Giovanni Pascoli nasce a S. Mauro di Romagna il 31 Dicembre 1855.
Dopo gli studi elementari, frequenta il ginnasio e inizia il liceo a Urbino, nel collegio dei padri Scolopi. Il 10 agosto 1867, giorno di S. Lorenzo, il padre viene ucciso da sconosciuti sicari, mentre torna dalla fiera di Savignano. L’episodio lascia una traccia indelebile nella sensibilità del poeta. L’incancellabile macchia di sangue dell’ucciso solleciterà una desolata visione dei rapporti sociali e la convinzione che la morte incombe sugli uomini e su tutto. Una catena di sventure familiari sembra avvalorare questa pessimistica visione. Dopo la morte del padre muore la sorella maggiore del poeta, Margherita; seguono le morti dell’amata madre, del prediletto fratello Luigi nel 1871, e dell’altro fratello, Giacomo, nel 1876. Pascoli intanto, terminati a Firenze gli studi liceali, s’iscrive alla facoltà di lettere a Bologna, dove insegna Carducci. Gli anni universitari segnano il momento del suo impegno sociale: il sentimento dell’ingiustizia sociale lo spinge a aderire al movimento rivoluzionario di Andrea Costa. Per avere partecipato ad una dimostrazione filoanarchica, Pascoli è arrestato e incarcerato. Dopo quasi quattro mesi riprende gli studi universitari interrotti, laureandosi brillantemente. Nel 1883 comincia una lunga carriera d’insegnamento in qualità di docente di latino e greco nei licei, sono gli anni in cui scrive le prime liriche di Myricae e in cui comincia la propria attività di poeta in latino. Man mano cresce la fama letteraria pur rimanendo un semplice professore liceale, Pascoli è chiamato a collaborare alle più prestigiose riviste. Nel 1895 Pascoli prende in affitto e successivamente acquista una casa in Toscana. Sempre nel 1895 viene chiamato all’insegnamento universitario di grammatica e letteratura latina e poi di letteratura italiana, ancora a Bologna. La crescente fama impone al poeta anche momenti celebrativi, in qualità di oratore ufficiale; nascono così alcuni discorsi, tra cui il celebre La grande proletaria si è mossa, che esalta in senso nazionalistico l’impresa coloniale della guerra di Libia. Pascoli muore a Bologna nel 1912.
La vita di Pascoli è povera di elementi esteriori, si riduce a un incessante scavo su di sé. E’ un’esistenza che si svolge tra pochi luoghi: la campagna romagnola dell’infanzia, le diverse sedi d’insegnamento, infine la casa di Castelvecchio. La sua tendenza a star chiuso nel nido domestico si spiega con la fondamentale paura nei confronti del vivere, un sentimento che gli impedì tra l’altro un normale rapporto con le donne e l’amore. Da qui la sua «disperazione» per il fidanzamento della sorella Ida. A quel tradimento del nido, Pascoli e l’altra sorella Mariù, risposero ritirandosi a Castelvecchio. Assieme a Mariù, Pascoli visse come un tenace custode delle memorie della famiglia «Ho vissuto senza mare – così scrisse alle sorelle – non per incapacità d’amare ma perché mi dovevo dedicare solo a voi». Con questi sentimenti dedicò le Myricae alla memoria del padre, i Canti di Castelvecchio a quella della madre e i Poemetti alla sorella Maria. Il confronto tra Pascoli e D’Annunzio, porta a conclusioni decisamente diverse. L’uno vive isolato mentre, l’altro è un brillante uomo di società, l’uno è fedele a pochi luoghi, l’altro un avventuriero senza fissa dimora. Se la biografia di Pascoli è fatta di eventi soprattutto interiori, la vita di D’Annunzio è invece piena di colpi di scena. Eppure questa diversità denuncia la frattura che si è ormai stabilita tra il poeta e la società: una solitudine che oppone la massa a chi invece è dotato di un’accesa e individualissima sensibilità, la quale si esprime con esistenza separata e linguaggio poetico.
Leggi anche:
Pascoli georgico
Il Pascoli maggiore e più conosciuto è quello “georgico”che canta la campagna e la vita semplice dei contadini. A questa cornice s’ispirano le Myricae, la sua prima raccolta, i Poemetti e i Canti di Castelvecchio. Le Myricae si ambientano nella natìa campagna romagnola di S. Mauro; invece gli altri due libri hanno come sfondo la campagna toscana nella casa di Castelvecchio. Nei Poemetti il poeta elenca lungo le stagioni di un anno le opere e i giorni di una famiglia contadina della Garfagnana: la storia d’amore del cacciatore Rigo e della contadina Rosa. La vera protagonista rimane la natura e anche le figure umane sono trattate come da “esseri di natura”, nel senso che appaiono perfettamente fusi con la campagna circostante. Come la natura, che si prepara per la nuova semina, Rosa diviene gravida alla fine dell’estate e il ciclo ricomincia. Invece nella Myricae e nella maggior parte dei Canti di Castelvecchio abbiamo frammenti legati alle impressioni e percezioni immediate suscitate dalla campagna nell’animo del poeta “fanciullo”. Un’altra fondamentale differenza è data dal fatto che i Poemetti cercano di avvalorare un idillio, cioè di costruire il romanzo della campagna felice, non turbata, in grado di dare da solo riparo e cibo ai suoi abitatori. La vita della famiglia contadina scorre povera e faticosa, nei Poemetti, ma quasi sempre serena. Sono assenti morte, dolore, miseria; Rosa perde il primo figlio ma rimane nuovamente incinta subito dopo. La campagna garfagnina pare cioè una nuova Arcadia, la terra felice dei mitici pastori se al di fuori del recinto georgico c’è il mondo della città, della vita moderna, dentro il cerchio magico scorre un’esistenza placida, ritmata sull’avvicendarsi delle stagioni, coi suoi riti pacificatori. Le Myricae e i Canti di Castelvecchio sono libri colmi di inquietudini di dolorosi presentimenti; l’idillio vi appare completamente turbato, sempre sul punto di spezzarsi.
In Myricae, sono raccolti in prevalenza componimenti molto brevi, che all’apparenza si presentano come quadretti di vita campestre, ritratti con gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono un particolare, una linea, un suono. Myricae segnalò immediatamente la grande novità di una poesia che scaturiva da un modo diverso di guardare la realtà, specie quella dei campi. Il mondo campestre era lo scenario sul quale proiettare inquietudini, smarrimenti. I paesaggi, gli attrezzi da lavoro si caricano di significati e simboli. I versi comunicano il senso di un mistero nascosto che si rileva attraverso segreti messaggi. La forma poetica è fatta di pause, di echi, di corrispondenze tra le parole. L’uso di un linguaggio fonosimbolico, che esprime le sue sensazioni, arricchisce la poesia e la rende immediata, pura, vergine.
Nei Canti di Castelvecchio, Pascoli accentua il senso di mistero e il tema della fine incombente; l’atmosfera di dolore ispira i molti componimenti legati alla tragedia familiare del poeta. Anche qui tornano immagini della vita campestre, canti d’uccello, alberi, fiori, suoni di campane e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: ancora una volta l’immutabile ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall’angoscia dell’esistenza storica e sociale.
Quella di Pascoli è una poesia simbolica in molti sensi, alcuni sono simboli costruiti, e risultano meno persuasivi, mentre i simboli spontanei sono quelli più ricchi di suggestione, perché si legano alla personalità inconscia del poeta, al suo mondo interiore. Tra questi simboli, il più importante è quello della casa nido. Il nido è la casa degli uccelli, ma per analogia diviene appunto il simbolo della casa, della chiusa cerchia degli affetti domestici. Pascoli abitualmente raffigura il nido come una cellula calda, irto di spine all’esterno, ma accogliente all’interno. Questa immagine positiva del nido sembra scattare da un contesto negativo: il nido è infatti principalmente un rifugio, protetto dalla complicità reciproca, contro il male del mondo, i lutti, le violenze. L’immagine del nido è regolarmente accompagnata da pericoli incombenti come a confermare che solo nel nido si può vivere; fuori ci sono solitudine e incomprensione. Non per nulla nella poesia Pascoliana non c’è vita di paese, non c’è quel tessuto di relazioni sociali che costituisce invece lo sfondo della società contadina. Il nido è dunque una sorta di limbo incantato, che difende chi sta dentro da ogni incursione della vita reale; è il tentativo di recuperare una sorta di “età dell’oro” dell’infanzia, l’unico tempo davvero sereno, perché non è soggetto alle delusioni del vivere. Il nido pascoliano è un simbolo dell’inettitudine, dell’incapacità di vivere raffigurata da molti scrittori contemporanei. Del resto, fin dalla sua stessa biografia, Pascoli ha testimoniato la propria incapacità di “uscire dal nido”, cioè di vivere un’esistenza adulta. Tutta la simbologia pascoliana nasce da un tentativo di fuggire la morte, di esorcizzarla. Il nemico più spaventoso del nido è la morte. La morte è l’ostacolo supremo a ogni speranza o progetto umano.
La riflessione più sistematica sulla poetica di Pascoli è la prosa del Fanciullino. I venti capitoletti del Fanciullino partono dall’idea che esistono due età poetiche, fanciullezza e vecchiaia: la seconda sa dire, ma la prima, la più ingenua, sa vedere.
Pascoli dice che il fanciullino scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più sorprendenti, lui si trova dentro ognuno di noi e quando la nostra età è tenera, la sua voce si confonde con la nostra, dei due fanciulli che piangono, sperano, gioiscono, si sente un palpito solo; il fanciullino è colui che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle, è colui che ha paura del buio. Per Pascoli il poeta è colui che all’improvviso illumina l’oscurità; egli fa apparire le cose illuminandole, è l’Adamo che, come si legge nella Bibbia, mise nel giardino dell’Eden il nome a tutte le cose. Egli dice che l’uomo si dimentica che è stato fanciullo, e che è sempre presente in noi, ma siccome è impegnato in tante altre cose soffoca questa “voce” che non riesce a sentire e che solo il poeta sente, perché come soggetto sensibile, la sa ascoltare. Pascoli non fu certo il primo a mettere in relazione l’ispirazione poetica con la sensibilità infantile, ma se alcuni mettevano l’accento sul sentimento, il Pascoli guarda le sensazioni. A questa concezione sull’origine della poesia si lega l’individuazione delle tecniche poetiche. Se il fanciullino “vede” le cose in maniera discontinua, slegata, accosta immagini in maniera pre-logica, se non irrazionale, così pure, frammentista, analogica dovrà essere la sua poesia. Il fanciullo vede solo i primi piani, non il prima e il dopo: tutto gli appare egualmente importante; è il poeta-fanciullo che adatta della cosa più piccola alla cosa più grande, e viceversa; gli sfuggono le giuste dimensioni. Avremo perciò nella poesia pascoliana una disposizione paratattica, che giustappone, una dopo l’altra, le sequenze, senza rielaborarle nel giusto ordine. Inoltre, il fanciullo non soffre di complessi di superiorità nei confronti della natura; semmai, s’immerge in essa.
Pascoli è un poeta fondamentalmente simbolista. Come i grandi decadenti tra 800 e 900, anche in lui la parola perde la propria funzione informativa, di messaggio puro e semplice, per caricarsi invece della soggettività dell’io-poeta, che s’identifica col mondo e dice le cose non come sono ma come le sente. A lui non interessa offrire al lettore tutti i dati importanti di un certo quadro. All’inverso, moltiplica i punti di vista, accavalla i piani della visione; manca un centro prospettico, i particolari dominano sull’insieme. La poesia di Pascoli è insomma poesia analitica, il suo sguardo si fissa su tanti particolari diversi. Da un punto di vista metrico, Pascoli ci appare insieme tradizionalista e rivoluzionario: tradizionalista in quanto sembra addirittura volere approfittare di tutte le forme offertegli dalla tradizione italiana, ma, entro questa tradizione, egli opera un profondo cambiamento, fino a rendere irriconoscibili i metri e i ritmi consueti. Spesso i versi, già spezzati da punti e virgole, non coincidono affatto con le frasi. Il ritmo poetico tende spesso ad avvicinarsi alla nenia, alle cantilene dei bambini. Ciò rimanda all’idea della poesia come pausa dai dolori dell’esistere e come desiderio di ritorno all’infanzia a una poesia-fanciulla. Pascoli inoltre rompe con la tradizione; i suoi periodi si collegano spesso tra loro non logicamente, ma analogicamente, cioè per forza di simboli. Gli oggetti valgono non per ciò che sono, ma per ciò che, di essi, la coscienza soggettiva coglie; diventando presenze ambivalenti, conturbanti.
Il classicismo di Pascoli
Oltre alla corda georgica, la poesia di Pascoli conosce un’altra tonalità, più ariosa, impegnata a descrivere, narrare, insegnare. E’ la linea che si realizza pienamente con i Poemi conviviali, e poi, in maniera più discontinua, con il volume di Odi e inni. Prima che in volume, i Poemi conviviali uscirono, a partire dal 1895, sulla rivista “Il convito” di Adolfo De Bosis, punto di riferimento dell’estetismo decadente italiano, cioè di una letteratura preziosa, raffinatamente erudita, vicina all’ elegante poesia dei parnassiani francesi. Tale contesto ci aiuta a spiegare l’origine coltissima dei Poemi conviviali, le loro forme classicheggianti. I componimenti sono scritti in endecasillabi sciolti, cioè senza rima. Pascoli canta, in maniera solenne e descrittiva a un tempo, le gesta di eroi per lo più desunte dalla storia e dalla mitologia greca. Invece i componimenti di Odi e inni comprendono testi incentrati su personaggi contemporanei o moderni, resi illustri da gesta di valore, scoperte geografiche o scientifiche. Sia nel caso dei Poemi conviviali, sia in quello di Odi e inni, siamo in presenza di una poesia classicista, che cerca cioè nel passato miti ed eroi antichi da celebrare o forme da riporre per i nuovi eroi del presente.
Ma il classicismo di Pascoli non è nostalgia del tempo che fu. Anche il mondo degli eroi, antichi o moderni che siano, è un mondo pieno di mistero, d’inquietudine, e anche di dolore e fallimento. Nel linguaggio prezioso e raffinato del classicismo, Pascoli trasferisce anche in queste poesie le inquietudini della propria anima moderna, suscitando visioni e sogni di significato allegorico. Così, in un’atmosfera carica di vibrazioni musicali e di allusività, il poeta rivive leggende e miti in modo ormai decadente, accentuandone gli aspetti più dimessi e familiari e connotando le varie vicende sotto un unico segno di disillusione e di scacco esistenziale.
PRIMA PROVA MATURITÀ 2017: AUTORE, TRACCE E SVOLGIMENTI
Se devi affrontare l’Esame di Maturità 2017 non perderti tutte le nostre risorse:
- 800
- Giovanni Pascoli
- Letteratura Italiana - 800