Epistula III, 16 (prima parte) - Studentville

Epistula III, 16 (prima parte)

Adnotasse videor facta dictaque virorum feminarumque alia clariora esse alia maiora. Confirmata est opinio mea

hesterno Fanniae sermone. Neptis haec Arriae illius, quae marito et solacium mortis et exemplum fuit. Multa referebat aviae

suae non minora hoc sed obscuriora; quae tibi existimo tam mirabilia legenti fore, quam mihi audienti fuerunt. (3) Aegrotabat

Caecina Paetus maritus eius, aegrotabat et filius, uterque mortifere, ut videbatur. Filius decessit eximia pulchritudine pari

verecundia, et parentibus non minus ob alia carus quam quod filius erat. Huic illa ita funus paravit, ita duxit exsequias, ut

ignoraret maritus; quin immo quotiens cubiculum eius intraret, vivere filium atque etiam commodiorem esse simulabat, ac

persaepe interroganti, quid ageret puer, respondebat; ‘Bene quievit, libenter cibum sumpsit.’ Deinde, cum diu cohibitae

lacrimae vincerent prorumperentque, egrediebatur; tunc se dolori dabat; satiata siccis oculis composito vultu redibat, tamquam

orbitatem foris reliquisset. Praeclarum quidem illud eiusdem, ferrum stringere, perfodere pectus, extrahere pugionem, porrigere

marito, addere vocem immortalem ac paene divinam: ‘Paete, non dolet.’ Sed tamen ista facienti, ista dicenti, gloria et

aeternitas ante oculos erant; quo maius est sine praemio aeternitatis, sine praemio gloriae, abdere lacrimas operire luctum,

amissoque filio matrem adhuc agere.

Versione tradotta

Caro Nepote,
Mi sembra di aver osservato che i fatti e le parole degli uomini e delle donne siano alcuni

più famosi, altri più grandi. In questa opinione mi confermò il racconto che Fannia mi fece ieri. È costei la nipote di

quell'Arria, che fu di conforto e di esempio al marito nel morire. Molte cose mi narrava della nonna sua, non meno grandi di

questa, ma meno note; e ritengo che appariranno a te altrettanto degne di ammirazione nel leggerle, quanto lo furono a me

nell'udirle. Cecina Peto, suo marito, era malato; parimenti era malato il figlio, e ambedue, a quel che pareva, mortalmente.

Venne a morte il figliolo, di una rara bellezza, di pari modestia, e caro ai genitori per tutte le sue qualità, ancor più che

per esser loro figlio. Essa preparò i funerali del figliolo e ne guidò l'accompagnamento funebre, in modo tale che il marito

non si accorgesse di nulla: si che quando entrava nella camera di lui faceva credere che il figlio vivesse e stesse meglio, e

interrogata sovente su ciò che faceva il ragazzo, rispondeva: «Ha riposato bene, ha preso volentieri il cibo». Quando le

lacrime a lungo represse stavano per aver ragione e prorompere, usciva dalla camera: allora dava sfogo al proprio dolore; dopo

esser si sfogata, asciugati gli occhi, ricomposto il volto, rientrava, come lasciando fuor dall'uscio il proprio

lutto.
Fu certo famoso quell'altro gesto suo: stringere il pugnale, immergerlo nel petto, estrarre la lama, porgere

l'arma al marito, soggiungendo un detto divenuto immortale e quasi divino: «Peto, non fa male». Tuttavia facendo e dicendo

ciò essa aveva dinanzi agli occhi la gloria e l'immortalità; è ancor più grande, senza il premio dell'immortalità, senza

il premio della gloria, nascondere le lacrime, comprimere il dolore e continuare a comportarsi come madre di un figlio che non

è più.

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