert, scritti di Taine, versi di Lamartine.
Attorno ai quattordici anni sente l’esigenza di scrivere e mette in prosa lunghi brani di Chateaubriand. Nel 1858 si trasferisce con la madre a Parigi dove, dopo fallimentari tentativi di studi, trova lavoro alla dogana. Frequenti rimangono in questo periodo le corrispondenze con i suoi amici di Aix, dalle quali risulta l’insofferenza per le ristrettezze economiche e la mancanza di ispirazione. Di questo periodo sono Les grisettes de Provence, un racconto autobiografico, nostalgico degli anni ad Aix, contaminato da una sensibilità tardoromantica ispirata a De Musset.
Dal febbraio 1862 lavora alla casa editrice Hachette, dove viene in contatto con i principali autori del tempo e in pochi mesi, grazie alla sua efficienza e capacità di iniziativa, riesce ad ottenere un posto ben remunerato. Qui, per la prima volta, affronta il problema del pubblico, di come raggiungerlo, interessarlo e incuriosirlo, elementi fondamentali per un lavoro di successo.
In questo periodo si discute, negli ambienti parigini, di quanto lo scrittore debba essere coinvolto in prima persona nella narrazione e di quanto egli debba rimanere, invece, “impassibile” ed esterno. All’ideologia pre- ’48 si sta infatti sostituendo quella borghese, improntata su una visione meno soggettiva della realtà: si sviluppano correnti di pensiero come il Positivismo, lo Scientismo ed il Realismo, espressioni del modo di concepire la realtà della classe emergente borghese.
Zola, come molti altri scrittori, abbandona quindi il tardoromanticismo, per abbracciare lo schermo realista, del quale, come dice in una lettera all’amico Valabrégue, accetta «pienamente il suo metodo, il fatto di porsi in piena libertà davanti alla natura, per renderla nel suo insieme, senza alcuna esclusione».
Èmile Zola e il Naturalismo
Sulla base di questi ideali realisti nasce, appunto in Francia, la corrente letteraria del Naturalismo, di cui Zola ne viene considerato il caposcuola. Egli, con il saggio Il romanzo sperimentale, ne esprime, infatti, i principi: il romanzo deve fondarsi non sulla psicologia, ma sulla fisiologia e procedere con rigoroso metodo scientifico.
Attorno allo Zola si riunisce un gruppo di scrittori, che partecipano alle famose Serate di Médan, nella sua casa di campagna, discutendo ideali artistici, culturali ed etico-politici. L’idea di Zola è quella della ristrutturazione del pensiero estetico, egli vuole dare alla letteratura la stessa coerenza me-todologica della scienza medica.
“[…] se il terreno proprio del medico sperimentale è il corpo dell’uomo nei fenomeni dei suoi organi, in condizioni normali e patologiche, il terreno proprio di noi romanzieri naturalisti è ugualmente il corpo dell’uomo nei suoi fenomeni mentali e passionali, allo stato normale e morboso.
[…] noi portiamo avanti necessariamente il lavoro del fisiologo e del medico, che hanno perse-guito quello del fisico e del chimico. Perciò facciamo il nostro ingresso nella scienza”.
Il Naturalismo, quindi, si basa sull’idea che la psicologia umana potesse essere trattata in letteratura con la stessa imparzialità e lo stesso rigore con cui le scienze operano la classificazione dei fenomeni naturali.
“[…] i romanzieri sono certamente i lavoratori che si avvalgono di un maggior numero di scienze umane perché trattano di tutto e tutto devono sapere, essendo divenuto il romanzo un’indagine complessiva sulla natura dell’uomo. Perciò siamo stati spinti ad applicare al nostro lavoro il metodo sperimentale dal momento in cui esso è divenuto lo strumento di ricerca più efficace”.
L’attenzione dei naturalisti si sposta non tanto sulla natura, quanto sulla società, intesa come meccanismo di sopraffazione e di abbrutimento dei singoli: il nuovo romanzo ”clinico”, come veniva chiamato, doveva essere dedicato alle classi subalterne, alla piccola borghesia e al proletariato, proprio come per il ciclo dei Rougon Macquart, la “storia naturale di una famiglia sotto il secondo impero”, opera in venti volumi di Zola.
L’arte viene ormai intesa come “documento umano”, e a essa si chiede la stessa nitida imparzialità della fotografia. La documentazione rigorosa degli artisti per gli ambienti e per i personaggi si mischia con l’interesse umano per le folle proletarie e per le loro sofferenze, offrendo al lettore pagine intense, la cui forza consiste nella fedeltà al vero che diviene denuncia.
Il romanzo che sancisce il successo di Zola, a 26 anni d’età, è Teresa Raquin (1867); egli stesso afferma, infatti: “Questo romanzo, che ho quasi terminato di scrivere, sarà sicuramente la mia opera migliore. Credo di essermici impegnato anima e corpo”. E’, infatti, un “grande studio psicologico e fisiologico”, che contiene tutti gli elementi del Naturalismo maturo.
Teresa, la protagonista del libro, è infelicemente sposata con Camillo Raquin, uomo debole e malaticcio, e vive con la madre di quest’ultimo, una vecchia merciaia che per la felicità dei due ha acconsentito di trasferirsi dalla graziosa cittadina di provincia in cui viveva, Vernon, a Parigi. Qui trovano casa nel passaggio del Pont-Neuf, una galleria buia, “un buco umido e scuro”.
Quando Teresa entrò nella bottega in cui le sarebbe toccato vivere per sempre, le sembrò di scendere dentro la terra grassa di una fossa. La nausea la prese alla gola e il suo corpo fu percorso da brividi di paura. Guardò la galleria umida e sporca, visitò il negozio, salì al primo piano, fece il giro di tutte le stanze; quelle pareti nude, prive di mobili, l’atterrirono per lo stato di desolazione e rovina in cui si trovavano.
Le descrizioni degli ambienti sono fotografiche, il lettore non può immaginare nulla, ha infatti, tutti gli elementi sotto i propri occhi e vede la realtà nello stesso modo dei personaggi.
Teresa si lascia sedurre, poi, da Lorenzo, un amico del marito, cinico e vigoroso, e vive con lui il rapimento dei sensi che non ha mai potuto sperimentare col marito, a causa dello stato di salute di quest’ultimo. A poco a poco nasce nei due amanti l’idea di uccidere Camillo, idea che diventa realtà durante una gita in barca, sfruttando la paura dell’acqua della vittima:
Teresa era rimasta a riva. Seria, immobile, stava accanto all’amante che teneva l’ormeggio. Lorenzo si chinò e le mormorò rapido: «Fa’ attenzione, sto per gettarlo nel fiume: assecondami. Rispondo io di tutto». La donna impallidì orribilmente e restò come inchiodata al suolo. Gli oc-chi si allargarono e rimasero sbarrati mentre le membra si irrigidivano. […] Una lotta terribile la squassava da capo a piedi: con tutta la forza di cui disponeva tendeva disperatamente la sua re-sistenza nervosa per impedirsi di crollare in una crisi di pianto. […]
Lorenzo si alzò e sollevò Camillo tra le braccia, il marito di Teresa scoppiò in una risata. «Ah! No, mi fai il solletico, no», lo pregava tra le risa, «basta con questi scherzi: dai finiscila o mi farai cadere».
Lorenzo aumentò la stretta, dette una scossa: Camillo volse il capo e vide il volto spaventoso dell’amico, in preda alle convulsioni. Non capì subito, ma un vago terrore lo invase. […] Lorenzo scuoteva ancora Camillo tappandogli la gola con la mano: aiutandosi con l’altra riuscì infine a staccarlo dalla barca e a sollevarlo in aria tenendolo in equilibrio, come un neonato, tra le sue braccia vigorose. […] Camillo cadde lanciando un grido spaventoso. Tornò due, tre volte a galla, gettando urla sempre più sorde.
Nessuno però sospetta di Lorenzo, che prende, invece, il posto di Camillo nel cuore della vecchia merciaia e può sposare così Teresa. Ma la situazione diventa insopportabile per i due ex amanti, tra i quali, ogni notte, si corica il cadavere dell’annegato. Essi si accusano l’un l’altro dell’omicidio, perfino sotto gli occhi della vecchia Raquin, che paralizzata e ormai muta non può accusare gli uccisori del figlio.
Cresce, lungo tutta la seconda metà del libro, un sentimento di angoscia, che si impossessa mano a mano del lettore, e che trova la sua conclusione solo nel doppio suicidio-omicidio finale di Lorenzo e Teresa, che trovano nella morte la riappacificazione dei loro rimorsi:
[…] appena entrato all’obitorio, gli sembrò di ricevere un colpo violento in pieno petto: di fronte a lui,steso su una lastra, lo guardava Camillo, steso di schiena, col capo rialzato e gli occhi semiaperti. […]
Il ricordo del delitto gli si insinuava subdolo sorprendendolo ogni volta con stupore; non si sarebbe mai creduto capace di uccidere. […] «Dovevo essere ubriaco», pensava. «Quella donna mi aveva ubriacato di baci e carezze. Dio buono, che idiota sono stato. Per una storia simile, ho rischiato la ghigliottina…[…]».
I suoi pensieri si concentravano su Camillo […]. fino ad allora l’annegato non era mai venuto a turbare i suoi sonni ma ora l’immagine di Teresa riportava a galla lo spettro del marito. […] Un momento temé addirittura che il letto fosse scosso furiosamente e gli venne il sospetto che fosse Camillo, nascosto sotto il letto […]. Anche Teresa, in quella notte spaventosa era stata visitata dal fantasma di Camillo.
Lorenzo si sentì invadere da un’indefinibile sensazione di malessere posando le labbra sulle guance della vedova,e Teresa arretrò bruscamente, come se quelle labbra l’avessero bruciata nell’intimo. Era il primo contatto fisico che aveva con lui in presenza di terzi: il sangue le affluì al viso, d’improvviso si sentì coperta di rossore, stava perdendo il controllo di sé, quel controllo che aveva sempre mantenuto, ignorando ogni senso di pudore, nei suoi amori colpevoli.
Gli assassini avevano fatto di tutto per essere in due, di notte, a proteggersi mutuamente contro la loro vittima ma, per uno strano fenomeno, da quando erano finalmente riuniti il terrore non dava loro tregua. Si esasperavano, si rovinavano i nervi, erano continuamente perseguitati da crisi atroci di dolore e d’orrore se solo si scambiavano una parola o uno sguardo.
I suoi rimorsi erano puramente fisiologici. Il suo corpo, la sua carne tremante e i suoi nervi irritati avevano semplicemente paura di Camillo.
Si nota lungo tutto il libro la tecnica naturista nella descrizione dei sentimenti dei personaggi, il caso umano, viene trattato alla strenua di un fenomeno fisico o matematico, tramite un’accurata descrizione dei sentimenti, degli stati d’animo e delle azioni dei personaggi.
Le prime notti, non riuscirono ad andare a letto. Attendevano il giorno seduti davanti al fuoco […] Ma la stanchezza li prostrò a un punto tale che, una sera, finalmente si decisero a dividere lo stesso letto. […] Ma restarono lontani l’uno dall’altro e presero ogni possibile precauzione per non venire a contatto. […] Tra loro due c’era uno spazio enorme. In quello spazio veniva a coricarsi il cadavere di Camillo.
Quando al morsa implacabile della paralisi la [la vecchia Raquin] riafferrò saldamente e le fece capire che non sarebbe mai stata in grado di saltare alla gola di Teresa e Lorenzo, e che i suoi propositi di vendetta erano destinati a restare dei sogni, le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance. Non c’era nulla di più straziante di quella disperazione immobile e muta.
Teresa e Lorenzo giunsero, ciascuno per conto proprio, alla conclusione che solo un nuovo delitto poteva cancellare per sempre ogni conseguenza del primo. […] Lorenzo decise di uccidere Teresa per il pericolo che rappresentava, dato che poteva con una sola parola causare la sua ro-vina, oltre che per le sofferenze che gli procurava la sua presenza. Teresa decise di uccidere Lorenzo per le stesse ragioni.
Compresero. Ognuno dei due fu folgorato dal terrore ritrovando, negli occhi del complice, il proprio pensiero. Leggendo rispettivamente il loro segreto proposito sul volto devastato del compagno, provarono orrore e pietà di se stessi. […] Teresa afferrò il bicchiere [contenente del veleno], lo vuotò a metà e lo rese a Lorenzo che lo finì in un sorso. Fu un lampo.
Caddero uno sull’altro, folgorati, trovando alla fine sollievo nella morte. […] i cadaveri restarono tutta notte sul pavimento della sala da pranzo, contorti, rannicchiati, rischiarati sai riverberi giallastri che la luce gettava su di loro. E per circa dodici ore, fino all’indomani a mezzogiorno, la Raquin, muta e rigida, li contemplò ai suoi piedi, non potendo saziare i suoi occhi, schiacciandoli col suo sguardo inesorabile.
Il lettore è coinvolto nello scorrere della narrazione, che lo lascia con il fiato sospeso, travolgendolo in un impeto di passioni che non sono sue, ma che penetrando nel suo inconscio generano uno stato di angoscia esistenziale simile a quella dei protagonisti.
Grazie alla trattazione clinica di queste passioni, esse rimangono nella mente del lettore a lungo, anche dopo la fine della let-tura, portandolo a riflettere sulla natura umana.
Una volta pubblicato il romanzo Zola si trovò al centro di una attacco da parte di tutta la critica, che lo accusava di immoralità, sostenendo che il lavoro fosse d’incentivo per funeste passioni e definendo l’opera come “un’accozzaglia di fango e sangue, come un immondezzaio, una fogna e altro ancora”.
Questo acceso dibattito e la diffusa denuncia ebbero il merito, però, di portare il libro alla conoscenza del pubblico, che ne apprezzò fin da subito i contenuti e lo stile, nuovo e sperimentale. Zola ebbe quindi modo di rispondere a tutti i suoi “colleghi” critici nella prefazione alla seconda edizione, dove afferma: “In Teresa Raquin ho voluto studiare dei temperamenti, non dei caratteri. In questo risiede la ragione d’essere del libro. Ho scelto dei personaggi completamente sopraffatti dai nervi e dal sangue, privi di libero arbitrio, spinti ad agire nella vita dalla fatalità della carne. Teresa e Lorenzo sono degli animali travestiti da essere umani: nient’altro. Ho cercato di seguire da vicino in questi animali il lavoro sordo della passione, la spinta dell’istinto,le turbe cerebrali sopravvenute in seguito a una crisi nervosa.” All’accusa, poi, di aver perseguito come fine unico la confezione di un osceno quadretto di genere, Zola risponde: “Mi sono trovato nella situazione di quei pittori che dipingono dei nudi senza essere sfiorati dal minimo compiacimento personale e che restano di sasso quando un critico scrive di essere profondamente scandalizzato dalla natura oscena della loro opera”.
Il suo sforzo onesto di approfondire nella pratica letteraria i temi dibattuti teoricamente negli ambienti intellettuali più vivi e presenti non fu quindi compreso dei contemporanei, ma ha permesso a Zola di diventare uno dei maggiori esponenti del Naturalismo francese.
Oltre a Teresa Raquin Zola scrisse anche la trilogia delle Tre città (Trois villes): Lourdes (1894), Rome (1896) e Paris (1898), in polemica con la chiesa cattolica e le superstizioni su cui si fonderebbero le religioni. In occasione del “caso Dreyfus”, inoltre, l’autore interviene con una Lettre a jeunesse (1897) e con il famoso pamphlet J’accuse!(1898), con cui si schierava decisamente a fianco del capitano Dreyfus, in seguito alla incarcerazione del quale, Zola fugge in esilio in Inghilterra.
E’ in seguito a questi avvenimenti che lo scrittore acquista una statura intellettuale e morale di rilievo europeo. Rientrato a Parigi, vi svolge la sua ultima attività letteraria, che porta i segni del nuovo clima creatosi attorno a lui: lo Zola chirurgo impassibile e oggettivo viene sostituito da uno Zola messianico, al servizio dei valori progressivi dell’umanità. L’ultimo progetto si inserisce all’interno di questi ideali ed è costituito ancora da un ciclo, I quattro vangeli (Les quatre évangiles), di cui furono pubblicati Fecondità (Fecondità, 1899), Lavoro (Travail, 1901) e, postumo, Verità (Verité, 1903); il quarto romanzo, che doveva intitolarsi Giustizia, non potè essere scritto per la morte improvvisa dell’autore, che avvenne nel sonno per le esalazioni di una stufa, nel 1902. Sulla sua morte non fu mai chiarito il sospetto di un attentato, probabilmente dovuto alle sue posizioni politiche maturate dal “caso Dreyfus” in avanti.
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