L’ opera più significativa del periodo di Jena ò la Fenomenologia dello spirito, portata a termine nel 1807: essa ò definita da Hegel come ‘ storia romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi infelicità e dolore esce dalla sua individualità e raggiunge l’universalità , riconoscendosi come ragione che ò realtà e realtà che ò ragione ‘. In essa ritornano, trovando un più ampio sviluppo, due presupposti già presenti nelle opere precedenti. In primis, la Fenomenologia obbedisce al principio per cui ” il vero ò l’ intero “: la verità si consegue soltanto quando i diversi aspetti parziali della realtà sono considerati non più nella loro astratta separazione, bensì come momenti e articolazioni della totalità di cui fanno parte. In secundis, Hegel ribadisce che questa totalità , che ò oggetto del vero sapere, non ò qualcosa di già dato, che staticamente si offra all’ analisi del soggetto come una realtà diversa e contrapposta ad esso. Al contrario, la conoscenza della totalità assoluta in cui consiste la verità , ò il risultato di un processo gnoseologico, nel quale il soggetto che conosce ò intimamente implicato. In termini hegeliani, la verità non ò “sostanza”, cioò qualcosa di immobile nella sua compiutezza, ma “soggetto”, spirito, cioò attività , svolgimento, movimento: ” La verità ò il movimento della verità in se stessa “. Le diverse fasi del processo che porta alla verità non sono altro che i diversi modi in cui il soggetto conosce se stesso e, di conseguenza, si rappresenta la realtà . La Fenomenologia descrive quindi l’ “esperienza” della coscienza che passa progressivamente dai gradi più bassi della conoscenza (che sono espressioni provvisorie e apparenti, cioò appunto fenomeniche, della verità ) al “sapere assoluto”, alla forma di conoscenza con cui lo spirito conosce infine la sua autentica essenza. Il soggetto del processo fenomenologico ò quindi sempre l’ Assoluto, il quale però nelle prime fasi di esso non si conosce ancora come tale, ma soltanto secondo il grado di sviluppo raggiunto dalla coscienza in quel particolare momento. Solamente al termine del processo, quando lo spirito ha esplicato completamente se stesso, quando la verità ò ricomposta nella totalità delle prospettive e dei gradi che la compongono, la coscienza giunge a conoscere completamente se stessa come Assoluto. I diversi momenti del processo fenomenologico si esprimono in figure dello spirito, che hanno una duplice valenza. Da un lato, esse manifestano, per così dire, il punto di vista acquisito dalla coscienza (o dalle sue determinazioni superiori) in un particolare momento del suo sviluppo. Dall’ altro, esse sono considerate dal punto di vista della totalità del processo, in modo da cogliere non soltanto quel che esse contengono, ma anche quel che non contengono ancora, quel che costituisce il loro limite in quanto materia del successivo sviluppo dello spirito. In questo modo la successione delle figure non appare arbitraria o causale, ma rispecchia il concatenamento necessario nelle diverse fasi relative allo sviluppo dello spirito assoluto. Ciascuna figura rappresenta insieme il superamento e la conservazione delle figure che la precedono, le quali non vengono da essa eliminate, ma soltanto integrate con gli aspetti di cui esse ancora non erano consapevoli, fino a pervenire alla consapevolezza totale dell’ Assoluto. Più precisamente la successione delle figure, e in generale il processo fenomenologico, obbedisce a un movimento dialettico. In ogni fase di sviluppo del processo, infatti, il soggetto appare prima in sè, come la semplice coscienza di un oggetto (momento dell’affermazione immediata); poi, dal momento che l’oggetto appare come qualcosa di altro rispetto al soggetto, come il suo contrario, il soggetto viene negato dall’oggetto (momento della negazione, della mediazione); alla fine, il soggetto si rende conto che l’oggetto non ò altro che la proiezione (in termini hegeliani, l’ “alienazione”) di se stesso al di fuori di sè, ritrovando l’unità di soggetto e oggetto: il soggetto diventa così un per sè, ossia diventa cosciente di se stesso, conosce come se stesso quel che nel momento precedente gli era apparso come diverso da sè. La progressiva presa di coscienza di sè da parte del soggetto, in cui consiste lo sviluppo fenomenologico, ò considerabile come un processo di progressiva interiorizzazione dell’oggetto che via via si presenta come esteriore al soggetto. Il movimento dialettico si ripresenta infatti in tutti i passaggi da una fase all’altra del processo, pur variando, naturalmente, i contenuti del soggetto e dell’oggetto. Il passaggio dialettico ò il movimento interno alla coscienza, ossia il principio tramite cui la coscienza sviluppa se stessa, passando dai gradi inferiori a quelli superiori. Ma dal momento che alla fine del processo la coscienza si conosce come Assoluto, la dialettica ò anche il principio interno dello sviluppo dell’Assoluto, ossia ò il principio che regola lo svolgimento e l’esplicazione della realtà . Ancora una volta la dialettica ò insieme la legge del pensiero e dell’essere. Di conseguenza, le diverse figure dello spirito vengono ad avere una seconda duplice valenza. Da un lato, esse sono momenti della coscienza singola, cioò fasi, che ciascun singolo individuo ripete nella sua esperienza personale; dall’altro, esse sono momenti di quella coscienza universale che ò l’Assoluto, e quindi fasi dello sviluppo della realtà , della storia. Per questo alcune figure fanno riferimento a determinate fasi dello sviluppo storico: ma anche in questo caso i periodi storici che passano sulla ribalta della Fenomenologia non doverono essere considerati come individualità prettamente storiche, come fenomeni inseriti in una successione rigorosamente cronologica (spesso disattesa da Hegel): essi sono piuttosto esemplificazioni concrete di momenti ideali dello sviluppo dello spirito, i quali in nessun modo si possono esaurire in un insieme di circostanze. La concezione hegeliana della conoscenza come processo dialettico esclude i due modelli gnoseologici prevalenti all’inizio dell’Ottocento. In primo luogo ò respinta la concezione rappresentativa (propria della tradizione filosofica fino a Kant), secondo la quale la conoscenza ò la rappresentazione ottenuta mediante l’attribuzione di un predicato (o di più predicati) a un soggetto: questo modello conoscitivo si fonda sulla semplice proposizione identica, la quale si limita ad affermare l’identità tra il soggetto e i predicati ad esso riferiti. Per Hegel invece la conoscenza ò conseguibile soltanto attraverso un processo nel quale ogni aspetto della realtà viene dialetticamente connesso con il suo opposto (il soggetto viene dialetticamente connesso con l’oggetto), per poi contrapporre la totalità parziale così ottenuta alla totalità parziale ad essa esposta, e così via fino al conseguimento progressivo della conoscenza dell’intero, ovvero del sapere assoluto. Per fare questo si deve però ricorrere alla proposizione speculativa, la quale non ò data dalla semplice congiunzione di un soggetto ad un predicato, ma consiste in un’affermazione dialettica che, essendo indisgiungibile dall’insieme complessivo e interconnesso delle altre proposizioni conoscitive, rimanda in ultima analisi all’intero sistema della conoscenza. In secundis, la concezione dialettica della conoscenza esclude anche quella posizione (sostenuta dai filosofi romantici) per cui la verità assoluta, pur non essendo conseguibile mediante una conoscenza di tipo rappresentativo e discorsivo, può essere colta con un atto di intuizione immediata. Il procedimento dialettico, infatti (o, se si vuole, la proposizione speculativa), comporta la presa di coscienza dell’articolazione razionale del tutto, attraverso la quale soltanto ò possibile pervenire alla verità . Solamente passando attraverso le diverse figure fenomenologiche, la coscienza può giungere al sapere assoluto; ovvero, considerando la cosa dal punto di vista sistematico che prevarrà in Hegel dopo il periodo jenese, la conoscenza della totalità ò data esclusivamente dalla ricomposizione articolata (cioò differenziata) delle parti del sistema. Chi cerca di cogliere l’Assoluto praticando scorciatoie conoscitive e appellandosi alle facoltà rivelative dell’intuizione finisce col confondere tutte le distinzioni in un’unità che, assolutamente indifferenziata, non ò più nulla o, secondo la famosa espressione della Prefazione della Fenomenologia, ò ” la notte in cui tutte le vacche sono nere “. Non a caso, infatti, la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, nel 1807, segue la fine della collaborazione e dell’amicizia fra Schelling ed Hegel. COSCIENZA CERTEZZA SENSIBILE PERCEZIONE INTELLETTO AUTOCOSCIENZA SERVO-PADRONE STOICISMO- SCETTICISMO COSCIENZA INFELICE RAGIONE SCIENZA MODERNA AZIONE INDIVIDUALE ETICITA’ SPIRITO BELLA ETICITA’ REGNO DELLA CULTURA SAPERE ASSOLUTO La prima figura della Fenomenologia dello spirito ò la coscienza naturale, considerata come il momento in cui il soggetto sente l’oggetto come altro rispetto a sò. A sua volta, la coscienza trova la sua più immediata espressione nella certezza sensibile (cioò nella sensazione), che solo in apparenza sembra essere la forma di conoscenza più ricca e più piena: ” il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la conoscenza più ricca. [â¦] Appare inoltre come la più verace; infatti essa non ha ancora tralasciato nulla dell’oggetto, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sè “. La sensazione si presenta come la conoscenza che un individuo particolare (un ‘questi’) ha di un oggetto altrettanto particolare (un ‘questo’), definito nella concretezza del ‘qui’ e dell’ ‘ora’. Ma ad un superiore livello di consapevolezza il ‘qui’ e l’ ‘ora’ appaiono essere applicabili a qualsiasi contenuto, per cui il ‘questo’ diventa un generico ‘questo’, un ‘questo’ universale che non si riferisce a nulla di specifico. Allo stesso modo, il soggetto appare un ‘questi’ universale, riferibile a qualsiasi soggetto. La certezza sensibile perde così ogni autonoma valenza conoscitiva e si risolve nell’universalità formale del linguaggio. Si passa pertanto alla percezione, nella quale si intende cogliere la cosa nell’insieme delle qualità che la costituiscono. Ma anche in questo caso ci si trova di fronte ad una contraddizione, dal momento che la cosa percepita appare nel contempo come una e molteplice. Da una parte, infatti, essa ò una molteplicità di qualità (il sale ò bianco, sapido, ha un certo peso, ecc. ); dall’altra, parte tali qualità si raccolgono nell’unità della cosa (il sale). Si perviene così alla consapevolezza che l’unità non ò intrinseca alla cosa, ma ò la coscienza che ‘ si fa carico ‘ di essa, collegando e unificando le diverse proprietà della cosa. Il terzo momento della coscienza ò l’ intelletto, al quale l’oggetto appare come fenomeno, cioò come manifestazione di forze che agiscono secondo una legge determinata e in essa trovano la loro unità . Questa legge, però, non fa più parte del fenomeno sensibile, ma ò un elemento soprasensibile che dipende dal soggetto. Il che vuol dire che l’oggetto della sensibilità viene ricondotto alla coscienza e risolto in essa. In altre parole, la coscienza si rende conto del fatto che ciò che essa opponeva a sè come oggetto non ò qualcosa di diverso da se stessa. In questo modo essa diviene consapevole di sè (non essendo più solamente un oggetto contrapposto a un oggetto), diventa cioò un’ “autocoscienza”. L’ autocoscienza così realizzata ò però un’autocoscienza individuale, che trova di fronte a sè una pluralità di altre autocoscienze. Tra di esse, anzi, si instaura un rapporto conflittuale: infatti ciascuna di esse nutre un “appetito”, rivolto al possesso della natura, il quale ò in competizione con quelli delle altre autocoscienze. Per affermare la propria superiorità l’autocoscienza deve ottenere il riconoscimento da parte delle altre: questo ò possibile soltanto attraverso una lotta a morte, in cui l’autocoscienza deve rivelare la propria superiorità mostrando di sapere mettere in gioco la vita e di non aver paura della morte. L’autocoscienza che riuscirà in questo, apparirà come il “signore”, mentre quella che preferirà sottomettersi all’altra pur di aver salva la vita diventerà il “servo”: sorge così la figura della signoria e servitù che rappresenta i rapporti di potere che si instaurarono tra gli uomini nel mondo antico. In virtù del suo stato di soggezione, il servo lavora per il suo padrone: ” il signore ò la coscienza che ò per sè; ma non più soltanto il concetto della coscienza per sè, anzi coscienza che ò per sè, la quale ò mediata con sè da un’altra coscienza “. Ma in questo modo, proprio attraverso il lavoro, egli si rende progressivamente conto di saper dominare la natura e di trasformarla in un suo prodotto, trasferendo in essa la sua personalità di uomo, a diversità del signore stesso il quale, incapace di provvedere da solo ai propri bisogni, rivela la sua “dipendenza” dal lavoro del servo e dalla natura. Tramite il lavoro, il servo prende quindi coscienza della sua “indipendenza” dalla natura e, conseguentemente, dal signore, conquistando in questo modo la propria libertà . Alla figura del “servo-signore”, che descrive la progressiva conquista della libertà da parte dell’autocoscienza, succedono altre figure, che corrispondono a diverse forme e livelli di realizzazione di tale libertà . Nello stoicismo quest’ultima esprime come “indifferenza” della coscienza interiore, e quindi del pensiero, nei confronti del mondo attuale esterno: ” tale coscienza ò quindi negativa verso la relazione signoria/servitù: il suo operare non ò nè quello del signore che trova la propria verità nel servo, nè quello del servo che trova la propria verità nella volontà del signore e nel servizio resogli; anzi il suo operare ò di essere libera sul trono e in catene e in ogni dipendenza del suo singolo esserci ò di riservarsi l’inerzia che dal movimento dell’esistenza, così dall’agire come dal patire, si rifugia sempre nell’essenza semplice del pensiero. [â¦] Lo stoicismo ò la libertà che, uscendo sempre da lei stessa, ritorna nella pura universalità del pensiero “. Nello scetticismo, invece, la libertà del mondo esterno si radicalizza nella sua completa negazione: ” lo scetticismo ò la realizzazione di ciò di cui lo stoicismo ò soltanto il concetto: ò l’esperienza effettuale di ciò che sia la libertà del pensiero. [â¦] Nello scetticismo si palesa per la coscienza la totale inessenzialità e dipendenza di questo altro. [â¦] Il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l’essere del mondo molteplicemente determinato. [â¦] Indica pure l’inessenzialità di ciò che ha importanza nel comportamento del dominare e del servire, e di ciò che anche per il pensare astratto conta come qualcosa di determinato. [â¦] Nello scetticismo la coscienza fa in verità esperienza di sè come di una coscienza contraddicentesi entro se stessa. “. La libertà che nell’autocoscienza conquista rispetto al mondo esterno non elimina però un’altra e più profonda scissione: quella tra il finito e l’infinito, tra il mutevole e l’immutevole, cioò tra l’autocoscienza e la divinità . La consapevolezza di questa separazione, ancora irrisolta, dà luogo alla figura della coscienza infelice: essa ” ò la coscienza di sè come dell’essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione. [â¦] Assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro cui la vittoria ò piuttosto una sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario. La coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, ò soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza dell’essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario, ed ò quindi conscia della propria nullità . Da questa posizione essa inizia la sua ascesa verso l’intrasmutabile “. Per risolvere questa scissione e realizzare pienamente la propria libertà , l’autocoscienza cerca di perdersi nell’immutabile, nell’infinito: ò il momento dell’ascetismo cristiano medioevale, in cui l’uomo (l’autocoscienza) si innalza a Dio e si perde in lui. Grazie a questa unificazione la coscienza riconosce la propria assolutezza, si rende conto di comprendere in sè l’intera realtà . Ma quando consegue ” la certezza di essere ogni realtà “, l’autocoscienza diventa ragione; il che prima appariva qualcosa di esterno alla coscienza, ora non ò più che un suo momento interno. Giunge così a compimento l’ “idealismo”, cioò la consapevolezza che la realtà ò l’idea, il pensiero stesso. Questo processo di appropriazione della realtà da parte del pensiero conosce naturalmente diversi gradi. In primis, la ragione osservativa si appropria della natura conoscendola, cioò cercando nella struttura del mondo naturale (inorganico e organico) la legge della ragione stessa: ” la coscienza osserva: vale a dire, la ragione vuol trovare e avere sè quale oggetto nell’elemento dell’essere, quale modo effettuale e sensibilmente presente “. In secundis, la ragione si accorge che, per oggettivarsi nella realtà , non può limitarsi a conoscerla, ma deve operare su di essa con l’ azione individuale, prima facendone l’oggetto del proprio godimento (l’azione faustiana indirizzata al piacere) poi cercando di imporre al corso delle cose la propria norma interiore (la romantica “legge del cuore”). Ma l’obiettivo della completa appropriazione del mondo da parte della ragione ò raggiunto soltanto quando l’autocoscienza si realizza non più come ragione individuale, in singole azioni e singole opere, ma come ragione universale, nei costumi e nelle istituzioni di un popolo, ossia nell’elemento dell’eticità . Non più confinata nella sfera dell’individualità , ma oggettivata nella concreta vita dei popoli, la ragione ò diventata spirito. Le sue configurazioni non sono più soltanto ” figure della coscienza “, ossia modi in cui la coscienza si rappresenta soggettivamente la realtà , ma ” figure di un mondo “, ossia momenti oggettivi del processo storico. Il primo di questi momenti ò la bella eticità del mondo greco, nel quale la vita dell’individuo ò tutt’uno con quella della comunità . Ma (come sempre accade nel processo dialettico, fino a che non si consegue la completa comprensione filosofica della totalità assoluta) questa unità immediata e naturale dell’esistenza etica, non ancora penetrata dal punto di vista dell’Assoluto, contiene in sè il germe della scissione. Nella fattispecie la separazione ò quella descritta nell’ Antigone di Sofocle tra legge divina e legge umana, cioò tra la legge dello Stato, fatta di norme scritte, e quella della famiglia, fatta di consuetudini consolidate. Questa divisione si consuma nel mondo romano, dove individuo e Stato vengono contrapposti: la legge non ò più la stessa volontà individuale che trova un’espressione pubblica nelle istituzioni dello Stato, ma un “diritto” che quest’ultimo impone estrinsecamente al cittadino come un potere che lo sovrasta. Nell’Antigone di Sofocle Creonte, re di Tebe, aveva vietato la sepoltura di Polinice, considerato traditore della patria, mentre aveva promosso quella del fratello di Polinice, Eteocle; però Antigone, sorella dei due defunti, non può permettere che il corpo di uno dei due fratelli rimanga insepolto e così gli getta sopra, in gesto simbolico, una manciata di polvere. Qui inizia il contrasto tra Antigone e Creonte: Antigone, seguendo le ragioni private, vuole seppellirre il fratello caduto, Creonte, seguendo le ragioni dello Stato, ò contrario. Nel contrasto Antigone/Creonte Hegel vede il conflitto tra la Famiglia e lo Stato. L’abbandono dell’eticità naturale, nella quale l’unità ò ritrovata spontaneamente come già data, appunto, nello stesso elemento naturale, comporta il passaggio al ” regno della cultura “, dove viene rifiutato tutto quel che ò immediato e si assegna valore soltanto a quel che ò mediato e riflesso, ossia frutto di un’operazione del pensiero. La ” filosofia della riflessione ” (contro la quale Hegel aveva accanitamente polemizzato negli scritti precedenti) assume ora una duplice valenza. Da un lato essa ha un valore positivo, perchè segna il superamento dell’immediatezza naturale (che si accontenta di cogliere la realtà così com’ò data, senza conoscerla come spirito) e l’ingresso in quella “mediazione” del pensiero che ò indispensabile per la comprensione dialettica della realtà . D’altro lato la “riflessione” riveste una connotazione negativa dal momento che ò opera dell’intelletto o di una ragione intesa ancora intelletualisticamente come facoltà conoscitiva che, anzichè cogliere la realtà nella sua totalità unitaria (concreta), la mette da parte e la frantuma in una molteplicità di aspetti parziali (astratti). Il punto più elevato della “riflessione” ò conseguito dall’ illuminismo, che tutto sottopone al vaglio della ragione riflettente, ingaggiando con la “fede” (che ò una forma di sapere ancora immediato) una lotta che si conclude con la totale vittoria della riflessione. Ma la libertà della ragione che così subentra ai vincoli imposti dalla fede e dalla tradizione ò una libertà puramente negativa, che tutto abbatte senza proporre nulla di positivo (come era accaduto, per esempio, durante il periodo rivoluzionario del Terrore giacobino). Dopo essere passato attraverso la negatività della riflessione, lo spirito giunge finalmente alla consapevolezza di se stesso. Nell’eticità del mondo greco l’unità sostanziale dello spirito era infatti ancora vissuta inconsapevolmente, in maniera ingenua, come qualcosa di offerto spontaneamente dalla natura. Soltanto attraverso il momento negativo della cultura e della riflessione dello spirito prende coscienza delle sue articolazioni interne, che gli appaiono, per ora, come una serie di opposizioni e scissioni. Al termine e in virtù di questo processo però lo spirito riconquista consapevolmente la propria unità , risolvendo in una totalità unitaria le opposizioni della riflessione, e prendendo coscienza di sè come di un Assoluto. Nella religione, però, quest’ultimo ò colto ancora sotto forma di una rappresentazione, che varia in base al livello di sviluppo conseguito dalla coscienza dei diversi popoli: si avrà così una religione naturale (popoli orientali fino agli egizi), una religione artistica (popolo greco e romano), una religione rivelata (cristianesimo). Ma la rappresentazione, per quanto elevata, appare non adeguata a esprimere l’identità dello spazio con sè stesso. Infatti, in essa si mantiene la distinzione tra il soggetto (che rappresenta) e l’oggetto (rappresentato): Dio appare ancora come trascendente il mondo. Soltanto con il sapere assoluto, che ò l’ultima figura fenomenologica, lo spirito diventa consapevole di sè in forma non rappresentativa, ma concettuale: solamente per mezzo del concetto filosofico, infatti, lo spirito può “pensare” se stesso, ossia essere insieme soggetto e oggetto del sapere. In questo modo la Fenomenologia non ò più soltanto sviluppo, processo, storia della coscienza; essa ò anche scienza, cioò conoscenza totalizzante e sistematica dello spirito nella complessità dei suoi momenti. Nella Fenomenologia, però, i due aspetti sono assolutamente indisgiungibili, dal momento che la scienza ò conseguibile soltanto come risultato del processo conoscitivo, ossia della storia della coscienza.
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