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Gabriele D'Annunzio

Vita, opere e tematiche fondamentali di D'Annunzio, con un'analisi approfondita dell'Alcyone.

GABRIELE D'ANNUNZIO: TUTTE LE INFORMAZIONI

La vita e le opere

Gabriele D’Annunzio è stato non solo uno dei massimi scrittori del decadentismo europeo, ma anche un fenomeno di costume, capace, per quasi sessant’anni, di occupare le prime pagine dei giornali, prima con le sue innumerevoli imprese di seduttore e la sua vita favolosamente dispendiosa, poi, dal 1915, con i suoi trascinanti comizi politici e con le sue gesta militari. La sua fama, insomma, non è legata solo alle sue opere letterarie, ma anche ad una vita che, programmaticamente, doveva essere una specie di opera d’arte e uno strumento di autopromozione.

Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863, primo figlio maschio dopo due femmine, destinato a ereditare le proprietà terriere del padre e il cospicuo patrimonio di uno zio commerciante. Vivace, d’intelligenza precoce, il piccolo Gabriele cresce come un principino coccolato e viziato: una condizione in cui affondano le radici psicologiche della sua invincibile fiducia in se stesso ma anche del suo spasmodico bisogno di essere lodato e dunque d’inseguire il successo. Gabriele compie i primi studi a Pescara e nel 1874 entra nel collegio Cicognini di Prato, una delle prestigiose scuole italiane del tempo, dove consegue la licenza liceale classica nel 1881.

All’inizio degli anni Novanta, D’Annunzio scopre la filosofia di Nietzsche e le sue tesi sul “superuomo”, convincendosi della necessità di agire e di incidere sul mondo reale e abbandonando l’estetica e passiva contemplazione del bello. Ora egli ritiene necessario comunicare con le masse, e decide perciò di avvicinarsi al teatro.

La produzione drammaturgica di D’Annunzio può essere divisa in tre filoni. Il primo comprende le tragedie che nascono dalla rielaborazione delle tematiche superomistiche in una chiave più o meno politica: La città morta (1896), La Gioconda (1898), La nave (1909). Nel secondo prevale invece una più raccolta sesualità, cui si accompagna spesso il tentativo di ricostruire ambienti del passato(come già in La nave): Sogno d’un mattino di primavera (1897) , Sogno d’un tramonto d’autunno(1898), Francesca da Rimini (1902), Fedra (1909), Le martujre de Sant Sébastien (in francese 1911). Il terzo gruppo è costituito dalle tragedie di argomento abruzzese: La figlia di Iorio (1903), unanimamente considerata il suo miglior testo teatrale, e la La fiaccola sotto il moggio (1905). Questi ultimi drammi si ricollegano apparentemente alla novellistica giovanile, di ispirazione regionale, ma in realtà appartengono all’atmosfera delle Laudi, la maggioropera dannunziana in versi, il cui titolo completo è Laudi del cielo del mare, della terra degli eroi. I primi tre libri (Maia, Eletra, Alcyone)escono nel 1903, il quarto(Merope) nel 1912.Con le Laudi gli ultimi drammi condividono la propensione al canto disteso, collocato però entro cupe vicende di passioni ancestrali. Nella scelta teatrale dannunziana non bisogna dimenticare il ruolo svolto dalla relazione con Eleonora Duse, attrice famosissima, relazione che il poeta sfruttò anche come fonte di pubblicità e di guadagno. In ogni caso il rapporto con la Duse coincide con il suo periodo di maggiore fertilità creativa (1899-1903).

Intanto D’Annunzio s’impegna in politica: nel 1897 viene eletto alla Camera per la Destra, con un programma molto conservatore. La sua presenza in Parlamento sarà poi però tutt’altro che assidua, pur facendosi ricordare per qualche episodio clamoroso. Il 24 marzo 1900, durante un duro dibattito sulle leggi speciali proposte dal reazionari governo Pelloux, il poeta passa teatralmente ai banchi della Sinistra, gridando “come uomo di intelletto, vado verso la vita”. Alle elezioni successive si presenterà addirittura nella lista dei socialisti, ma non verrà rieletto.

La Duse continua a interpretare i suoi drammi, e D’Annunzio riprende a seguire le tournèe. Per qualche anno anzi la vita di D’Annunzio sembra ridursi essenzialmente ai viaggi al seguito delle rappresentazioni delle proprie opere. Non è solo una vacanza: la presenza in teatro dell’autore serve infatti ad attirare pubblico. Nonostante i legami artistici ed economici, la relazione con la Duse volge però al termine: a parte il continuo turbinare di amanti, nel  1904 il poeta si lega alla giovane e bellissima Alessandra di Rudinì Carlotti (figlia dell’ex presidente del consiglio Antonio di Rudinì), con cui convive fino al 1906. Seguirà poi la relazione con la contessa fiorentina Giuseppina Mancini, lasciata un anno dopo per la bella contessa russa Natalia de Goloubeff, con cui resterà fino al 1915.

La situazione economica intanto si va facendo drammatica, al punto che nel, 1910, D’Annunzio sfugge ai creditori recandosi in Francia, dove resta per cinque anni. Quando il 4 novembre, con la vittoria sopravvengono la pace e l’armistizio, D’Annunzio non nasconde la sua delusione: a parer suo e di molti altri, lo stato ha svenduto la vittoria ottenuta  con tanto sacrificio rinunciando all’Istria e alla Dalmazia. Fra i più attivi promotori del mito dell’Italia della “vittoria mutilata”, D’Annunzio rivendica il diritto dell’Italia alla Dalmazia e a Fiume, attizza la protesta con discorsi incendiari. Quando un gruppo di ufficiali gli propone di guidare una marcia su Fiume, il Vate non ci pensa due volte: l’11 settembre 1919 parte da Ronchi, in Friuli, con un piccolo esercito d’irredentisti, poeticamente ribattezzati “legionari”. Il giorno dopo entra a Fiume, che occupa in nome del popolo italiano, ma contro le decisioni del governo e della Società delle nazioni.

D’Annunzio non ha un programma, ma cerca di cavalcare un movimento in cui si mescolano tendenza politiche diverse, dal nazionalismo più aggressivo alle rivendicazioni sociali del sindacalismo rivoluzionario. Il governo italiano non può però tollerare l’esistenza di questa singolare città-stato: il 21 dicembre (il ”Natale di sangue”, come lo chiamerà il poeta) assedia Fiume, e D’Annunzio è costretto ad abbandonare la città dalmata. Deciso a tornare alla vita privata e all’arte, si ritira in una villa sul lago di Garda nei pressi di Gardone Riviera. La battezzerà pomposamente “il Vittoriale degli italiani”, anche se di fatto vi vivrà in una  condizione tutt’altro che vittoriosa, controllato dalle spie di Mussolini, che ufficialmente lo esalta quale Vate della patria, ma di fatto teme che possa di nuovo infiammare le piazze. Gli ultimi anni di D’Annunzio trascorrono fra libri e, nonostante l’età, numerosi amori passeggeri. Il primo marzo 1938 muore improvvisamente per un’emorragia cerebrare.

La produzione letteraria fra crisi e mistificazione

L’opera dannunziana è costituita da numerosi testi, che presentano un‘estrema varietà e coprono molti generi letterari: poesia lirica, novella, romanzo, prosa d’arte, autobiografia, giornalismo mondano, oratoria politica, teatro in versi e in prosa. Questa continua sperimentazione di forme convive però con una coerenza profonda. Possiamo, anzitutto, indicare due assi portanti della ricerca dannunziana: sul piano formale la costruzione di uni stile “alto” o “sublime”, caratterizzato cioè da un linguaggio iperletterario, che esibisce la propria distanza dal linguaggio comune; sul piano contenutistico, una rappresentazione del mondo in cui tutto appare dominato dalla sensualità e dal desiderio.

Non dobbiamo però intendere in modo troppo semplicistico questo sensualismo, che lo scrittore approfondisce in due direzioni complementari. Anzitutto, viene a a coincidere con la valorizzazione degli infiniti aspetti della realtà, sentiti come qualcosa di positivo, capace di dare gioia e godimento: La vita non è un’astrazione di aspetti e di eventi, ma una specie di sensualità diffusa, da mangiare”.

La sensualità si fa addirittura aspirazione alla fusione totale con il cosmo, ebbrezza dell’immersione nella natura, in una sorta di mistica materialistica: il “panismo” (da Pan, dio greco della natura e dei boschi). Questo sentimento naturalistico e paganeggiante è all’origine di quasi tutti i migliori risultati artistici di D’Annunzio.

Meno convincente è la sua vena tragica: nell’analizzare le sofferenze della condizione umana, non appare particolarmente acuto o profondo. La sua originalità risiede in gran parte nell’atteggiamento di piena accettazione vitale del mondo, laddove la letteratura di Otto e Novecento è stata spesso caratterizzata dalla problematicità, dalla critica e dal rifiuto. Il sensualismo poco problematico di D’Annunzio è, in definitiva, la sua forza e il suo limite.

La tappa decisiva del percorso dannunziano è in questo senso il romanzo Trionfo della Morte (1894), che mostra il passaggio da personaggi titanici perdenti, come Sperelli o Hermil, all’eroe superumano. Gran parte del libro narra la crisi dell’amore tra il protagonista Giorgio Aurispa e la sua amante Ippolita Sanzio. Quando Aurispa legge Nietzsche, capisce che potrebbe riconquistare la gioia di vivere: dovrebbe però liberarsi dalla schiavitù della lussuria per convertire la propria rinnovata spiritualità in energia attivare poter cambiare il mondo. Ma Giorgio non sa rinunciare ad Ippolita, la sua vera Nemica; così per essere almeno una volta padrone del proprio destino, decide di suicidarsi: si getterà in un burrone, trascinando con se l’amante, in un estremo e feroce abbraccio. E’ l’ultimo segnale di crisi lanciato da D’Annunzio che d’ora in avanti abbandonerà la visione negativa della realtà. Il Trionfo della Morte è interessante anche perché lo scrittore avvia una vera e propria dissoluzione della forma romanzesca: lo svolgersi della vicenda, viene infatti interrotto sistematicamente da lunghe digressioni saggistiche, mentre lo stile si fa sempre più lirico. Tale tendenza verso il romanzo-saggio e romanzo-poema è confermata da Le Vergini delle Rocce (1895), progettato come prima parte di una trilogia di “Romanzi del Giglio”, poi non più ripresa. Con questo romanzo D’Annunzio vorrebbe diffondere la nuova ideologia attivistica. Di fatto però produce solo  pochi simboli esili e astratti, con un risultato scadente sul piano artistico, oltre che preoccupante sul piano politico per le posizioni di feroce anti-parlamentarismo, purtroppo assai diffuse fra gli intellettuali del tempo.

Negli stessi anni in cui il suo supereromismo produce esiti incerti nella drammaturgia. D’Annunzio riprende vigore la sua vena più profonda, quella cioè panica, insieme mitica e naturalista. Da un’originale commistione fra panismo e supereromismo scaturiscono le Laudi, composte in gran parte fra 1899 e il 1903. Se Elettra (libro II) e Merope (libro IV) sono appesantite da intenti retorici e celebrativi, e Maia (libro I) disperde i non pochi momenti di poesia in una struttura narrativa esile e pretestuosa.

Alcyone (libro III) è uno dei testi fondamentali della letteratura italiana contemporanea, un vero e proprio punto di riferimento, che segnerà tutta la poesia della prima metà del Novecento.
Non bisogna tuttavia dimenticare che l’ultima fase della produzione dannunziana annovera, oltre alla prosa liriche e soggettive, anche una massicia produzione celebrativa e bellicista: dall’esaltazione della guerra di Libia  (Canzoni delle gesta d’oltre mare,1912, poi inserite nelle Laudi  come Merope) ai componenti sulla prima guerra mondiale (Canti della guerra latina, 1914-1918). Uno studio a parte meriterebbero poi le orazioni della guerra e dell’impresa fiumana, cui si aggiunge un cumulo impressionate di messaggi e allocazioni di tema assai vario, ma d’inevariabile, pesantissima retorica nazionalista e guerriera.

Alcyone

Alcyone è il terzo libro delle Laudi e rappresenta senza dubbio il punto più alto della produzione poetica dannunziana; il suo punto più alto, di enorme valore artistico. Ciò è dato dalla prodigiosa sperimentazione metrica in esse condotta. Accanto alla rivitalizzazione di molti metri tradizionali (dal *sonetto alla *canzone) s’incontra un ricorso sistematico al verso libero, con definitiva canonizzazione di una forma metrica appena negli anni subito precedenti. Pubblicato nel dicembre 1903, il libro di Alcyone deriva il suo titolo, come Maia ed Eletra, da una delle Pleiadi: è la stella più luminosa della costellazione. Ma Alcyone è anche il nome colto di un uccello marino molto simile al gabbiano, il martin pescatore. Fin dal titolo dunque la nostra attenzione è guidata verso uno scenario di luce e di mare, verso quella solarità mediterranea che viene spesso per antonomasia chiamata “alcionia”.

Alcyone è costituito da un Proemio e da cinque sezioni, fra le quali agiscono come linee di separazione quattro “Ditirambi”, cioè inni in onore di Dionisio, dio del vino e del continuo rigenerarsi della natura. Alla fine si trova un Commiato, che è una dedica e un “invio” della raccolta a Giovanni Pascoli. La tregua del superuomo, in cui l’autore si rivolge al proprio interiore Despota, domandandogli appunto una tregua dalle dure lotte contro la volgarità del mondo. L’atteggiamento volto al dominio e al possesso tipico del superuomo, resta inalterato, ma viene ora trasferito dalla società alla natura ed è dunque tutto giocato sul tema del panismo.

In Alcyone l’adesione panica alla natura diventa immedesimazione sensuale nel mondo vegetale e animale. L’io sparisce, il soggetto si dissolve nella natura, smarrendo la propria storicità per divenire mito o paesaggio, o l’una o l’altra cosa insieme. Nei casi migliori, tuttavia, lo scioglimento delle sensazioni in musica e il gusto *analogico delle immagini riescono a salvare una soggettività allusivamente espressa attraverso dati oggettivi del paesaggio trasformati in stati d’animo.

I Temi

Nell’Alcyone si possono ricavare tre costanti tematiche:

1) Lo scambio tra naturale e umano, Come testimoniano i primi due libri delle Laudi, l’eroismo del “superuomo” dannunziano nell’eccitazione, di fronte agli uomini verso i quali egli rivendica un’identità forte e superiore. Al cospetto invece della realtà naturale, il “superuomo” rivela la capacità di fondersi in essa, di perdere la propria identità personale, circoscritta e limitata, per assumere in modo panico l’identità del paesaggio circostante. Questa fusione può giungere fino alla vegetalizzazione dell’umano: è come se il sistema nervoso del soggetto lirico si prolungasse nelle fibre delle piante, la rappresentazione della realtà circostante si svolgesse secondo quel particolare punto di vista. Altre volte l’identificazione avviene con creature animali, di solito strappate al mito. Più in generale, Alcyone rappresenta una capacità di entrare in contatto diretto con la natura, di ascoltare la sua voce, di vivere le sue misteriose leggi fino a raggiungere la chiave dei suoi segreti.

2) La ritualizzazione del mito. Perché la natura possa assurgere a questa funzione privilegiata sul piano dei significati , è necessario restituirle la vitalità e la verginità distrutte dal mondo moderno. L’unico modo attraverso cui è possibile farlo consiste nel recupero del mito. D’Annunzio rivitalizza il binomio mito-natura (mito come verità naturale e natura come condizione mitica). Da una parte recupera i grandi miti naturali della classicità, dall’altra rappresenta la propria vicenda di immersione nella natura in termini mitici. In tal modo dal recupero del mito, si passa alla creazione di nuovi miti nuovi attuai, cioè a soluzione ricollegabili alla cultura classica e alla poesia del Simbolismo.

3) L’esaltazione della parola, dell’arte e della figura del poeta. Ciò che permette di stabilire un nuovo contatto tra autenticità interiore dell’io e rivelazione naturale è la parola poetica. E’ dunque essa lo strumento suscitatore del mito e, anzi, creatore di nuovi miti. L’esaltazione della felicità panica dell’esperienza naturale si associa dunque all’esaltazione della parola e delle sue potenzialità. Al limite, tra parola poetica e particolari della natura si dà equivalenza. Di qui la rivelazione del privilegio artistico, unico mezzo di accesso, per i moderni, al rapporto intimo confidenziale e autentico con la natura.

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