ll mestiere del filologo tende ad essere un po’ sottovalutato nella percezione comune, come se fosse per sua natura inferiore rispetto a quello creativo del poeta o dello scrittore: un mestiere parassitario, insomma. Ancor più sottovalutato è poi il mestiere del flilologo nell’antichità: proverbiale figura di pedante, intriso di dinozionismo scolastico, assolutamente privo di originalità, se non di intelligenza. Invece non è così (o almeno non sempre). La filologia (scienza dell’edizione critica e dell’interpretazione dei testi letterari) e la linguistica (scienza del linguaggio) non erano nell’antichità discipline separate, ma costituivano i due filoni principali della materia chiama ta «grammatica».
L ‘antropologo americano L. Alfred Kroeber, che si occupò della nascita della grammatica dal punto di vista dello sviluppo culturale dell’umanità, metteva in evidenza il fatto che filologia e grammatica si fossero sviluppate (più o meno indipendentemente) proprio nei due centri culturali maggiori della cultura universale: l’India e la Grecia. Dall’India lo studio linguistico e filologico si spostò verso Oriente, influenzando Cina e Giappone; dalla Grecia si spostò prima in Occidente, a Roma, per poi influenzare in modo determinante la grammatica e la filologia araba e di qui quella ebraica.
Kroeber notava come la riflessione sui testi (filologia) e sul linguaggio (linguistica) si fosse sviluppata, in India e in Grecia, all’apice di una straordinaria fioritura letteraria e creativa: e fosse sorta, in entrambi i casi, dalla necessità di meglio comprendere e conservare un patrimonio di testi che erano ormai sentiti come centrali, se non addirittura sacri (i Veda, Omero, poi Virgilio e la Bibbia) all ‘interno di queste civiltà.
Ogni civiltà possiede infatti quelli che si possono chiamare “testi di cultura”, cioè tesori di valori filosofici, riti religiosi, vari modelli di comportamento: la cura testuale e interpretativa operata dai grammatici permetteva a quei testi di rimanere vitali, e in ultima analisi permetteva alla cultura di conservare la propria identità, il proprio codice. D’altro lato, riflettere sui testi, così come riflettere sul linguaggio, è un’operazione altamente astratta, scientificamente rigorosa, che implica la capacità di elaborare regole, e soprattutto, quella di verificarle: sottoponendole a un continuo giudizio, e modificandole tutte le volte che non siano in grado di spiegare i fenomeni per cui sono state elaborate. Il processo di astrazione e generalizzazione, così come quello di verifica empirica delle elaborazioni teoriche, rimane tuttora il fondamento del pensiero scientifico. Secondo Kroeber, insomma, India e Grecia avrebbero fatto uno straordinario dono allo sviluppo della scienza e della cultura umana. Non è un caso se, nel XIX secolo, l’enorme fioritura della linguistica storica e comparativa sia stata causata dalla scoperta della grammatica indiana, e dalla sua utilizzazione parallela con quella di tradizione greca. Il metodo rigoroso di analisi e classificazione elaborato dai grammatici indiani fu insomma più importante della stessa scoperta dell’affinità genealogica tra il sanscrito e le lingue europee. La scoperta della grammatica e della filologia a Roma è dunque un fenomeno tutt’altro che trascurabile.
A Roma, la grammatica era presente fin dalle origini della letteraturafilologia ed era strettamente unita alla poesia, secondo l’ideale alessandrino. Basti ricordare che Livio Andronico è un tipico esempio di poeta-grammatico, che il massimo poeta arcaico Ennio si era auto proclamato «filologo», e che l’interesse per i problemi ortografici era ancora forte in Accio e in Lucilio. A partire dalla fine del Il secolo a.C. cominciano a delinearsi anche a Roma, come già era avvenuto ad Alessandria, delle figure di grammatici che si dedicano esclusivamente allo studio e alI ‘insegnamento. La filologia nacque a Roma soprattutto per la necessità di avere a disposizione edizioni affidabili per la scuola: la letteratura latina cominciava infatti ad avere una certa consistenza, ma a Roma non esisteva un ‘istituzione statale come la Biblioteca di Alessandria, che aveva il compito di approntare e custodire le copie “ufficiali” degli autori più importanti. Le opere dei fondatori della letteratura latina rischiavano di andare perdute, se conservate in poche copie manoscritte, oppure di essere trasmesse con un testo zeppo di errori, se erano state trascritte in molte copie senza alcun controllo. La filologia alessandrina metteva a disposizione dei primi filologi romani gli strumenti critici e intellettuali per affrontare questo compito.
Questo fatto è particolarmente evidente nel più importante filologo di questo periodo: Lucio Elio Stilone Freconino, che tra I ‘altro fu insegnante di Cicerone e Varrone. La sua opera più impegnativa fu l’edizione critica delle commedie plautine: fra il gran numero di commedie attribuite a Plauto ne raccolse 130 che riteneva autentiche, le corredò di segni diacritici per segnalare i problemi testuali, e operò la distinzione dei vari tipi di versi usati dall’autore, attraverso una particolare disposizione dei versi stessi sulla pagina, detta «colometria», che in parte si è conservata nella tradizione manoscritta.
Altri filologi si occuparono degli epici arcaici, Livio Andronico e Nevio, il cui testo, in origine carmen continuum, fu allora diviso in libri secondo il modello alessandrino: per Nevio l’autore di questa edizione divisa in libri fu Ottavio Lampadione. Gli Annales di Ennio furono invece oggetto di un commento da parte di Quinto Vargunteio. Anche la recente opera di Lucilio fu edita secondo criteri metrici da Vettio Filocomo.
1Anche la linguistica fu presente a Roma fin dalle origini, indissolubilmente legata alla filologia e alla poesia, in personaggi come Livio Andronico, Ennio e Lucilio. La particolare configurazione della letteratura latina, in continuo contatto con i modelli della letteratura greca, determinò infatti negli autori latini una situazione di bilinguismo, che obbligò al confronto tra le lingue, e costituì già un’operazione di grande ricchezza intellettuale, perchè permise di riconoscere immediatamente, attraverso l’analogia e la differenza, la natura delle strutture linguistiche. Roma si trovava dunque nelle condizioni migliori per poter recepire quanto di più aggiornato si andava elaborando in questo campo da parte degli intellettuali greci.
I problemi di fonologia erano stati i primi ad essere oggetto di osservazione. La fonologia fa comprendere che il linguaggio, in apparenza un fluire continuo di suoni, è in realtà costituito dalla combinazione di un numero limitato di elementi minimi in grado di distinguere il significato: i fonemi. In prima approssimazione, il fonema si può identificare con la “lettera” dell’alfabeto. Infatti, il riconoscimento degli elementi minimi del linguaggio è strettamente legato alla scrittura: il termine indicante l’«elemento» è infatti significativamente in greco stoicheion un derivato da stoichos «fila», con riferimento alla fila dei caratteri grafici. Anche il latino elementum, dall’etimologia più problematica, ha probabilmente a che vedere con la scrittura. Dunque, la fonologia per gli antichi si poneva in termini meno astratti che per i moderni, ed era legata al problema pratico dell’ortografia. L ‘adattamento al latino dell’alfabeto di origine greco-etrusca, e poi la rapida evoluzione fonetica del latino avevano posto a più riprese dei problemi ortografici. Si trattava infatti di adattare l’alfabeto all’evoluzione della lingua, cercando di mantenere il più possibile la corrispondenza costante fra il suono e il segno: un problema che si ripropone ancor oggi in molte lingue, specialmente in quelle, come il francese o 1 ‘inglese, in cui la corrispondenza fra “come si scrive” e “come si legge” si è ormai persa, creando grossi problemi di apprendimento.
Le origini della linguistica come scienza autonoma a Roma sono legate ad un evento piuttosto banale. Nel 168 a.C. era giunto a Roma come ambasciatore del re Attalo di Pergamo il dotto Cratete di Mallo, uno dei massimi esponenti della scuola di Pergamo, che assieme alla scuola alessandrina era alI’avanguardia negli studi grammaticali. Secondo quanto racconta Svetonio, Cratete inciampò in una botola della cloaca massima nei pressi del Palatino e si ruppe una gamba. La frattura lo costrinse a fermarsi a Roma più del previsto, e cosi ebbe modo di discutere la sua dottrina con gli studiosi romani.
Cratete rese noto infatti anche a Roma il dibattito contemporaneo, nel mondo ellenistico, sul problema dell’analogia e dell’anomalia. A questi principi teorici contrapposti si richiamavano le due più importanti scuole grammaticali dell’epoca: l’analogia era sostenuta dalla scuola filologica alessandrina facente capo ad Aristarco, l’anomalia era invece sostenuta dalla scuola di Pergamo, e in particolare dallo stesso Cratete.
Gli analogisti, sviluppando spunti già presenti nella tradizione filosofica aristotelica, riconoscevano nei fenomeni della flessione e della sintassi l’esistenza di regole: avevano scoperto in pratica quello che la linguistica contemporanea avrebbe confermato a un livello di maggiore formalizzazione: che il linguaggio è un sistema di segni. L ‘analogia, espressa nella forma della proporzione linguistica (ad esempio rosa sta a rosae come lupus sta a lupi), era lo strumento formale che esprimeva le capacità computazionali che la mente umana dimostra applicando le regole grammaticali.
Contro questa impostazione reagivano gli anomalisti, partendo dalla tradizione della filosofia stoica, concepivano il linguaggio come una libera creazione dell’uomo, continuamente in divenire: ponevano dunque in primo piano l’importanza dell’uso linguistico e si soffermavano sulle particolarità e sulle eccezioni: appunto le “anomalie”. Anche gli anomalisti avevano fatto una scoperta importante: che la natura del sistema linguistico è caratterizzata dall’esistenza di costanti, ma anche di variabili.
Questa problematica suscitò dunque grande interesse anche a Roma. Gli studiosi romani si inserirono volentieri nel dibattito: lo stesso Elio Stilone tentò un compromesso fra le due posizioni, e il suo tentativo fu poi sviluppato dal suo allievo Varrone. Anche dopo la visita di Cratete, per tutto il I secolo a.C., i principali linguisti greci continuarono a mantenere stretti contatti con Roma: fra gli analogisti il più famoso fu Tirannione, e fra gli anomalisti Alessandro Poliistore, liberto di Silla.
Un altro importante campo di immagine dei grammatici antichi fu quello relativo alla natura e all’origine delle parole. Il problema fondamentale era il seguente: il significato delle parole ha un fondamento nella natura o è il frutto di una convenzione? Detto in termini più moderni: il segno linguistico è motivato o arbitrario?
Il problema occupa interamente il primo trattato linguistico della letteratura greca, il Cratilo di Platone, senza giungere ad una soluzione chiara. Aristotele e i peripatetici, ma anche gli epicurei e i grammatici alessandrini, optano per la convenzione, mentre gli stoici sostengono l’esistenza di un rapporto naturale tra le parole e le cose.
A queste diverse posizioni sulla natura del linguaggio erano strettamente correlati i diversi modi di intendere l’etimologia, cioè lo studio del significato «autentico» delle parole. Per noi oggi l’etimologia è una scienza storica, e ritrovare il significato autentico di una parola significa scoprire il suo uso più antico, magari per mezzo della comparazione con altre lingue della stessa famiglia linguistica. Per gli antichi, trovare l’etimologia della parola significava trovare la motivazione del segno linguistico. Per gli alessandrini, ci si doveva limitare perciò a indicare i rapporti espliciti di derivazione di una parola dall’altra per mezzo di prefissi e suffissi (ad es. terrestris da terra). Per gli stoici, si dovevano invece indagare anche le parole semplici: ad esempio, sappiamo che Elio Stilone propose l’etimologia di terra dal verbo tero «logorare», perché la terra viene calpestata. Nigidio Figulo propose di interpretare il significato dei pronomi nos e vos in base al fatto che pronunciando vos (naturalmente con la pronuncia classica uos), protendiamo le labbra verso gli altri, mentre pronunciando nos le teniamo ferme, come concentrati su noi stessi.
Nella prima metà del I secolo a.C., grazie all’attività di grammatici tecnica greci attivi a Roma, come Tirannione, Filosseno e più tardi Trifone,vengono fissate le basi scientifiche della grammatica “tecnica”, intesa come scienza autonoma, distinta sia dalla retorica che dalla filosofia, e finalizzata esclusivamente alla descrizione del linguaggio. La grammatica tecnica è forse l’ultima disciplina scientifica, in ordine di tempo, creata dalla cultura ellenistica: ma ebbe subito una grande diffusione, tanto da divenire la materia scolastica per eccellenza, dall’antichità fino ad oggi. Divenuta scolastica, però, la grammatica tecnica venne contemporaneamente svalutata come scienza, e solo la linguistica contemporanea, con la teoria della grammatica generativa, ha riscoperto il valore scientifico di una grammatica altamente tecnica. La grammatica antica fissò innanzitutto una terminologia scientifica e un reticolo classificatorio.
Tirannione fu il primo autore a comporre un’opera intitolata «Sulle parti del discorso». Quelle che la traduzione scolastica chiama «parti del discorso», si dovrebbero più esattamente definire «elementi della frase». La scomposizione della frase nei propri elementi costitutivi infatti è l’obiettivo principale della grammatica scolastica. La classificazione delle “parti del discorso”, con la fondamentale divisione tra «nome» e «verbo», ha la propria origine in Aristotele, ma rimane per qualche secolo piuttosto variabile da un autore all’altro: solo nei primi secoli dopo Cristo si giungerà alla definizione di uno schema canonico di otto parti (nome, pronome, verbo, avverbio, participio, congiunzione, preposizione, interiezione). Un’importante parte del discorso come l’aggettivo verrà individuata nella sua autonomia solo nel Medioevo.
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