Leitmotiv del pensiero kierkegaardiano è lo sforzo costante di chiarire le possibilità esistenziali che si offrono all’uomo, ovvero gli stadi o momenti della vita che costituiscono le alternative dell’esistenza tra cui egli è condotto a scegliere. La prima che viene affrontata nella raccolta di scritti “Aut-Aut” è appunto la “vita estetica”, l’immediatezza di chi vive nell’attimo, fuggevolmente, poeticamente (ovvero nel contempo di immaginazione e riflessione), alla continua ricerca dell’interessante, del degno di essere vissuto solo perché degno di essere raccontato, in una continua ebbrezza intellettuale. L’esteta è incapace e si rifiuta di scegliere chi essere, perché la ripetizione di un qualsiasi dettaglio esistentivo creerebbe monotonia e richiederebbe lo sforzo di affrontare e sostenere la responsabilità di un’identità: ecco perché chi vive in questo modo finisce per “morire la morte”, contrarre la “malattia mortale” ed essere in definitiva disperato, ovvero qualcuno che non sa rapportarsi con se stesso. Urta contro l’impossibilità fondamentale di non essere mai nulla di definitivo, perché anche se lo rifiuta, non può rompere il rapporto con la sua stessa essenza; e se al contrario, volesse eticamente diventare se stesso, gli risulterebbe impossibile, essendo finito, essere autosufficiente. Soltanto nella vita religiosa, nella fede, l’uomo, pur volendo essere se stesso, non si illude sulla sua insufficienza e si pone in un corretto rapporto con la potenza che l’ha posto, cioè riconosce la sua dipendenza da Dio, unico faro nell’angoscia divorante della possibilità, proprio perché tutto gli è possibile.
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