Gustavo Bontadini (Milano 1903-1990) si ò laureato in filosofia presso l’Università Cattolica di Milano dove ha insegnato filosofia teoretica dal 1951 al 1973. Fra le sue opere principali va ricordato anzitutto il Saggio di una metafisica dell’esperienza (1935) dove già emerge una personale riflessione sulla struttura del reale e sugli ideali di vita che riguardano l’essere e l’agire dell’uomo. Seguirono una serie di studi volti che riguardano l’essere e l’agire dell’uomo. Seguirono una serie di studi volti ad analizzare il problema gnoseologico della filosofia moderna: Studi sull’idealismo (1942), Studi sulla filosofia dell’età cartesiana (1947), Indagini si struttura sul gnoseologismo moderno (1952) ed infine gli Studi di filosofia moderna (1966). Accanto a queste indagini essenzialmente storiografiche bisogna ricordare i testi scritti con un intento più dichiaratamente teoretico, o che presentano un’analisi della situazione filosofica contemporanea a Bontadini: Dall’attualismo al problematicismo (1946), Dal problematicismo alla metafisica (1952). Gli ultimi libri ( Conversazioni di metafisica, in due volumi, 1971 e Metafisica e deellenizzazione, 1975) intendono svolgere una funzione fondativa e rigorizzatrice del discorso metafisico, riconducendone le enunciazioni all’evidenza del principio di non contraddizione. In particolare, Metafisica e deellenizzazione ò molto interessante perchè in tale scritto Bontadini si oppone radicalmente al “pensiero debole” di Vattimo, il quale aveva salutato positivamente lâetà ellenistica come il crollo delle verità metafisiche e dei pensieri “forti”; ò facile capire â a partire dal titolo dello scritto â come Bontadini si spinga in tuttâaltra direzione, verso una radicale “deellenizzazione” e un ritorno alla metafisica o, per usare una terminologia vattimiana, al “pensiero forte”. Bontadini ò uno dei rappresentanti più significativi della neoscolastica italiana, e in particolare di quel suo indirizzo milanese che trovò all’Università Cattolica il proprio centro più importante. Bontadini amava definirsi come ” un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno ” ed ò proprio l’attenta lettura di molte opere di impostazione idealistica che lo porta ad affermare quella che egli considera la ” verità metodologica ” dell’idealismo: il primato metodologico della coscienza quale orizzonte per poter parlare dell’essere costituisce il guadagno speculativo dell’età cartesiana, ma proprio all’interno di tale guadagno si insinua l’affermazione aporetica che considera l’essere come “altro” dalla coscienza, ciò di cui si dovrebbe “provare” la corrispondenza con quanto ò dato nella conoscenza sensibile o intellettiva; l’idealismo sopprime questa aporia (il dilemma del “ponte” per passare dalla coscienza all’essere), rimanendo però nell’orizzonte del “cogito”, riaffermando l’originaria identità del pensiero con l’essere (in una sorta di ritorno a Parmenide). La prospettiva di Bontadini cerca a sua volta di cogliere la “verità profonda” del superamento idealistico dell’aporia cartesiana, recuperando una prospettiva metafisica che egli chiama “neoclassica”: ” la metafisica neoclassica conserva la verità dell’idealismo (l’intrascendibilità del pensiero come organo dell’interno, come orizzonte assoluto… ) e la perfezione inserendovi l’impianto problematico, la struttura della mediazione dell’esperienza: in una parola l’esatta – rigorosa! – metodica e non generica posizione dell’antinomia di trascendenza e immanenza, per cui si parlerà di trascendere – se mai sia possibile – l’esperienza nell’orbita del pensiero! ” (“Conversazioni di metafisica”). Il principio o “cominciamento” della filosofia ò, secondo quanto affermava lo stesso Tommaso, l’ente (ciò che per primo l’intelletto concepisce) a cui Bontadini applica quello che egli stesso chiama ” Principio di Parmenide “, riformulato in termini non-monisti: ” la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà , dall’altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente, ai due piloni del fondamento: l’esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità … sono verità , però, che in quanto prese nell’antinomia (antinomia dell’esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un’imputazione di falsità . Giacchè l’esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell’esperienza” (“Metafisica e de-ellenizzazione”). La neoscolastica riproponeva di riattualizzare il pensiero aristotelico-tomistico (e talvolta, più in generale, la tradizione metafisica classica) e di intrecciare un attivo dialogo tra esso e il pensiero moderno. Uno dei fondatori della scuola fu Francesco Oliati, accanto al quale vanno ricordati almeno Amato Masnovo, Umberto Antonio Padovani e Sofia Vanni Rovighi. All’inizio Bontadini studiò a fondo la filosofia di Giovanni Gentile accettando il suo superamento del “dualismo gnoseologico”, ossia di quella concezione (che va da Descartes a Kant) secondo la quale l’essere ò al di la del pensiero. Per quanto la sua formazione sia avvenuta all’interno dell’orizzonte culturale indicato sopra, Bontadini ha sempre rivendicato una propria autonomia, definendosi un filosofo “neoclassico”. Questa espressione non significa ch’egli abbia inteso pensare secondo un determinato sistema, ma solo che si ò riferito alla metafisica classica perchè ispirato dal concetto classico dell’essere. Per Bontadini il significato di tale concetto va precisato appropriatamente, e ciò anzitutto sottolineandone la sua costitutiva opposizione al negativo. In secondo luogo occorre mostrare come l’essere esprima l’insopprimibile istanza fondazionale accertabile in sede ontologico-gnoseologica. Uno dei meriti principali di Bontadini ò quello di aver precisato con rigore come si costituisce strutturalmente il sapere, e il fatto che il suo punto di partenza ò l’esperienza. Se quest’ultima ò il “cominciamento” del sapere, ciò vuol dire ch’essa possiede una posizione metodologica essenziale (dove per merito si intende non tanto uno strumento o una regola, ma il “processo effettivo” attraverso il quale il sapere va costituendosi). L’esperienza non ò dunque intesa nè come costruzione nè come recezione (secondo i modelli classici del razionalismo e dell’empirismo confluiti in Kant). L’unico suo concetto adeguato, perchè fondato, ò quello di “presenza”, come l’idealismo ha in certa misura compreso. Il gnoseologismo moderno ha invece concepito l’esperienza secondo una prospettiva dualistica, più precisamente nel ” quadro del presupposto della dualità dell’essere e del conoscere “. Ma in tal modo il problema metafisico risulta condizionato dal problema gnoseologico e quest’ultimo appare di assai ardua soluzione. La filosofia moderna ipotizza infatti, due ordini diversi, quello del pensiero e quello della realtà , e poi si chiede come sia possibile passare da una sfera all’altra. Solo la filosofia moderna ha contribuito a sopprimere questo dualismo, mostrando che l’ “al di là ” del pensiero, appena lo si consideri, fa già parte del pensiero. Se l’essere si configura come fondamento dell’esperienza (dell’esperienza come “presenza”), ne viene che questa ò “assoluta”, ” in quanto non subordinata ad un particolare processo empirico di costituzione “, ed ò ” totale perchè le molteplici insorgenti presenze sono comprese in essa “. D’altra parte, poichè la molteplicità delle esperienze ò esperibile solo all’interno di un orizzonte universale, l’esperienza si pone come “unità dell’esperienza”. Ma questa unità dell’esperienza ò la totalità dell’essere? O esiste qualcosa di diverso dall’esperienza? A questa seconda domanda occorre rispondere anzitutto che qualcosa di diverso o altro, dall’esperienza non può essere “dato”: in effetti, in quanto dato, sarebbe comunque dentro l’esperienza. Tuttavia l’ âaltro’ dall’esperienza può venire pensato. Sorge così la distinzione tra esperienza e tra ragione, cioò l’esistenza di idee che appartengono all’esperienza e di idee che invece la trascendono. Ora per Bontadini il concetto di unità dell’esperienza (come punto di partenza del sapere) appartiene non all’orizzonte dell’esperienza ma all’ordine “teoretico”, e tale ordine ò governato dal principio di non-contraddizione. Si può dunque affermare che la condizione formale affinchè ci sia l’esperienza ò che il pensiero non sia contraddittorio; ” ogni assunto a tesi, in cui la teoreticità si traduca, si può considerare fondato, allorchè il suo contraddittorio ò stato escluso e si deve considerare fondato, solo se il contraddittorio ò stato escluso “. Il principio di non contraddizione ò quindi un principio logico il quale però si riferisce a un contenuto che ò l’esperienza. La circolarità tra esperienza e pensiero costituisce ” la struttura originaria del sapere “. Senonchè il contenuto dell’esperienza ò il divenire, il quale implica ” il non essere dell’essere (di un certo essere) “. Ciò significa che il divenire ò contraddittorio. Esso ò tal in rapporto appunto al principio di contraddizione, cui Bontadini conferisce un rilievo cruciale: non solo logico-gnoseologico ma metafisico-ontologico. Il principio di non contraddizione, infatti prescrive alla realtà la necessità di essere e l’essere esige di esistere in quanto opposto al non essere (non a caso Bontadini chiama tale principio “principio di Parmenide”). Ma se l’essere deve darsi e si dà in quanto esclusivo del non essere, d’altra parte sussiste un ente che invece ò in divenire (dunque non ò essere) e che deve avere una ragione. A questo punto la struttura del sapere si trova divaricata in un’esperienza, che fa constatare il divenire, ò nel principio di possibile risolvere l’opposizione e giungere a una sintesi? Il ” teorema di creazione ” ò la figura che, secondo Bontadini, permette di mediare l’esperienza e il principio di non contraddizione. Ciò equivale a dimostrare l’esistenza di Dio e la sua trascendenza rispetto al mondo (ma non rispetto alla “presenza”). Dio ò infatti l’Essere assolutamente necessario ed assolutamente autofondato, coincidente con la ” Verità prima e totale ” e coll'”Assoluto”. Quanto al divenire, esso ò possibile trovandone la ragione, il fondamento, vale a dire rimuovendo la sua contraddizione attraverso il riferimento a Dio come Essere creatore: ” La contraddizione del divenire ò superata con la dottrina della creazione, in quanto quella identificazione dell’essere e del non essere, che riscontriamo nell’esperienza, ò ora vista come il risultato dell’azione dell’Essere “. Lâunico modo per far fronte al divenire incessante a cui ò soggetto il mondo sta nellâammettere lâesistenza di un ente trascendente immutabile ed eterno, esulante dal divenire: tale ente ò Dio; la posizione di Bontadini verrà rovesciata dal suo allievo Emanuele Severino (anchâegli attentissimo alla filosofia di Parmenide), il quale â riducendo allâosso il suo pensiero â dirà che il divenire non esiste e che, pertanto, non câò alcun bisogno di trovar rifugio presso un ente eterno trascendente. Bontadini arriva a postulare lâesistenza di Dio facendo ricorso al “principio di non contraddizione” di Parmenide, ossia sostiene che l’esperienza del “divenire” cozza contro il principio parmenideo secondo cui l’essere, proprio in quanto tale, non può non essere (non può diventare nulla) e, quindi, deve essere immutabile. Da una parte, cioò, per Bontadini vi ò il dato certo dell’esperienza del divenire (ò un fatto che le cose divengono), dall’altra vi ò il “logos” (la ragione) che dice che ò logicamente possibile che l’essere nasca dal non essere e ricada nel nulla. Ora il divenire sarebbe contraddittorio se si concepisse come “originario” perchè nel divenire “qualcosa” (cioò “essere”) andrebbe distrutto, cioò diventerebbe nulla (“non essere”), in altre parole dellâessere verrebbe distrutto dal “nulla”. In questa ottica si attribuirebbe al “nulla” un potere positivo di annullamento, il che ò assurdo. Da qui la tesi di Bontadini: la contraddizione ò eliminata sostenendo un Dio creatore. In quanto creato da Dio come diverso da sè, il mondo ò sì diverso, ma insieme identico perchè il suo essere consiste in questa medesima creazione. Inoltre, affinchè il divenire sia incluso in Dio senza che Dio stesso sia in divenire, esso vi deve essere incluso come “posto”, cioò come qualcosa che non aggiunge niente all’Immobile. Ora, se il divenire non viola l’immutabilità di Dio, vuol dire che da Dio esso ò creato come partecipato. Ma se Dio sottrae in tal modo il mondo diveniente all’annientamento ciò significa che tutto ò eterno, o che tutto ò Dio. Nel filosofo milanese ò molto forte la percezione che il problema della filosofia fosse il problema della vita: non dunque una questione puramente accademica, non un’ arida applicazione intellettualistica, ma qualcosa che coinvolgeva il soggetto integrale, qualcosa di esistenzialmente rilevantissimo. ” La filosofia [… ] nasce dalla vita e nata dalla vita la filosofia torna alla vita, perchè la luce che la vita chiede non la chiede ad altri che a sè ” (“Saggio di una metafisica dellâesperienza”). Possiamo poi notare come a livello metodologico anche in Bontadini, come in de Lubac, sia viva la preoccupazione di coniugare antico e nuovo, senza che vada perso nulla di valido nellâuno e nellâaltro. Da un lato lo vediamo fedele alle linee portanti della metafisica classica (apertura del pensiero allâessere e conseguente dimostrabilità razionale dellâesistenza di Dio), utilizzando dâaltro lato proprio a tal fine temi e concetti, stimoli e strumenti tipici della cultura filosofica “moderna”. Intelligente apertura al moderno, senza essere perciò modernisti: tale ò il comune atteggiamento di Bontadini e de Lubac. Merita di essere analizzata la polemica che ha contrapposto Bontadini e il suo allievo Severino (con lâespulsione di questâultimo come “eretico” dalla Cattolica di Milano, nel 1969): Severino, nel 1964, esce con un saggio apparso su “Rivista di filosofia neo-scolastica”, fasc, II dal titolo “Ritornare a Parmenide”, in cui distrugge ogni distinzione tra la sfera immutabile del divino ed il mondo diveniente affermando l’eternità e l’immutabilità di ogni cosa: ogni cosa – anche il battere delle ciglia in questo istante – ò eterno. Bontadini risponde, sempre sulla stessa rivista, con un articolo dal titolo “Sozein ta fainomena” (cioò “salvare i fenomeni”). Un articolo duro, anche ironico (“Tu dici che il “senso dell’essere” lampeggiato in Parmenide, fu poi subito smarrito [già con lo stesso Eleate!], e non fu poi più ritrovato, se non con te, Emanuele Severino. Tutti fuori della Verità , pertanto, eccetto voi due, l’antichissimo italico e Tu, vivo e gagliardo rampollo di questa terra” (fasc. V, pag. 441). L’ironia continua: “… se N. S. Gesù Cristo ò, secondo la nostra Fede, il Verbo fatto carne, Tu, a ben guardare, risulti inevitabilmente essere [… ] la Carne fatta Verbo, quella Carne, cioò, che, finalmente, ò assurta al possesso del Vero” (ib. pag. 440). E continua: “… io mi chiesi [… ] con quale barba si trovi, nel mondo dell’essere, il mio alter ego immutabile. Giacchè, da quando ero matricola venendo fino ad oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpo – quello fissato per l’eternità – per fare posto a tutte” (ib. pag. 444). La tesi di fondo ò la difesa del suo “principio di creazione”: la contraddittorietà del divenire ò superata dalla contraddizione “in quanto quella identificazione dell’essere e del non-essere, che riscontriamo nell’esperienza, ò ora visto come il ‘risultato’ dell’azione dell’Essere (azione indiveniente dell’Essere indiveniente)” (ib. pag. 448). E nella “Postilla” al nuovo intervento di Severino sulla stessa rivista (Ritornare a Parmenide, Poscritto), fasc. V, Bontadini tira fuori un argomento sicuramente forte: quand’anche tutto fosse eterno, non si potrebbe, comunque, negare il divenire di quell’essere che ò lâ”apparire”: “Se anche si ammettesse [… ] che quella carta, che la comune degli uomini dice non esistere più, in quanto si ò vista bruciare, esiste invece ancora, ed eternamente, fuori dell’esperienza [… ] ò però ineliminabile quel ‘residuo’ di divenire contro cui Severino si arrovella col suo ampio argomentare: ossia il divenire – epperò il non-essere – dell”apparire’ della carta” (pag. 619). Un argomento che riproporrà anche in altri interventi. Sempre sulla stessa rivista, nel 1983, in “Per continuare un dialogo”: “Il logo pretende – non può non pretendere! – che non solo l’ente che scompare continui ad essere, ma che continui ad essere anche il suo apparire. E’ contro quest’ultima, d’altronde legittima! pretesa che l’esperienza si pronuncia. Si tratta dell’esperienza – che si fa del continuo – dello scomparire. Se ciò che scompare continua non solo ad essere, ma anche ad apparire, però codesto perdurante apparire, preteso dal logo, non ò quello stesso che nell’esperienza – nell’Unità dell’Esperienza – ò venuto meno, e che ò significato dallo stesso termine ‘s-comparire’. Se fosse lo stesso, allora, come ò permanente – eterno – l’apparire affermato dal logo, così dovrebbe essere permanente anche l’apparire dentro l’U. d. E. [unità dell’esperienza], e, perciò, non potrebbe aver luogo l’esperienza dello scomparire, ossia la constatazione che qualcosa non appare più” (pagg. 112-113).
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- Filosofia - 1900