Questo argomento è affrontato in due contesti ben precisi: la prima guerra mondiale e il carteggio con Albert Einstein, durato circa 17 anni. Dopo un iniziale entusiasmo, ben presto rivisto e corretto, all’inizio delle ostilità nel 1914, Freud riprende i temi della disillusione e dell’aggressività che aveva avviati con la critica alla società comunista.
La guerra è, secondo Freud, una forma di regressione collettiva proprio a causa della delusione. I fattori che la determinano sono due: gli Stati che ci rappresentano non hanno nulla di morale (delusione); gli individui sono tornati ad uno stadio di brutalità inconciliabile con il progresso civile (spaesamento).
Lo spaesamento, al pari della vita onirica, ci dice la psicoanalisi, dimostra che le pulsioni sono proprie dell’essere umano. Si assiste nella guerra ad una sorta di regressione perché con la guerra la psiche abbandona le regole della civiltà per manifestare il ritorno alla fasi più recondite della vita psichica.
Più tardi, a partire dal 1932, ad Einstein che chiedeva a Freud se fosse possibile “liberare gli uomini dalla fatalità della guerra”, lo psicoanalista dimostra la comprensibilità della guerra e la difficoltà a recidere i meccanismi tipici della psiche, le pulsioni appunto. Alla “normalità” della guerra si oppone l’atteggiamento psichico proprio del processo civile: non è rifiuto, ma intolleranza costituzionale alla guerra. È però difficile, conclude Freud, contenere la forza distruttiva della psiche.
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