Geza Ròheim nacque a Budapest nel 1891. Il padre era un ricco commerciante. Fin dalla più tenera età mostrò un vivo interesse per lo studio dei miti e delle favole, divenendo un esperto del folklore ungherese. Dopo aver frequentato l’università di Budapest, studiò a Lipsia con Karl Weule ed a Berlino con Felix von Luschan. In Germania prese conoscenza approfondita del pensiero di Freud; tornato in patria trovò impiego nel Museo Nazionale Ungherese e sotto la guida di Sandor Ferenczi si dedicò all’attività analitica. Fu tra i primi a tentare una convergenza tra pensiero psicoanalitico ed antropologia, mostrando una vivissima sensibilità per la condizione esistenziale dei gruppi umani “visitati” più che semplicemente studiati, evitando quel tipo di approccio “coloniale” alle culture primitive tipica di tanta antropologia dell’ottocento. Nel 1938, per sfuggire alle persecuzioni razziali naziste, si trasferì negli Stati Uniti, dove morì nel 1953. Viaggiò a lungo in tutti i continenti, analizzando minuziosamente i miti, i sogni, le credenze, le cerimonie, i giochi, le feste, le abitudini sessuali ed alimentari di somali e aborigeni australiani, di melanesiani ed amerindi. I suoi lavori sono una preziosa fonte di informazione e costituiscono una documentazione unica. Molte notizie sugli usi, i costumi e le credenze di popoli e tribù sarebbero altrimenti andati perse in quanto ormai obsolete e comunque colpevolmente trascurati dalle alte scuole antropologiche. Nei riferimenti bibliografici di Antropologia culturale di Ember & Ember – Il Mulino – testo destinato all’università , il nome di Ròheim non compare nemmeno nell’indice degli autori. Si tratta di una dimenticanza che da molto da pensare. Fu autore di numerose opere tra le quali Psicoanalisi e antropologia, considerato il suo capolavoro, Gli eterni del sogno, Origine e funzione della cultura, Le porte del sogno, Il ventre materno, Magia e schizofrenia. Come egli stesso scrisse nell’introduzione a Psicoanalisi ed antropologia Ròheim fu subito in netta contrapposizione con le teorie culturaliste, specie quelle propugnate da Ruth Benedict e da Bronislav Malinowski. Per queste teorie ogni cultura si pone obiettivi diversi e ciò che conta, specie per Malinowski, ò l’interrelazione dei tratti caratteristici. Per questa ragione: “tutte le interpretazioni possono avere un significato soltanto nel loro proprio contesto culturale. A mio giudizio – continua Ròheim – questa tesi non ò logicamente accettabile, anche se lo fosse dal punto di vista funzionale”. A supporto di questa sua posizione Ròheim cita tre diversi casi di nevrosi in tre diversi suoi pazienti e si chiede se, ad esempio, il complesso di castrazione sia un fenomeno affatto diverso da individuo a individuo. “Noi parliamo di nevrosi ossessive; orbene, la nevrosi ossessiva di un individuo ò naturalmente diversa da quella di un altro? Naturalmente, in certo senso, ogni caso, ò sui generis, ma ciò che non riesco assolutamente a comprendere ò perchò non dovrebbe esser lecito isolare e confrontare gli elementi comuni; mi sembra del tutto ovvio che qualsiasi metodo, il quale miri alla riduzione dei fenomeni a quanto in essi ò sotteso, non può che operare nel senso appunto di isolare certi tratti”. Ma a queste premesse in buona parte condivisibili, Ròheim fa seguire delle analisi quntomeno discutibili. Ad esempio, egli scrive giustamente che la scoperta fondamentale di Freud consiste nel fatto che il bambino non ò un semplice agente passivo riflettente l’ambiente circostante, ma un distorsore dell’ambiente stesso. Ma qui aggiunge: “in una mia precedente opera ho finalmente dimostrato come nella fiaba australiana gli orchi cannibali rappresentino i genitori del bambino, e ciò nonostante, che i genitori australiani siano madri e padri oltremodo indulgenti e comprensivi… Qualunque cosa la madre faccia o non faccia, a causa delle proprie aggressioni orali, (Melanie Klein, Bergler, ecc. ) il bambino proietterà la madre (e più tardi il padre) in figura di demone cannibale. Non c’ò una cultura in cui non si incontrino orchi, i quali nulla hanno a che fare con istituzioni strutturali o sovrastrutturali. La strega che vuole mangiarsi Haensel e Gretel nella fiaba dei fratelli Grimm, non ò che la fantasia di distruzione corporea del bambino in forma fiabesca. Nella foresta, i fratellini affamati si imbattono in una casa fatta di marzapane e coperta di cioccolato; ne esce una vecchia strega e li invita a entrare. Nella casa, Haensel e Gretel trovano latte, dolci, zucchero, mele e lettini comodi, sicchò credono di aver toccato il cielo con un dito. Poi, però, il bambino si ritrova chiuso in una stia e messo all’ingrasso, mentre la sorellina ò malnutrita e costretta ai più umili lavori. Proviamo a considerare i due bambini come un’unica persona – continua Ròheim -: ci accorgeremo allora che la frustrazione orale (rappresentata dalla persona della sorella) trasforma la madre in strega cannibale, decisa a infilare la sorella nel forno come una “pagnotta”; ma Gretel chiede alla vecchiaccia di mostrare come si fa, e così a essere infilata nel forno ò la cattiva strega. Uccisa la quale, i due fratellini trovano gioielli e perle, che prendono e portano con sò”. L’interpretazione di Ròheim, a questo punto, consiste nel condensare la fiaba come se fosse un sogno. In sò il procedimento ò corretto. Casa di marzapane e corpo della strega sono tuttâuno. Però la conclusione ò distorta e contorta. Dal momento che a finire nel forno ò la casa-strega – dice Ròheim – ò chiaro che la madre- strega finisce mangia i bambini (proiezione) perchò il bambino-bambina voleva divorare la madre-strega. “Stando a Melanie Klein e alla scuola psicoanalitica inglese, tutti i bambini hanno fantasie di distruzione corporea, vale a dire fantasie di aggressione orale in cui divorano il corpo della madre o penetrano in esso e distruggono o incorporano “oggetti buoni” supposti dentro la madre. Nella fiaba di Haensel e Gretel, quando i fratellini, uccisa la strega, fan ritorno a casa, scoprono che la loro madre ò morta, così confermando al di là di ogni dubbio, l’identità di strega e madre”. Questa interpretazione di Ròheim, come egli stesso ammette, di origine kleiniana e non freudiana, pare trascurare diversi elementi. In primo luogo ò evidente che la condensazione onirica tra casa e strega potrebbe avere questo significato: i due fratellini sono andati alla ricerca di qualcosa in più, cioò qualcosa che la vera madre non poteva dare per diverse ragioni (povertà , malattia, vecchiaia eccetera). Lo hanno trovato. Questo qualcosa in più rappresenta in un certo senso la stessa società civile, la quale a prima vista, offre come un qualsiasi paese dei balocchi (per rimanere alle fiabe) un fiume di prelibatezze, ma poi si rivela ingannevole. Essa da per avere, e quando ò ingiusta come una vecchia strega, essa da nulla o assai poco, ma pretende la tua stessa vita. Cioò pretende di mangiarti. La casa di marzapane ò dunque la seduzione delle mille attrattive di una società opulenta; la strega ò la sua vera essenza. I gioielli e le perle sono il simbolo stesso di questa ingiustizia, frutto di rapine e di ogni sorta di misfatti. Haensel e Gretel tornano a casa e trovano la loro madre morta, ma questa morte non ha una vera attinenza con l’impresa di Haensel e Gretel e l’uccisione della strega. La madre ò morta o di crepacuore, o di malattia. I fratellini sono solo colpevoli di averla trascurata. Ho ritenuto opportuno inserire questa mia interpretazione ( che potrebbe anche non essere originale) perchò mi pareva giusto evidenziare come le esasperazioni della voracità infantile di Melanie Klein, assai poco freudiane peraltro, non portano ad una vera comprensione del contenuto dei miti e delle fiabe, le quali hanno sempre un referente storico sociale e non familiare. Le figure degli orchi e delle streghe hanno senso, assumono significato in quanto espressioni di ingiustizia, di oppressione magica, di costante pericolo per gli innocenti appena venuti al mondo e già esposti al rischio di essere divorati o usati. Ciò non esclude che vi siano madri cattive e padri orchi. Ma questa generalizzazione del padre-orco e della madre-strega non porta lontano, a mio avviso, nò in psicoanalisi, nò in antropologia. Tutto questo non esclude, ovviamente, che alcuni bambini possano distorcere a loro modo il rapporto con la casa-strega-madre esattamente nel modo ipotizzato da Melanie Klein e sviluppato antropologicamente da Ròheim. Ma questo modo sarebbe il contenuto stesso di una malattia che non esiterei a definire psicosi infantile, nemmeno nevrosi. Ritornando a Ròheim, la sua impostazione anticulturalista fu sicuramente stimolante. Concordo sul presupposto che in antropologia sia necessaria la psicoanalisi in quanto ò vero che molti comportamenti primitivi sono il risultato di fobie, dunque di nevrosi primitive, non di culture “particolari”, cioò superstizioni e subculture portate ad enfatizzare. Freud vide quindi giusto nel considerare i primitivi come “nevrotici”, naturalmente in senso un po’ diverso da quello medico e psicologico con il quale lo intendiamo oggi. Molte paure sono infatti fobie, e risultato di spostamenti, anche se non tutte le paure sono inconsce e presentano la caratteristica dello spostamento. Più si retrocede nel tempo e più incontriamo il terrore, dovuto ad ignoranza, per ogni manifestazione di potenza naturale. Pertanto la nevrosi, in particolare la nevrosi d’angoscia ha molto a che fare con la primitiva paura originaria per l’irruzione improvvisa di eventi terrificanti quali la comparsa degli orchi cannibali, o se vogliamo, dei cannibali veri e propri. Recentemente ho visto un film, il Tredicesimo guerriero, nel quale viene descritto, in un modo ovviamente hollywoodiano e quindi un po’ grossolano, un aspetto molto credibile di questa antichissima ed ancestrale vicenda. Ròheim scrive ancora che l’orco o la strega non sono il riflesso di uno specifico condizionamento sociale, bensì il riflesso di un io infantile nei primi stadi di sviluppo. Sarebbe come a dire che i cannibali non esistono o sono esistiti realmente, ma sono il frutto di una nostra invenzione fantastica. Poi, allo scopo di chiarire quali categorie concettuali utilizza nel corso del suo lavoro d’indagine, viene a chiarire il significato di super-io, ideale dell’io e preconscio, che sono tre concetti forti della metapsicologia freudiana. Trattiamo qui solo il significato di super-io per motivi di spazio. Per Ròheim il concetto di censura, strettamente connesso a quello di super-io, fu ricavato da Freud dalla politica: “lo scrittore politico il quale abbia da comunicare spiacevoli verità a coloro che detengono il potere, si trova in una posizione simile. Qualora si dica tutto quanto senza riserve, il governo cancellerà le verità in questione: retrospettivamente nel caso di espressione verbale delle opinioni, preventivamente qualora siano destinate alla stampa. Lo scrittore politico vive nel timore della censura, e di conseguenza eccolo moderare o mascherare l’espressione delle proprie opinioni”. Fin qui il testo di Freud, chiaramente collocato in un diverso momento storico. Ma Ròheim utilizza questo passo per parlare di censura onirica e polemizzare con gli antropologhi culturalisti, assai poco disposti ad accettare l’esistenza di una censura onirica. “Fittissime sono le nebbie e la confusione che avvolgono il concetto di Super-io – scrive Ròheim-. Frequentissima ò, in bocca agli antropologhi, l’affermazione che mentre noi, vale a dire coloro che sono cresciuti nella cultura giudaico-cristiana, possediamo un Super-io, altri gruppi umani sarebbero governati soltanto dalla nozione di vergogna. Mi sia concesso, a tale proposito, di ricordare i primi esploratori europei, i quali riferirono che gli Ottentotti non avevano una religione: oggigiorno, la religione e la mitologia degli Ottentotti ci sono ben note. Poichò morale e Super-io sono in rapporto tra loro, benchò l’esatto nesso sia lungi dall’essere chiarito anche per quanto attiene alla nostra cultura, accade di frequente di udire antropologhi affermare che “questi gruppi umani non hanno Super-io, in altre parole il loro codice etico non ò esattamente corrispondente al nostro. ” Ruth Benedict, partecipando a un simposio, ha scritto che “il Super-io presenta componenti di tipo così diverso nelle due culture, la giapponese e la nostra, da indurmi a rinunciare a servirmi dell’espressione Super-io. Come mostrerò i Giapponesi non si preoccupano del problema del peccato ma invece e moltissimo, di quello del possibile ridicolo, in altre parole della vergogna. E’ per questo che ho rinunciato, oltre che all’espressione Super-io, anche a quella di complesso di inferiorità e ciò perchò un complesso di inferiorità giapponese ò così diverso dai nostri che conviene, per meglio descriverlo, ricorrere ad altre espressioni. Allo stesso scopo, ho evitato nuemrosi altri vocaboli che ricorrono nelle nostre lingue, in quanto dotati di di connotazioni proprie della cultura occidentale. Ritengo pertanto preferibile parlare, nel caso dei Giapponesi di alto livello di aspirazione anzichò di complesso di inferiorità nella nostra accezione. Sarà opportuno chiarire anche perchò ho fatto ricorso alla parola conscienceless (privo di coscienza), come pure all’espressione responsabilità per tradurre il giapponese makoto. Sono traduzioni che i giapponesi universalmente accettano: sono state usate nelle loro indagini, le hanno riportate nei loro giornali. Come già ebbi occasione di notare ne Il cristantemo e la spada ò della massima importanza, per il pubblico anglo americano, afferrare i numerosi e diversi significati che possono assumere le parole coscienza e responsabilità “”. Ròheim ha riportato questa lunga citazione di Ruth Benedict, tratta da Culture e Personality, Proceeedings of on Interdisciplinary Conference held under Auspices of the Viking Fund, New York 1949, per contrappore chiaramente ad essa la sua teoria antropologica. Dice espressamente che questo passo ò rivelatorio. In primo luogo questo tipo di antropologo ha interesse solo a evidenziare differenze e poi rifiuta l’esistenza dell’inconscio, anche quando lo ammette. Per i culturalisti l’inconscio ò una sorta di ignoranza, non il luogo del rimosso. Però Ròheim evita di entrare nel merito dei problemi sollevati da Ruth Benedict, come se non fosse vero che la vergogna per la propria pochezza ed incapacità ha per i giapponesi un’importanza assai maggiore che il senso di colpa per un eventuale peccato. Ma questo ò proprio il punto chiave. Non ò che i giapponesi non hanno un super-io, hanno un super-io e quindi un concetto di morale diverso dal nostro. La frequenza dei suicidi per disonore, e non per peccato, ò la dimostrazione che esiste una morale e che questa morale, quella del samurai e del guerriero, non consente di sopravvivere ad una codardia, ad una fuga dalle responsabilità . Per un giapponese il fallimento come imprenditore non ò un peccato contro i lavoratori, nemici di classe, ma il fallimento come uomo capo e responsabile di quei lavoratori. Non c’ò nulla di più disonorante che fallire in questo. E non c’ò altra via di fuga che il suicidio. Ma che differenza fa chiamarlo senso di responsabilità , o altrimenti super-io? Per un giapponese avere un amante, essere omosessuale, o persino pedofilo, almeno fino a quando l’imperialismo culturale statunitense non ò penetrato a fondo nei modelli culturali del dopoguerra, non era peccato e non era disonorevole. Era disonorevole non saper svolgere la propria funzione sociale, economica e politica. Il problema, allora, ò che non ci sono solo culture, ma anche individui che anche in occidente provano lo stesso senso di vergogna dei giapponesi. E questo ha proprio a che fare con il tipo di super-io che ò stato introiettato, un tipo di super-io che non ò stato brevettato dai giapponesi, ma appartiene anche all’etica protestante, ad esempio, ed in genere ai popoli d’oltralpe. E’ più forte e diffuso in Svizzera, o anche nella Francia celtica, latina e cattolica, meno in Italia. La differenza con il Giappone sta nel fatto che da noi non ci si suicida. Si pagano le colpe, si finisce in galera per debiti, si chiede e si ottiene facilmente perdono. Spesso si fugge all’estero. Si conta sul fatto che siccome la macchina della giustizia ò una lumaca, molti reati cadranno in prescrizione. E se ci si vergogna, non ò che ci si vergogna per avere rubato, ci si vergogna per essere stati scoperti. Un po’ come Caino dopo aver ucciso Abele. La via di fuga preferita ò lo scaricabarile. Se la mia azienda ò fallita ò perchò gli operai sono dei fannulloni, non perchò io sono un incapace. Se le ferrovie fanno schifo la colpa ò dei manovratori ubriaconi o dei macchinisti del Cobas, non dei dirigenti. Ma ciò non dovrebbe farci dimenticare, ad esempio, che il super-io di uno svizzero educato al calvinismo più bieco e radicale considera ricchezza e prosperità come il segno del favore divino e la disgrazia economica come segno di una sfiducia divina. Ciò non ò esattamente la stessa cosa che accade nei giapponesi, ma si presta a diverse uguali considerazioni. Nei giapponesi il metro di misura sono i meriti degli antenati, la loro gloria ed il loro onore; negli svizzeri calvinisti il metro di misura ò il favore divino. Un’antropologia veramente psicoanalitica dovrebbe quindi andare ben oltre le interpretazioni culturaliste, che come scrisse giustamente Ròheim, nel sommario conclusivo di Psicoanalisi e antropologia, vedono solo nazioni, culture nazionali, e non quanto c’ò di comune ad ogni cultura, cioò nella razza umana nel suo insieme. Il problema, tuttavia, ò che quanto c’ò di comune ad ogni esperienza umana, ò di difficile individuazione. In sostanza non ò possibile pensare che tutta la teoria psiconalitica valga per tutto il genere umano, mentre ha senso considerare tutte le fobie che si manifestano in forma di nevrosi d’angoscia come paura derivante dall’ignoranza, cioò dal fatto che alcuni pericoli che avvertiamo sono ignoti, e che qualcosa ci impedisce di metterne a fuoco la vera natura. Vedremo in prossimi interventi di approfondire altri aspetti del pensiero di Geza Ròheim che, al di là di alcune esagerazioni, ha comunque un grandissimo valore documentario ed analitico sia per l’antropologia, sia per la psicoanalisi.
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- Filosofia - 1900