Vita e introduzione alla filosofia Hegel nasce nel 1770, in una generazione particolarmente importante perchò vive l’esperienza della Rivoluzione Francese. Quando essa scoppierà , Hegel avrà quasi vent’anni e sarà studente di teologia; suo compagno di studio sarà Schelling e con lui innalzerà , nel collegio luterano dove studiavano, un ‘albero della libertà ‘, simbolo della Rivoluzione. E’ interessante questa simpatia giovanile di Hegel per la rivoluzione Francese, soprattutto perchò, in età matura, muterà radicalmente il suo atteggiamento. Vi saranno pensatori, come ad esempio Fichte, che nutriranno sempre simpatia per la Rivoluzione, ve ne saranno altri che nutriranno una cordiale antipatia per essa, vista come il dissolversi della società organicistica e il prevalere del singolo e della proprietà privata. Hegel non farà mai parte dei reazionari, ma rientra nel novero di quegli autori che tendono a riconoscere la positività e il valore di ogni momento della storia, anche dei più drammatici, nella convinzione che, per giungere ad una fase positiva, si deve passare per fasi negative. Il lato positivo degli eventi negativi consiste, secondo Hegel, nel fatto che fossero indispensabili per arrivare alle fasi positive. Bisogna saper trovare la rosa nella croce, dirà Hegel, convinto che ogni negativo sia anche positivo, se visto in funzione della totalità . Queste riflessioni di fondo, ci aiutano a capire perchò Hegel, dopo gli entusiasmi giovanili, sarà molto critico nei confronti della Rivoluzione e vedrà in essa una fase negativa della storia che, come ogni fase, ò però anche positiva poichò necessaria. Molto importante nella vita di Hegel, oltre al rapporto con la Rivoluzione, ò anche l’amicizia con Schelling, stretta ai tempi del collegio e destinata a terminare nel 1807, quando Hegel ha 37 anni. Hegel, sebbene fosse più anziano, si dichiarerà seguace di Schelling fino al 1807, anno in cui pubblicherà la Fenomenologia dello spirito, con cui prenderà definitivamente le distanze dal maestro. Prima di allora, si era limitato a comporre manoscritti in cui si cimentava in prove di argomento teologico. Tali manoscritti, raccolti sotto il nome di Scritti teologici giovanili, contengono embrionalmente elementi filosofici che Hegel svilupperà in seguito. Significativo ò l’articolo pubblicato da Hegel sulla rivista di Schelling e intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling, in cui prende posizione a favore della filosofia di Schelling, convinto che quella di Fichte sia un idealismo soggettivo, dove cioò ò il soggetto a porre l’oggetto. Schelling aveva il merito, spiega Hegel, di aver trovato il principio in una realtà assoluta che fondava l’identità tra soggetto e oggetto e meglio rispondeva alle esigenze proprie dell’idealismo. Fichte, invece, ammetteva che prima dell’identità tra soggetto e oggetto vi fosse già , a sò stante, il soggetto, allontanandosi così in un certo senso dalla nozione centrale dell’idealismo: l’identità tra soggetto e oggetto. Con la Fenomenologia dello spirito (1807), la sua prima grande opera, Hegel si stacca da Schelling e dà la prima formulazione del proprio pensiero, formulazione che resterà press’a poco la stessa per tutto il corso della sua vita. E tuttavia nella Fenomenologia lo stile hegeliano ò più vivace e ricco rispetto a quello delle opere posteriori: la realtà stessa appare come un qualcosa di più vivace e dinamico. Probabilmente questo ò dovuto al fatto che l’Hegel della Fenomenologia era ancora giovane e vitale, mentre il pensiero posteriore a tale opera tenderà ad istituzionalizzarsi e a cristallizzarsi. L’ultima fase della vita di Hegel ò caratterizzata dall’assunzione della cattedra di Berlino e dal continuo sforzo di piazzare suoi seguaci nelle altre cattedre. Non bisogna dunque stupirsi se il dinamismo della Fenomenologia tenda sempre più ad attenuarsi e il sistema hegeliano spinga verso la staticità : Hegel intende fare della propria filosofia un puntello ideologico della Prussia egemonica. Per curiosità , si può notare che nei testi pervenutici delle sue lezioni berlinesi il carattere di staticità presente nelle opere ò completamente assente, quasi come se la sua filosofia, espressa oralmente, fosse più libera e meno conservatrice. Passando ad esaminare la Fenomenologia dello spirito, essa ò l’opera che segna il distacco da Schelling: se ò vero che Hegel apprezzava del suo ex-maestro il fatto che rendeva conto, meglio di Fichte, dell’identità assoluta di soggetto e oggetto, tuttavia criticava aspramente il modo con cui Schelling concepiva e raggiungeva tale identità . In sostanza, Hegel accusa Schelling di aver adottato una banale scorciatoia per giungere all’identità assoluta: la negazione della filosofia e il privilegiamento dell’intuizione artistica. Dopo di che, Hegel, non ancora soddisfatto, biasima anche il modo in cui Schelling concepisce l’Assoluto: l’identità assoluta da cui tutto deriva. Hegel, per criticare il suo rivale, ricorre a due metafore, paragonando il modo in cui Schelling arriva all’Assoluto ad un colpo di pistola e il modo in cui concepisce l’Assoluto ad una notte in cui tutte le vacche sono nere. Schelling ò arrivato subito alla destinazione, ovvero all’Assoluto, proprio come un colpo di pistola giunge subito al bersaglio, perchò ha messo l’Assoluto all’inizio, come identità sempre esistita tra soggetto e oggetto; ha poi concepito l’Assoluto in modo confusionario, come incapacità di distinguere il soggetto dall’oggetto per mancanza di luce, come di notte non si distinguono le vacche l’una dall’altra non perchò sono davvero nere, ma perchò non si vede il loro vero colore. Hegel vuole invece pervenire ad una concezione dell’Assoluto in cui si riconosce l’identità ultima della contrapposizione tra, ad esempio, soggetto e oggetto, ma deve essere un’identità alla quale si giunge alla fine, non con un colpo di pistola: non si deve cioò, sulle orme di Schelling, negare fin dall’inizio la contrapposizione tra soggetto e oggetto, bensì bisogna passare per tale contrapposizione e riconoscerne l’identità solo alla fine. Non bisogna dunque smarrire la specificità delle differenze negandola fin da principio. Passando ad esaminare le opere di Hegel, esse sono, nel complesso, divisibili tra Fenomenologia dello spirito e opere del sistema, quelle opere cioò, successive alla Fenomenologia, che delineano il sistema hegeliano. Uno dei grandi problemi su cui si sono sempre arrovellati gli studiosi consiste nel chiarire quale rapporto intercorra tra la Fenomenologia e le opere del sistema: si potrebbe dire, in generale, che la Fenomenologia ò il percorso che lo spirito umano compie per acquisire un punto di vista maturo sulla realtà . Tutte le opere successive, invece, descrivono la realtà così come la si vede dal punto di vista acquisito con la Fenomenologia. Non a caso, la filosofia di Hegel ò una delle più grandi costruzioni sistematiche mai elaborate, forse anche maggiore del sistema aristotelico; si tratta di una filosofia in cui vi sono le strutture generali di tutta la realtà in tutti i suoi aspetti, in un’epoca in cui, di fronte all’imperare dell’organicismo, si ambiva al sistema. Passata la moda dell’organicismo e, con essa, quella dei sistemi, ò però difficile che regga una filosofia di questo genere, che mira ad essere totalizzante. E’ curioso che nel sistema hegeliano si ritrova esplicitamente un pezzetto che si chiama Fenomenologia, come l’opera del 1807: questo si spiega se teniamo conto che il percorso ( Fenomenologia dello spirito ) per acquisire la visuale matura sulla realtà fa parte anch’esso della realtà , proprio come quando, saliti sulla vetta di una montagna, volgendo in basso lo sguardo verso la realtà si vede anche il sentiero che ci ha portati lassù. Le opere del sistema sono parecchie e la più sistematica, che meglio descrive il tutto, ò l’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: in essa vi ò tutto Hegel e vi si trovano i 3 momenti della sua filosofia: Logica Filosofia della natura Filosofia dello spirito I tre pezzi, sviluppati nell’ Enciclopedia, Hegel li analizza singolarmente in altre opere, in cui ciascuna delle tre parti si articola in ulteriori divisioni. Ad esempio, nelle Lezioni si occupa dei singoli pezzi della Filosofia dello spirito, nella Scienza della logica tratta analiticamente la logica, o anche nei Lineamenti di filosofia del diritto. Solo la Filosofia della natura non viene chiarita separatamente in apposite opere ed ò facile capire perchò: se con la Filosofia dello spirito o con la Logica ci si occupa dell’uomo, con la Filosofia della natura ci si occupa della natura ed Hegel non la apprezzava affatto, tant’ò che, giunto di fronte alle Alpi, non provò nulla nò seppe mai apprezzare il cielo stellato di Kant. Ad Hegel interessava lo spirito, la dimensione della cultura e del pensiero, mentre la dimensione della natura, tanto cara ai Romantici, non gli stava a cuore. Gli scritti teologici giovanili Hegel cambia più volte luogo di residenza e la sua filosofia prende solitamente il nome dal luogo in cui si trovava quando l’ha elaborata: vi sarà il periodo di Berna, di Francoforte e di Jena. Al periodo di Jena risale la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling mentre al periodo di Berna e Francoforte risalgono gli Scritti teologici giovanili. Si tratta di scritti per molti versi ancora immaturi, elaborati da un Hegel ancora studente e sono stati scoperti e pubblicati solo dopo la morte del filosofo. Sono interessanti perchè mettono in luce la maturazione del pensiero hegeliano, e fanno emergere alcuni aspetti della sua filosofia che resteranno permanenti. Essendo quello hegeliano un pensiero in fieri, si trovano apparenti contraddizioni tra uno scritto e l’altro e bisogna saper cogliere contemporaneamente le differenze che ci sono innegabilmente tra questi scritti ma anche quella sorta di percorso unitario che Hegel segue. L’argomento trattato in tali scritti ò la religione e non la teologia, nonostante il titolo: infatti in essi Hegel non parla di Dio (teologia), bensì del rapporto dell’uomo con Dio (religione). E’ importante questa precisazione perchè evidenzia come l’interesse di Hegel sia sempre riservato, fin dall’inizio, alla realtà umana, lo spirito. Abbiamo del resto già notato che delle tre parti in cui si articola il pensiero hegeliano l’unica a non essere pienamente sviluppata ò la filosofia della natura, che esula dagli interessi di Hegel poichè ò convinto che il grande attore dell’intera realtà sia lo spirito, il quale si manifesta in diverse forme, anche ‘alienate’, ovvero apparentemente diverse da sè (e la natura sarà esattamente questo, spirito alienato in una realtà apparentemente diversa da sè). Con queste considerazioni sulle spalle, possiamo ora analizzare nello specifico le varie opere contenute negli Scritti teologici giovanili. Il primo scritto ò Religione popolare e cristianesimo (1792-94) dove ‘popolare’ non sta a significare che ò una religione divulgativa, bensì vuol dire ‘religione del popolo’ e allude ad una religione che tenda ad identificarsi con l’identità nazionale di un popolo. L’argomento centrale dell’opera ò un paragone tra la religione degli antichi Greci e il cristianesimo, un paragone che fin dall’inizio va a tutto vantaggio della religione greca. E’ curioso che uno studente di teologia luterana dichiari esplicitamente la propria preferenza per la religione dell’antico popolo greco. A portare Hegel a privilegiare la religione greca ò il rapporto che con essa intercorreva tra individuo e società : si attua ora un paragone tra la figura di Socrate e di Gesù, spesso identificate nel corso della storia per via della loro affinità di pensiero. Hegel la pensa in modo diametralmente opposto e sostiene che il messaggio di Socrate vada privilegiato rispetto a quello di Gesù per via delle differenti richieste che hanno fatto ai loro seguaci. Ai suoi discepoli Socrate non chiede di abbandonare il loro ruolo nella società , ad un militare non chiede di cessare l’attività di militare per poter diventare suo seguace: a nessuno chiede di uscire dalla società , li invita anzi a svolgere normalmente il loro mestiere ma rendendosi conto del senso di ciò che fanno. Sull’altro versante, il messaggio di Gesù può essere riassunto nelle parole che egli rivolge a Pietro invitandolo ad abbandonare il lavoro di pescatore per diventare pescatore di uomini, apostolo: chiede ai propri discepoli di abbandonare il loro ruolo per cambiare radicalmente e per staccarsi dalla società chiudendosi in una nuova identità . Nell’ottica hegeliana, l’atteggiamento di Socrate e della religione greca in generale ò migliore rispetto a quello di Gesù e del cristianesimo: nel mondo greco, infatti, la religione non stacca l’uomo dalla società , ma lo fa rimanere in essa dandogli una connotazione e, proprio per questo, la civiltà greca ò superiore. Il motivo storico di questo privilegiamento può essere ravvisato nel fatto che Hegel era luterano e Lutero aveva particolarmente insistito, da un lato, sul fatto che i sacerdoti non dovevano affatto essere uomini sganciati dalla società e, dall’altro lato, sulla sacralità del ruolo che ciascuno svolge all’interno della società , quasi come se vi fosse identità tra professione di lavoro e professione di fede. Accanto a queste influenze di matrice luterana, ad indurre Hegel a preferire il mondo greco vi ò il rifiuto, tipicamente hegeliano, dell’astratto (dal latino abstrahere, tirare via) a favore del concreto (dal latino concresco, crescere insieme): essendo ‘astratte’ le cose concepite separatamente le une dalle altre e ‘concrete’ quelle concepite le une in relazione alle altre, ò evidente che il cristianesimo porta ad un’astrazione, ad una separazione per cui l’uomo sociale diventa altra cosa rispetto all’uomo religioso, mentre il messaggio greco ò concretizzante e l’uomo greco ò al tempo stesso cittadino, uomo e religioso, senza scissioni interne. Nella religione greca, poi, prevale la collettività , il popolo, e si appartiene a tale religione nella misura in cui si appartiene a quel popolo: appartenere al popolo greco vuol dire avere un certo tipo di religiosità , e viceversa. Nel mondo cristiano vi ò netta contrapposizione tra i due aspetti: la religione greca ò della collettività , quella cristiana ò invece privata. In un clima di acceso anti-illuminismo in cui si nega l’idea che vi sia una religiosità naturale di cui quelle storiche sono deformazioni, ò ovvio che Hegel prediliga una religione calata nella concretezza della situazione storica, quale ò quella greca. Merita di essere ricordata una cosa: la religione greca, nella sua unità priva di scissioni, desta l’ammirazione di Hegel, il quale, pur considerandola sempre positiva, ne evidenzierà i limiti. Infatti, in una prospettiva tipicamente romantica, vi ò l’idea che la perfezione debba passare per la sofferenza e che l’innocenza valga meno della virtù poichè, non avendo ancora vissuto la colpa e il male, ò più fragile. L’innocenza ò sì la perfezione originaria, ma, proprio perchò non ha ancora conosciuto la colpa, ò destinata prima o poi a rompersi: solo attraverso l’esperienza della colpa e il superamento di essa si perverrà a quella virtù che altro non ò se non il riproponimento dell’innocenza ad un livello più alto. Ora l’Hegel della Religione popolare e cristianesimo non ò ancora arrivato a queste considerazioni ed ò ancora convinto che il mondo greco sia caratterizzato da perfetta unità , quello cristiano da una frattura. Successivamente, però, vedrà nel mondo greco l’innocenza originaria destinata a spezzarsi, rinunciando alla nostalgia per quel mondo: era sì un mondo di assoluta unità , ma era anche il simbolo dell’innocenza che doveva essere spezzata per poter riconquistare l’unità ad un livello più alto. Non a caso Hegel, fissando gli sguardi vuoti e bianchi delle statue greche e non sapendo che in origine erano colorate con colorazioni sgargianti, vedrà , sotto l’apparente senso di tranquillità , un velo di mestizia, quasi come se presagissero che il mondo greco, nella sua innocenza, prima o poi dovesse sparire. L’opera successiva alla Religione popolare e cristianesimo ò la Vita di Gesù (1795), in cui Hegel sembra dire cose opposte a quelle dell’opera precedente. Si tratta di un’opera di esplicita ispirazione kantiana: se in Religione popolare e cristianesimo vi era una velata critica a Kant e ai suoi dualismi irrisolti (soggetto/oggetto, noumeno/fenomeno, ecc) a cui Hegel contrapponeva il mondo greco, senza frantumazioni, ora invece egli segue il verbo kantiano e vede in Gesù (e nel suo insegnamento di non fare ad altri ciò che non vuoi che sia fatto a te) una sorta di incarnazione dell’imperativo categorico, per cui i comandamenti cristiani altro non sono che gli imperativi della morale. Su questi presupposti, Hegel afferma che la religione cristiana ò una religione naturale, che esplicita i contenuti della morale razionale. Poi però, prosegue Hegel, si ò verificato un fatto negativo: la positivizzazione del cristianesimo, ovvero l’istituzionalizzarsi storico di tale religione. In questo suo istituzionalizzarsi il cristianesimo ha subito un processo di degenerazione e la Chiesa altro non ò che una degenerazione del cristianesimo. E’ un discorso molto illuminista, che tende ad ammettere l’esistenza di una religione naturale divulgata da Gesù e lo storicizzarsi del cristianesimo: e con spirito illuministico, Hegel critica le religioni storiche come degenerazione dell’unica religione razionale. In una terza opera, intitolata La positività della religione cristiana (1795-96), prosegue questo discorso: la cosa curiosa ò che possediamo due versioni di quest’opera. Nella versione più antica Hegel prosegue il discorso avviato in Vita di Gesù e vede nella positivizzazione del cristianesimo un male, una sorta di cristallizzazione in culti e in riti che non facevano parte del pensiero originario di Gesù: inoltre Hegel, con un atteggiamento antiebraico che sarà tipico di tutto il suo pensiero, scorge la causa di questa degenerazione nella cultura ebraica, spiegando che Gesù ha comunicato il suo messaggio adattandolo ad un popolo interamente votato alla esteriorità quale ò quello ebraico; Gesù stesso, per farsi capire, ha dovuto rendere ritualistico il proprio messaggio, ulteriormente ritualizzato dopo la sua morte. L’antipatia di Hegel per l’ebraismo ò dovuta al fatto che in esso vede la tipica religione di quella scissione da lui tanto avversata. Nella seconda edizione muta radicalmente atteggiamento: riconosce che il cristianesimo si ò positivizzato, ma lo vede come un fatto altamente positivo poichè convinto, sulla scia di quanto aveva detto in Religione popolare e cristianesimo, che sia preferibile, ad un astratto messaggio religioso staccato dalla vita religiosa, un messaggio concreto: e la positivizzazione fornisce tale messaggio concreto, in quanto trasforma la religione astratta in un’attività concreta, calata nel mondo sensibile. In questo percorso piuttosto tortuoso tra gli scritti di teologia composti in età giovanile, in cui ogni opera sembra negare quanto detto nella precedente, si possono scorgere elementi costanti: ad esempio, l’insistenza sulla concretezza, sul superamento dei dualismi e delle lacerazioni ritornano, anche se nascoste in vesti diverse, in tutte le opere finora esaminate. Di volta in volta il cristianesimo viene visto e valutato in modi diversi: in Religione popolare e cristianesimo Hegel biasimava il cristianesimo per il fatto che esso strappa gli individui alla società , nella 2° versione de La positività della religione cristiana lo elogia e ne esalta la veste materiale e positivizzata, il che ò in contrasto con la Vita di Gesù. Eppure c’ò un elemento in comune tra le due opere ed ò la critica dell’atteggiamento religioso ebraico visto come esasperata separazione tra uomo e Dio: più in generale, ritorna la critica all’astrattezza. E’ come se Hegel, in varie maschere, inseguisse sempre gli stessi concetti di fondo. La dialettica hegeliana Passiamo ora ad esaminare il periodo di Jena e i suoi scritti: il più importante ò senz’altro la Fenomenologia dello spirito, ma spicca anche la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling, in cui Hegel si schiera dalla parte del maestro Schelling e della sua filosofia contro Fichte, il cui idealismo viene visto come eccessivamente soggettivo. Ma l’ ‘idealismo’, nel suo significato originario, mette in discussione l’esistenza autonoma dell’oggetto e, in ultima istanza, tende a dire che soggetto e oggetto sono la stessa cosa, ossia che vi ò identità tra i due: e questo vale per tutti e tre i grandi idealisti (Hegel, Schelling e Fichte), accomunati dalla critica a Kant per l’aver mantenuto divisioni nella realtà (oggetto/soggetto, essere/dover essere, noumeno/fenomeno, ecc) e per non essere stato in grado di trovare un unico principio. Per Fichte, però, l’oggetto esiste nella misura in cui ò posto dal soggetto, il quale riveste così un ruolo più importante rispetto all’oggetto stesso. Se l’aspetto centrale dell’idealismo risiede nell’identità assoluta tra soggetto e oggetto, allora ò evidente che Hegel preferisca Schelling e la sua Filosofia dell’identità , per la quale l’intera realtà ò riconducibile ad un unico principio che non ò nò natura nò spirito, nò oggetto nò soggetto, bensì sta a monte di ogni frantumazione. L’errore di Fichte sta nell’aver sbilanciato tale identità verso il soggetto, unico vero attore del processo di identità . L’idealismo schellinghiano, al contrario, ò più equilibrato: ò vero che il soggetto pone l’oggetto, ma ò anche vero che dall’oggetto viene fuori il soggetto, con la conseguenza che vi ò un’identità assoluta tra i due. In realtà , leggendo la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling con il senno di poi, ci si accorge che l’adesione hegeliana alla filosofia di Schelling ò più apparente che reale: certo lo preferisce a Fichte, però Hegel sta già imboccando una strada nuova rispetto a quella di Schelling. Anche per lui, come per Schelling, ‘ il vero ò l’intero ‘ ( Fenomenologia dello spirito ), ovvero la verità più profonda la si trova nel superamento delle differenze, con l’idea di un Assoluto che non ò nò oggetto nò soggetto, però comincia ad affiorare la necessità (che accompagnerà Hegel per tutta la sua vita filosofica) che all’interno dell’Assoluto, ovvero all’interno della realtà unitaria, le differenze non debbano essere perse (come ò in Schelling), ma debbano invece essere mantenute e riconosciute. Se gli Illuministi sbagliano a concepire la realtà astrattamente come un agglomerato di parti indipendenti le une dalle altre, allo stesso modo sbaglia l’organicismo di Schelling a concepire la realtà come un tutto in cui non si distinguono le parti: Hegel respinge nettamente la concezione astratta degli Illuministi e vede la realtà in chiave concreta, convinto che ogni parte si spieghi solo facendo riferimento al tutto, così come in un albero ogni singola parte (le foglie, le radici, i rami, ecc) esiste e ha una sua funzione solo se si fa riferimento al tutto, cioò all’albero stesso; tuttavia nella concezione concreta cui Hegel fa riferimento le parti, anche se inserite nel tutto, non perdono il loro significato autonomo (come avviene in Schelling). In altri termini, Hegel ci chiede di capire ogni parte in funzione del tutto, ma ciò non toglie che le singole parti continuino ad esistere nel tutto, differenti fra loro: per tornare all’immagine dell’albero, le singole parti si spiegano solo facendo riferimento al tutto, ma il tutto si spiega come unione delle singoli parti che restano distinte le une dalle altre. Così l’astrattismo illuminista, che vede il proprio baluardo conoscitivo nell’intelletto come capacità di distinguere le parti, sbaglia allo stesso modo dell’organicismo schellinghiano, che nel tutto non coglie parti differenti: sbagliano gli Illuministi a vedere nell’albero solo le singole parti, sbaglia Schelling a vedere l’albero senza le singole parti. Bisogna dunque saper cogliere le parti nel tutto. Ecco dunque che a distinguere Hegel da Schelling ò la convinzione che si debba, sì, cogliere il tutto, ma anche le parti nel tutto, poichò il tutto ò veramente tale nella misura in cui deriva dai rapporti che legano le singole parti. L’Assoluto cui perviene Schelling ò invece un tutto in cui non si distinguono parti, una notte in cui tutte le vacche sono scure, ovvero un qualcosa in cui le singole parti si perdono confusamente nel buio del tutto. Hegel critica anche aspramente l’uso limitato dell’intelletto: da solo, esso non basta, bensì ò necessario l’ausilio della ragione la quale ricollega a formare un tutto ciò che l’intelletto ha separato. Sempre nella Fenomenologia, Hegel spiega che se ò legittimo, e anzi necessario, l’uso dell’intelletto e della ragione, ò invece vietato l’uso dell’intuizione, ovvero la pretesa di cogliere per intuizione artistica (come ha fatto Schelling) il principio unitario: Schelling arriva immediatamente (con un colpo di pistola, dice Hegel) all’Assoluto come punto di partenza del ragionamento, e da lì deriva in qualche maniera le varie differenze che ci sono nella realtà . Il percorso che fa Hegel ò opposto ed esula dalla pretesa di cogliere l’Assoluto immediatamente. Tale percorso ò così articolato: analizzare con l’intelletto le differenze della realtà identificate tali differenze, cogliere le relazioni che le mettono in collegamento le une alle altre costruire con tali relazioni la totalità , vedendo come cose diverse e anche opposte si richiamano ad un unico principio e arrivare dunque all’Assoluto (come punto d’arrivo e non di partenza), all’identità tra soggetto e oggetto, identità in cui però si colgono ancora le singole parti. Si tratterà di un superamento delle differenze nel senso che si coglieranno i legami che intercorrono tra esse e le si vedranno come espressioni di un’unità , un’unità però in cui le differenze tra le singole parti vengono mantenute. Questa ò, in sostanza, la critica che Hegel muove a Schelling nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito. Sempre al periodo di Jena appartiene un curioso saggio, intitolato Fede e sapere, in cui Hegel critica, tra l’altro, la rivalutazione unilaterale di Jacobi poichò si tratta di una sorta di intuizione mistica dell’Assoluto: questo scritto testimonia l’avversione hegeliana per ogni genere di intuizione, sia artistica sia religiosa. Nella Costituzione della Germania, invece, Hegel esordisce con l’amara constatazione che ‘ la Germania non ò più uno Stato ‘ e, sulla scia di Fichte, pone il problema di una Germania frammentata all’indomani delle vittorie napoleoniche che deve costituirsi per poter dominare. Va sottolineato un aspetto importante: Hegel sostiene in questo scritto che i Tedeschi non saranno mai un popolo finchò non avranno un esercito. Questa affermazione, che testimonia la grande sensibilità hegeliana per la realtà esterna (sensibilità assente nel Romanticismo), distanzia Hegel dal Romanticismo, poichò il filosofo dice esplicitamente che un popolo non ò un mero fatto culturale (come sembrava sostenere Fichte), ma, al contrario, un popolo ò tale quando ha i presupposti adatti (l’esercito) per essere un popolo. Passiamo ora ad esaminare la DIALETTICA hegeliana, risolta dal pensatore nella triade (già usata, anche con maggior frequenza, da Fichte) tesi (dal greco tiqhmi, pongo ), antitesi (dal greco antitiqhmi, pongo contro ) e sintesi (dal greco suntiqhmi, pongo insieme ). La realtà per Hegel ò dinamica, e può esserlo sia nel tempo sia fuori dal tempo: si può parlare di trasformazioni temporali (che avvengono cioò nel tempo), ma ci si può anche riferire a trasformazioni di concetti, nel senso che un concetto porta, hegelianamente, ad un altro concetto e lo fa in maniera atemporale: proprio come quando effettuiamo l’operazione 2+2=4 si tratta di una trasformazione che noi facciamo nel tempo ma che di per sò ò atemporale. Dire che la realtà ò dinamica, dunque, non vuol necessariamente dire che si svolge nel tempo. Hegel ò convinto che la dinamicità investa ogni ambito della realtà , dalla realtà del pensiero (studiata dalla logica) ovvero la trasformazione dei concetti gli uni negli altri, alla realtà della natura (studiata dalla filosofia della natura) e alla realtà umana (lo spirito) come, ad esempio, la storia. Le leggi che regolano tali trasformazioni sono identiche in qualsiasi ambito noi le esaminiamo: saranno le stesse leggi nella realtà del pensiero, in quella della natura e in quella dello spirito. In particolare, spiega Hegel, le leggi che regolano il pensiero sono le stesse che regolano la realtà : già Aristotele l’aveva sostenuto secoli addietro, senza però riuscire a spiegare il perchò. In una prospettiva idealista (quale ò quella hegeliana) in cui oggetto e soggetto sono la stessa cosa, risulta evidente che anche il pensiero e l’essere siano la stessa cosa (come già aveva sostenuto Parmenide). Si tratta dunque di esaminare tali leggi: in realtà ve ne ò una sola, di cui le altre non sono altro che sottoformulazioni; essa ò la ‘dialettica’, parola usata per la prima volta da Zenone di Elea e che designa un dialogo in movimento, un confronto di posizioni (dal greco dia + logoV, ‘dialogo che va da una parte all’altra’ ). Ora, essendo Hegel, da buon idealista, convinto che realtà e pensiero siano la stessa cosa, ò evidente che anche le leggi che presiedono all’andamento del pensiero e all’andamento della realtà siano le stesse. Fu Platone il primo ad usare una dialettica della realtà , un richiamo reciproco di quelle che lui chiamava ‘idee’. Per Hegel ò la stessa cosa: ‘dialettica’ ò sì il modo in cui la ragione opera, ma ò anche il modo in cui funziona la realtà . Esaminiamo prima la dialettica come dialogo, come modo di procedere del pensiero: per far emergere la verità , Socrate faceva dare al suo interlocutore una definizione di un qualcosa, la criticava e dalla critica distruttiva emergeva una seconda definizione che teneva conto delle critiche mosse; poi se ne dava una terza, e così via. Ora, in questa definizione abbiamo un esempio di dialettica: di tesi, di antitesi e di sintesi. La prima definizione data dall’interlocutore corrisponde alla tesi, ovvero si ‘pone’, si definisce qualcosa e può trattarsi sia di realtà sia, come nel caso che stiamo esaminando, di pensiero. Dopo la tesi, la si critica e la si nega (antitesi), ma tale negazione non ò solo negativa ( ogni negativo ò anche positivo ) poichò fa emergere nuove definizioni di volta in volta depurate dagli elementi contradditori. Con l’antitesi, ovvero con la negazione della tesi, si arriva ad una nuova definizione, ma non si tratta più di una tesi giacchò tiene conto sia della prima definizione (tesi) sia della critica ad essa mossa (antitesi): si tratterà dunque della sintesi, ovvero di una composizione che tiene conto sia della tesi sia della antitesi (e anzi, le sintetizza) per giungere ad una nuova tesi più corretta. In altri termini, se la tesi era una definizione e l’antitesi era la negazione di tale definizione, la sintesi (e qui sta la cosa interessante) presenta un pò della tesi e un pò dell’antitesi, ma visto che la sintesi nega la negazione della tesi (ovvero nega l’antitesi), allora la sintesi ò una negazione della negazione. Si riproporrà la definizione data in origine, però tenendo conto delle critiche ad essa mosse. Possiamo fare un esempio del procedimento dialettico del pensiero analizzando il passaggio dai Presocratici ai Sofisti e, infine, a Platone. I Presocratici hanno proposto delle verità e rappresentano la tesi; i Sofisti le hanno negate e rappresentano l’antitesi; Platone ripropone tali verità tenendo conto delle critiche mosse ad esse dai Sofisti. Platone non dà ragione nò agli uni nò agli altri ma ò comunque più vicino ai Presocratici perchò non si limita a distruggere, bensì presenta delle verità , anzi presenta le verità dei Presocratici ad un livello più alto, avvalendosi della negazione e della critica mossa dai Sofisti come punto d’appoggio per salire. Come i camosci, per salire dalle pareti rocciose a strapiombo, rimbalzano da una parete all’altra salendo a zig zag, così rimbalzando da una parte all’altra con affermazioni e negazioni non si resta ad un livello stazionario, non si torna di volta in volta al punto di partenza, bensì si sale un poco alla volta. E la posizione di Platone risulta più matura rispetto a quella dei Presocratici grazie alle critiche mosse dai Sofisti: ò una sorta di processo circolare, ma a spirale poichò non si torna mai al punto di partenza, bensì ad ogni spira il livello ò salito di un pò. Questo gioco per cui si sale un pò alla volta ò ben espresso dall’uso hegeliano di una parola tedesca: Aufhebung, che potremmo tradurre con ‘superamento’, ma che può essere tradotto ancora più adeguatamente dal ‘tollere’ latino, nella sua duplice accezione di ‘togliere’ e di ‘sollevare’. Infatti, il superamento ò il processo per cui, nello sviluppo dialettico della realtà , ogni cosa viene tolta e conservata, ovvero tolta e sollevata (cioò riproposta ad un livello più alto). Ecco perchò le discussioni di Platone rappresentano un superamento della posizione presocratica e sofistica: si eliminano (togliere) le posizioni precedenti, ma vengono, per così dire, conservate e riproposte ad un livello più alto (sollevare): in poche parole, si toglie e si mantiene ad un livello superiore. I 3 momenti della dialettica Hegel li definisce tesi, antitesi e sintesi, ma ancor più spesso chiama ‘momento intellettuale’ la tesi, e momenti razionali l’antitesi e la sintesi, dove l’antitesi (1° momento razionale) ò momento razionale in senso stretto, mentre la sintesi (2° momento razionale) ò momento speculativo. Definisce la tesi come momento intellettuale a sottolineare l’egemonia dell’intelletto in questa fase della dialettica: l’intelletto definisce, stabilisce limiti e ritaglia la realtà , facendo vedere le cose le une indipendenti dalle altre. L’errore degli Illuministi consiste nell’essersi fermati all’intelletto, senza passare alla seconda fase della dialettica ( 1° momento razionale ), quella in cui subentra la ragione: essa rivela che, in un gioco di contrapposizioni, ogni cosa può essere capita solo se vista insieme a quelle da essa differenti e ad essa opposte. Già Eraclito aveva notato come il concetto di salute non fosse comprensibile se non in riferimento al concetto opposto, di malattia, e aveva sottolineato che la strada in salita ò anche in discesa, a seconda di come la si guardi; ora Hegel fa notare, sulle orme di Eraclito, che il concetto di unità e di molteplicità si richiamano a vicenda, sicchò non ò possibile capire cosa sia l’unità se non in riferimento alla molteplicità , e viceversa. L’intelletto mi dice che l’unità ò una cosa, la pluralità un’altra. La ragione, nella seconda fase della dialettica, mi dice che c’ò richiamo tra le due cose ed ò, propriamente, il più dialettico dei tre momenti poichò ò il più dinamico in quanto si attua un meccanismo che vivacizza la realtà facendo sì che i concetti si richiamino a vicenda. Con il terzo momento della dialettica ( 2° momento razionale ), dopo aver colto la realtà astrattamente con l’intelletto e dopo aver colto con la ragione i giochi di rimando tra i vari concetti, riesco a costruire il sistema in cui le parti vivono nel tutto: si ha così un’unità del molteplice. E’ interessante notare come nella categoria kantiana di quantità vi fossero la pluralità , l’unità e la totalità , quasi come se Kant avesse già colto embrionalmente il processo ora descritto da Hegel. Egli ci tiene a sottolineare che la negazione della tesi non ò mai assoluta (del tipo 1-1=0), bensì ò ‘determinata’, ovvero si eliminano solo gli aspetti che risultano contradditori. Il processo, come accennato, vale per il pensiero ma anche per la realtà in quanto tutti e due hanno le stesse leggi: un seme, per poter diventare pianta, deve morire come seme, ovvero passare per la negazione del seme e per la negazione della negazione, per poter così vivere come pianta. Allo stesso modo, nota Hegel, Gesù dovette morire per poter realizzare la sua missione. Hegel, smorzati gli entusiasmi iniziali, prova cordiale antipatia per la Rivoluzione Francese, ma riconosce ad essa il merito di aver eliminato il vecchio stato stagnante: ecco perchò, pur essendo un momento negativo della storia del genere umano, essa si colora anche di positivo. Abbiamo citato l’esempio del seme per spiegare la dialettica; Hegel ne adduce un altro, quello della zoologia, ovvero dello studio sistematico del mondo animale. Non sarà zoologia nò il limitarsi a catalogare tutte le bestie come ‘animali’ con un colpo di pistola alla Schelling, nò guardare astrattamente ad ogni singola specie come se fosse indipendente dalle altre, come fanno gli illuministi. Si dovranno invece analizzare con l’intelletto le specifiche differenze nei generici animali e riconnetterle all’interno della totalità , cogliendo le relazioni che intercorrono tra una specie e l’altra. E’ curioso il fatto che la filosofia di Hegel ebbe un così forte impatto sulla cultura del tempo che perfino in ambito musicale trovò una sua esposizione: le grandi sinfonie dell’Ottocento, infatti, tendono a riproporre sul finale le stesse melodie iniziali ma innalzate ad un livello superiore, come se vi fosse stato un superamento dialettico. Che la dialettica sia legge di funzionamento al tempo stesso della realtà e del pensiero proprio perchò pensiero e realtà , in ultima istanza, sono la stessa cosa, Hegel lo sostiene sia nella Fenomenologia dello spirito (1807) sia, in modo ancora più dettagliato, nel Sistema. Il Sistema stesso ò una grande triade dialettica costituita da idea, natura e spirito: la natura ò la negazione dell’idea, e lo spirito ò la negazione della negazione (ovvero negazione della natura) e ripropone l’idea ad un livello più alto dopo il passaggio per la natura. In un’ottica pienamente romantica, Hegel concorda sul fatto che ciò che passa per un percorso doloroso ne trae giovamento e si ripresenta arricchito: il romanzo di formazione, produzione fiorita in età romantica, non ò altro se non la descrizione delle travagliate vicende del protagonista, il quale, in virtù del dolore e delle difficoltà che lo tormentano, si ritrova ad un livello più alto rispetto a quello da cui era partito. Hegel ò perfettamente in sintonia con questo pensiero ed ò convinto che nella sofferenza affiori il bene, cosicchò ò sempre possibile cogliere ‘ la rosa nella croce ‘: anche ciò che si caratterizza come altamente negativo può essere sempre visto come positivo, sicchò ‘ ogni negativo ò sempre anche positivo ‘: non c’ò dunque da stupirsi se il sistema filosofico hegeliano fu uno dei più ottimistici della storia. Per alcuni versi la stessa Fenomenologia si configura come romanzo di formazione, per via dello spirito di narrazione che la pervade: l’eroe di cui si descrivono le travagliate vicende ò lo spirito, ovvero il principio unitario attore dello sviluppo dell’intera realtà . Lo spirito ò, in altri termini, quella cosa misteriosa che si presenta al tempo stesso come soggetto e come oggetto. Ma, come abbiamo visto, Hegel nella prefazione alla Fenomenologia spiega che alla risoluzione del soggetto e dell’oggetto in unità si perviene solo alla fine di un lungo percorso, grazie al quale non si smarrisce la specificità delle differenze, visto che si costruisce l’Assoluto grazie ad esse, ovvero riconoscendo che sono legate le une alle altre e che da tali legami scaturisce appunto la totalità . Schelling, ponendo l’Assoluto all’inizio del percorso, ha smarrito la specificità delle differenze, spiega Hegel aggiungendo che il punto di arrivo del processo che intende compiere sarà dato dalla dimostrazione dell’unità di soggetto e oggetto: ed ò proprio da quel punto che si potrà guardare all’intera realtà in modo corretto. Ecco che, in quest’ottica, il Sistema può essere inteso come descrizione del panorama della realtà vista dalla vetta della conoscenza cui si ò pervenuti; la Fenomenologia, invece, può essere concepita come il sentiero che porta alla vetta. Nella Fenomenologia, infatti, Hegel tratteggia il percorso dello spirito che giunge in cima passando per sofferenze immani e anche il sentiero tramite il quale si ò giunti alla vetta, nota il filosofo, fa parte della realtà come la si vede dalla cima. Lo spirito passa da livelli di coscienza bassissimi fino a livelli elevatissimi: ed ò per questo che la Fenomenologia ò storia dello spirito ma anche della coscienza, quasi come una sorta di grande riassunto dell’intero percorso compiuto dall’umanità nella storia e che ciascuno ò tenuto a compiere dentro di sò, individualmente. Infatti lo scopo di tale percorso individuale consiste nel vedere dentro di sò, individualmente, cosa ha fatto l’umanità nella sua storia. E’ opportuno notare che il percorso si articola in triadi dialettiche e il punto di arrivo di ciascuna triade ò il punto di partenza per la successiva. Ogni triade, poi, ha un suo nome poichò rappresenta una tappa, ma essendo ogni triade costituita da 3 ‘sotto-tappe’, capita spesso che il nome di una ‘sotto-tappa’, ovvero di una delle 3 parti in cui si articola la triade, dia il nome all’intera triade (o tappa, per restare nell’ambito dell’immagine dell’ascesa al monte) di cui fa parte. Si può però notare (e qui sta la cosa interessante) che ò sempre o il 1° o il 3° momento della triade a conferire il nome all’intera triade. Questa apparente stranezza, ò spiegabile tenendo a mente che il processo dialettico non ò mai casuale, anzi ò teleologico: il che implica che tutto ciò che verrà fuori alla fine del processo sia preordinato fin dall’inizio e che per manifestarsi necessiti di una serie di passaggi. Non a caso Hegel, oltre a sostenere che ‘ il vero ò l’intero ‘, dice anche che ‘ il vero ò il risultato ‘, con l’idea che tutto ciò che verrà dopo sia già in germe presente fin dall’inizio come progetto verso un obiettivo, ma che, al tempo stesso, a dare senso a tutto il processo ò il punto d’arrivo, il risultato. E il nome dell’intera tappa corrisponde a quello della prima o della terza sottotappa che la costituisce proprio perchò il senso della triade ò dato o dalla prima tappa (in cui vi ò già embrionalmente tutto ciò che si dovrà sviluppare poi) o dalla terza (poichò il senso pieno della triade ò dato dal risultato). Proprio per questo motivo, non ò un caso che l’opera sia intitolata Fenomenologia dello spirito, dove lo spirito ò il nome specifico dell’ultima tappa (o triade) dell’intero processo tratteggiato, quella in cui viene superata la distinzione soggetto/oggetto: in senso pieno, solo alla fine ò spirito, ma in senso lato ò spirito fin dall’inizio. Possiamo appropriarci delle parole di Nietzsche per dire che la Fenomenologia, in sostanza, ò la storia di come si diventa ciò che si ò: lo spirito ò tale fin dall’inizio del processo, ma in senso pieno lo ò solo alla fine quando riuscirà a riconoscersi. Ma la Fenomenologia, dicevamo, ò anche una storia della coscienza e, non a caso, ‘coscienza’ ò il nome del primo momento della prima triade che si incontra nell’opera: pur essendo solo la tappa iniziale, nella coscienza ò già però embrionalmente presente, grazie al procedimento poc’anzi illustrato, tutto ciò che si svilupperà in seguito. Il termine ‘fenomenologia’, poi, ha un senso particolare tutto hegeliano: ò il manifestarsi dello spirito, come se esso non avesse sempre le stesse manifestazioni, ò come se si manifestasse attraverso una serie successiva di figure di cui ciascuna ò sì manifestazione dello spirito ma presenta, se esaminata approfonditamente, alcune contraddizioni che vengono superate dialetticamente. In altri termini, la prima figura in cui lo spirito appare (da qui il termine ‘fenomenologia’, dal greco fainomai, ‘appaio’), se scavata in profondità , presenta contraddizioni e viene superata da una figura più alta che però, in virtù del procedimento dialettico, tiene conto della precedente e delle sue contraddizioni e proprio per questo risulta arricchita. La fenomenologia consisterà dunque nella descrizione delle manifestazioni dello spirito e ogni figura sarà solo apparenza (ovvero ‘fenomeno’) dello spirito, come se esso si manifestasse sempre in modo provvisorio. Per molti versi la Fenomenologia dello spirito svolge le stesse funzioni della Critica della ragion pura di Kant: entrambe le opere, infatti, hanno una funzione propedeutica, non descrivono la realtà ma il percorso che occorre fare per conoscerla. Tuttavia vi ò un’enorme differenza tra le due opere: in Hegel non vi ò assolutamente quella differenza tipicamente kantiana tra ‘modo di conoscere’ e ‘conoscere’, tant’ò che Hegel descrive fin dall’inizio la conoscenza umana, senza interessarsi minimamente degli strumenti gnoseologici a disposizione dell’uomo e staccandosi in questo modo da quella tradizione che, partita da Bacone e passata per Cartesio e Locke, era giunta fino a Kant. Hegel non si chiede come si possa conoscere prima di conoscere effettivamente e il motivo ò molto semplice: egli dice esplicitamente, con linguaggio metaforico, che ‘ non si può imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua ‘. Con quest’espressione, Hegel critica la pretesa kantiana di imparare a nuotare (fuor di metafora, a conoscere) prima di entrare in acqua, ovvero a contatto con la realtà : ecco perchò Hegel fin dalle prime pagine della Fenomenologia illustra l’esperienza dello spirito umano affinchò ciascuno la ripercorra in se stesso. Siamo di fronte all’ennesimo caso di critica hegeliana all’astratto, ovvero alla separazione kantiana tra indagine sugli strumenti conoscitivi e indagine sulla realtà , a favore del concreto, cioò alla convinzione che la conoscenza degli strumenti gnoseologici la si può ottenere solo conoscendo concretamente la realtà . Sempre per una fedele adesione al concretismo, Hegel non pone nella Fenomenologia esclusivamente tappe conoscitive poichò convinto che non si possa separare la conoscenza vera e propria dal resto dell’esperienza conoscitiva. Ecco perchò se alcune tappe saranno meramente conoscitive, altre lo saranno ma risulteranno calate concretamente nella realtà storica, sicchò Hegel potrà tranquillamente citare alcuni momenti della storia della scienza o della filosofia: vi saranno perfino dei momenti che non avranno nulla a che vedere con la conoscenza, come ad esempio la dialettica servo-padrone, ovvero l’indagine su come nasca la servitù (indagine sulla quale si soffermerà Marx con particolare attenzione). Questo sta a dimostrare che l’esperienza descritta da Hegel ò la maturazione globale dell’uomo, non solo sul piano conoscitivo. Le quattro tappe fondamentali in cui si articola la Fenomenologia sono: coscienza autocoscienza ragione spirito La coscienza altro non ò se non la prima forma di rapporto che l’uomo ha con la realtà . Hegel ò un filosofo idealista ma allo stesso tempo realista e per di più imbevuto di razionalità , tant’ò che uno dei suoi motti sarà ‘ tutto ciò che ò reale ò razionale ‘. Nella Fenomenologia non parte dagli all’epoca in voga misteriosi discorsi sull’intuizione della realtà , ma anzi parte dall’esperienza concreta e comune a tutti gli uomini: la prima tappa della coscienza ò la certezza sensibile, quella che si ha non appena si viene al mondo e consiste nel vedere il soggetto e l’oggetto nettamente separati. In altre parole, non appena si aprono gli occhi sul mondo, si ò convinti (ecco perchò ‘certezza sensibile’) che tutto ciò che ci circonda, ovvero il mondo, sia altra cosa rispetto a noi. Io sono il soggetto, il mondo ò l’oggetto: questa ò la tesi. Il meccanismo dialettico induce poi a scavare più in profondità per trovare elementi contradditori nella tesi e per giungere, alla fine, all’antitesi. La certezza sensibile ò, in primo luogo, la percezione che ho di un oggetto hic et nunc, qui ed ora: percepisco ‘ un questo ‘, dice Hegel, qui e adesso. Sembra proprio che la certezza sensibile sia indiscutibile, assolutamente certa, anzi sembra essere la più grande certezza che si possa avere: quando percepisco una cosa, la mente non ha ancora cominciato a lavorarci sopra e dunque parrebbe essere una vera e propria certezza. Tuttavia, fa notare Hegel, quando percepisco qualcosa, non posso ancora dire che percepisco una penna o una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco ‘ un questo ‘, ovvero una singola cosa non meglio identificata: dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con l’intelletto quel qualcosa in una categoria. Potrò dire, per restare nella certezza sensibile, che percepisco ‘ un questo ‘ e nulla più: se ne evince che la conoscenza che in apparenza era la più solida ricca, si rivela invece, se meglio analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ecco che si attua l’antitesi e ci troviamo di fronte ad un tipico capovolgimento dialettico: ciò che sembrava essere la cosa più certa, diventa all’improvviso la più incerta. Sempre nell’ambito della coscienza, i due momenti successivi alla certezza sensibile sono la percezione e l’intelletto. La percezione altro non ò se non la comune percezione sensibile, il percepire le cose come unione di qualità sensibili. Anch’essa, però, presenta, come la certezza sensibile, alcune contraddizioni che devono essere superate: la principale contraddizione della percezione consiste nel fatto che il suo oggetto ò al tempo stesso uno e molteplice. Quando ho percezione di un libro, infatti, l’unità di esso si frammenta nella molteplicità delle parti che lo costituiscono (il colore, la forma, il peso, ecc). La distinzione rispetto alla certezza sensibile risiede nel fatto che con la percezione non si percepisce ‘ un questo ‘ non meglio identificato, ma un insieme di qualità che costituiscono un’unità (un libro, una penna, una casa, e così via). Si supera la percezione e si passa così ad un terzo momento, quello dell’ intelletto: l’oggetto non viene più percepito in quanto tale, ma come manifestazione di una legge generale della natura. E’, in altri termini, l’atteggiamento scientifico, per cui ogni singolo fenomeno che si verifica ò una particolare manifestazione di una legge fisica. Da notare che si sta costantemente salendo di livello: la percezione non ò più un mero coglimento sensibile come era nella certezza sensibile, ò già un radunare le qualità intorno ad una cosa; con l’intelletto, poi, ci si innalza ulteriormente ma il processo non ò ultimato: giunti all’intelletto, scatta il passaggio all’ autocoscienza. Hegel, influenzato dall’insegnamento kantiano, ritiene che sia il nostro stesso intelletto a porre le leggi a quella natura di cui ogni singolo fenomeno ò manifestazione. Le leggi della natura, dunque, ò il nostro stesso intelletto a porle: con queste considerazioni di carattere kantiano, con l’intelletto si arriva ad un primo superamento della contrappoosizione soggetto- oggetto, comincia cioò ad affacciarsi timidamente l’idea che soggetto e oggetto non siano, in fin dei conti, due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento dell’intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era conosciuto. Ma se ogni fenomeno che percepiamo ò manifestazione della legge della natura ed essa ò posta dal nostro stesso intelletto, allora dalla coscienza si passa all’autocoscienza: prima, infatti, si trattava di un soggetto che aveva coscienza di un oggetto; poi ci si ò accorti che tale oggetto non ò radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi ò il soggetto, dunque quella che era coscienza di un oggetto esterno diventa coscienza di sò, ovvero autocoscienza. Finora Hegel ha illustrato momenti esclusivamente conoscitivi: improvvisamente, appena si entra nella ‘tappa’ dell’autocoscienza, ci si imbatte in una sfilza di nuove figure storiche e, almeno in apparenza, esulanti dalla gnoseologia. Il primo momento dell’autocoscienza ò infatti la dialettica servo-padrone. Sembra che Hegel stia ora descrivendo un altro tipo di realtà rispetto a quello tratteggiato nei tre momenti della coscienza, ma dobbiamo tenere a mente che la Fenomenologia ò la storia dell’esperienza umana in generale e tale esperienza non ò esclusivamente gnoseologica. Per passare dalla sfera conoscitiva della coscienza a quella storica dell’autocoscienza, Hegel segue un ragionamento ben preciso: l’autocoscienza viene acquisita in senso generale, poichò giunti all’intelletto si intuisce che l’oggetto non ò nettamente staccato dal soggetto, ma resta comunque una conoscenza di sò in forma embrionale e per svilupparla ò necessario passare alle fasi storiche. Infatti, un’autocoscienza non potrà mai svilupparsi pienamente se non in un rapporto con un’altra autocoscienza, poichò essa ò l’uomo e l’uomo non potrà mai avere coscienza di sò se non in rapporto con gli altri uomini. E qui emerge bene come la filosofia hegeliana sia, oltre che dinamica, irrequieta, quasi drammatica. Rifacendosi ai vari pensatori dell’antichità , Hegel confessa il proprio amore per Eraclito, il filosofo del divenire, sostenendo di condividere tutto quel che egli predicò, in particolare l’unità e la contrapposizione degli opposti per cui ‘ non si può capire cosa sia la salute se non in riferimento alla malattia ‘ o ‘ la strada che sale ò la stessa che scende ‘. La realtà , nella prospettiva eraclitea e anche in quella hegeliana, ò un confronto-scontro tra gli opposti e da tale conflittualità emerge l’unità degli opposti. In particolare, Hegel si richiama ad Eraclito e alla sua concezione secondo la quale Polemos (la guerra) ò ‘ signore di tutte le cose ‘ per sostenere che la realtà ò conflitto, mai pace, a tal punto che Hegel, convinto che la vera vita sia dove c’ò conflitto, arriverà a dire che nella storia le pagine di pace sono pagine bianche. In questo senso, si può capire benissimo perchò Hegel, quando dice che per svillupparsi l’autocoscienza necessita di un rapporto con un’altra autocoscienza, alluda ad un rapporto conflittuale e non di pacifico confronto, nella convinzione che lo scontro sia la natura profonda dell’incontro. Entrando nel dettaglio della dialettica servo-padrone, Hegel spiega che l’uomo (l’autocoscienza) ha bisogno di un altro uomo (un’altra autocoscienza) per svilupparsi attraverso rapporti conflittuali. Però, tali rapporti conflittuali non devono mai portare all’annullamento dell’autocoscienza antagonista, poichò un’autocoscienza non può davvero essere tale se non in rapporto con altre autocoscienze, come se, venendo meno uno dei due opposti, anche l’altro si sgretolasse. Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione totale di uno dei rivali, bensì porta all’asservimento, ovvero al prendere possesso in forma di schiavitù dell’autocoscienza antagonista: un’autocoscienza diventa padrona, l’altra schiava. Naturalmente a diventare padrona sarà l’autocoscienza più forte, ma Hegel, secondo i dettami dell’idealismo, non fa riferimento alla forza fisica e materiale, ma a quella spirituale e dice testualmente che ‘ coloui che diventa padrone ò colui che non ha avuto timore della morte ‘. C’ò chi, piuttosto di diventare schiavo, preferisce correre il rischio della morte e chi, viceversa, piuttosto di correre il rischio della morte, preferisce diventare schiavo: in altre parole, vince per davvero chi fa prevalere dentro di sò l’aspetto spirituale (rifiutando la servitù) e riesce a sconfiggere quello materiale (il timore della morte della carne). Disprezzando la servitù e preferendo la morte, si trionfa, ancor prima che sul nemico, all’interno di se stessi, facendo vincere la spiritualità . Chi privilegia la materialità a discapito della spiritualità , rifiuta la morte e ad essa preferisce la schiavitù. I contemporanei, amarono Hegel per la sua capacità sistematica, oggi, invece, ciò che di lui si ammira sono alcune singole riflessioni e, senz’altro, quella sulla dialettica servo-padrone rientra a pieno titolo nella categoria. Già Marx la apprezzò in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia la nascita della schiavitù, ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra, con la tecnica del capovolgimento dialettico, che il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone ò il servo. Infatti, fa notare Hegel, il rimedio di asservire l’altra autocoscienza senza eliminarla, in realtà porta comunque all’eliminazione di essa, poichò si finisce per considerare l’autocoscienza-serva non più come un’autocoscienza, ma come una ‘cosa’. Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo come una cosa, alla pari del bue o dell’aratro. Ne consegue che, essendo il servo una ‘cosa’ agli occhi del padrone, l’unico ad avere di fronte a sò un’autocoscienza ò il servo appunto, poichò egli, nel padrone, continua a scorgere un’autocoscienza. Il padrone, non avendo più un’autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone ò il servo stesso, l’unico che si confronti con un’autocoscienza. Diverso sarà anche il rapporto col mondo materiale: il padrone non lavora, il servo sì, e lavorare significa dominare le cose mettendo l’impronta dello spirito nella materia. Il padrone, dal canto suo, vive la natura passivamente e non impone su di essa il proprio suggello: siamo di fronte al capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante ò il servo e non il padrone. Marx resterà affascinato dalla dialettica hegeliana, ma le muoverà la critica di essere ‘ una dialettica capovolta, che poggia sulla testa ‘, ovvero le rimprovererà il fatto di poggiare sulle idee e non sulla materialità : a Marx, fervido sostenitore del materialismo, non basta che il padrone sia padrone materialmente e che il serrvo sia padrone spiritualmente e la stessa dialettica cui egli mira non ò quella hegeliana fatta di idee stampate sui libri, bensì ò la rivoluzione combattuta sulle piazze in cui il servo prende il proprio dominio materiale. Nell’ottica hegeliana, il servo ò comunque superiore al padrone poichò il lavorare conferisce superiorità . Hegel concepisce la posizione dello spirito nella materia attuata dal servo con il lavoro come alienazione. Il termine ‘alienazione’, che nel linguaggio giuridico propriamente designa il cedimento del possesso di qualcosa, in Hegel riveste un significato particolare: alienazione per Hegel vuol dire cedere parte della propria essenza, quasi come se il lavoro facesse smarrire nella materia una parte della spiritualità del servo. Ecco perchò per Hegel il lavoro ò intrinsecamente alienante e significa porre spiritualità nella materia; per Marx, invece, il lavoro non sarà alienante intrinsecamente, anzi esso sarà considerato come la massima realizzazione dell’uomo, una sorta di umanizzazione della natura in cui si supera la distinzione tra soggetto e oggetto coi fatti e non con le idee: trasformare la natura col lavoro vuol dire, infatti, ricondurla al soggetto, antropizzarla. L’uomo, secondo Hegel, ò per natura homo sapiens e dunque il lavoro ò alienante perchò gli provoca la perdita di spiritualità ; per Marx, invece, l’uomo ò homo faber e pertanto il lavoro si colora di positivo, ma diventa alienante quando ò sfruttamento, quando cioò il suo frutto ò strappato al lavoratore tramite i rapporti di sfruttamento della produzione capitalistica, come se l’elemento di umanità posto nella materia venisse brutalmente strappato via. Il lavoro ò oggettivazione dellâuomo rispetto alla natura sia per Hegel sia per Marx, ma per Hegel lo ò intrinsecamente (lâoggettivazione stessa ò alienazione) mentre per Marx lo ò nella misura in cui si configura come sfruttamento. Dopo la parentesi della dialettica servo-padrone, si sviluppano i successivi momenti dellâ autocoscienza, caratterizzati per essere momenti di cultura, dallâetà antica a quella moderna. Abbiamo già notato che alcune triadi dialettiche sono atemporali (ed ò il caso della coscienza e dei suoi tre momenti), altre temporali e storiche poichè i successivi momenti sono collocabili storicamente lungo una sequenza cronologica. Tuttavia, anche quando Hegel parla di tappe storiche non dobbiamo pretendere che egli segua una successione rigidamente cronologica, poichè sta semplicemente descrivendo tappe logiche di uno sviluppo che spesso (ma non sempre) seguono un loro ordine cronologico. Nello stesso studio della storia, del resto, si parla delle varie tappe dello stato moderno, ma sono tappe âidealiâ che non trovano un preciso riscontro nella realtà : si tratta semplicemente di un modo di ricostruirla in una sequenza temporale, senza ad esempio tener troppo conto delle varie differenziazioni tra uno stato e lâaltro. Anche quelle che Hegel tratteggia sono tappe ideali, diverse dalla storia vera e propria: ed ò proprio questa la differenza che Hegel scorge tra una filosofia della storia quale ò la sua e una storia cronologica, pura elencazione di fatti in ordine cronologico. Eâ opportuno, insiste Hegel, cogliere gli elementi di razionalità che reggono la storia secondo tappe ideali, evitando di incappare in una pedante descrizione di fatti. Dopo la dialettica servo-padrone, troviamo dunque tappe storiche, ma si tratta di tappe che non riguardano la storia delle relazioni sociali (come la dialettica servo-padrone), bensì la storia della cultura. La prima tappa ò costituita dallo Stoicismo e dallo Scetticismo. Se la dialettica servo-padrone si ò conclusa con le considerazioni sul lavoro, inteso come smarrimento della propria spiritualità nella materia, spetta allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa nuova situazione insegnando che a contare non ò la condizione materiale in cui ci si trova (tantâò che furono allo stesso modo Stoici un re, Marco Aurelio, e uno schiavo, Epitteto). Lo Stoicismo nega lâimportanza del mondo materiale, lo Scetticismo porta alle estreme conseguenze queste considerazioni e arriva a mettere in dubbio lâesistenza di un mondo esterno al soggetto. Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un rapporto dialettico: scavando fino in fondo, scatta un meccanismo che capovolge lâintera situazione in cui si ò giunti. Con la dialettica servo-padrone lâuomo risulta schiavo del mondo materiale incarnato dal lavoro: nasce lâesigenza di liberarsi da esso e lo Stoicismo propone una soluzione invitando a comportarsi come se il mondo materiale non esistesse. Lo Scetticismo, però, spinge fino in fondo il ragionamento e conclude che, se si deve dubitare dellâesistenza del mondo materiale, allora si deve dubitare di tutto, coscienza compresa. Il risultato ò che la coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se stessa: ò quello che Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice. Persa ogni fiducia in se stessa, la coscienza ò âinfeliceâ, tende quasi a denigrarsi, e, non riuscendo più a trovare un valore in se stessa, lo cerca in tutto ciò che le ò opposto. Fuor di metafora, questa ò la tappa del Medioevo cristiano: Hegel negli Scritti teologici giovanili aveva valutato positivamente il cristianesimo, però ora si rifiuta di guardare con simpatia al Medioevo (a differenza della maggior parte dei Romantici) poichè in esso vede lâasc
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