Hilary Putnam - Studentville

Hilary Putnam

Pensiero e vita.

Vita e opere Hilary Putnam, uno dei più importanti filosofi statunitensi della generazione successiva a Quine, nasce a Chicago il 31 luglio 1926 da famiglia ebraica. La sua formazione filosofica si muove fra le correnti analitiche di derivazione neopositivistica (il filosofo può annoverare Reichenbach e Carnap fra i suoi insegnanti) e la tradizione pragmatistica americana (i cui nomi portanti sono Dewey, James, Peirce e quindi Quine, con cui Putnam si incontra poco dopo il ritorno dall’Europa di quest’ ultimo). Si diploma nel 1948 all’Università  della Pennsylvania e consegue il dottorato a Los Angeles nel 1951. Inizia nel 1953 a Princeton la sua carriera accademica come assistente e nel I960 diventa associato di filosofia, dal 1961 al 1965 insegna al MIT (Massachusets Institute of Technology) e quindi si sposta all’Università  di Harvard- nello stesso periodo si getta nell’impegno politico e aderisce a posizioni pacifìste e marxiste (sono gli anni della guerra in Vietnam), entrando a far parte prima del movimento Studentsfor a Democratic Society e poi di un gruppo maoista interno a quello stesso movimento, i Progressive Labor Party. Mette così a frutto le giovanili letture fìlosofiche di Kierkegaard, Marx, Freud e dei francofortesi, che lo convincono che la filosofia non ò soltanto un impegno teorico o, peggio, accademico; in seguito tuttavia abbandona questo radicalismo politico. Inoltre, amplia progressivamente lo specchio dei suoi interessi e giunge a occuparsi anche di etica e di estetica, ambiti lontani dalla sua primitiva formazione neopositivistica, consapevole che i valori influenzano la scienza. Da1 1976 ò Professor of Modern Mathematics and Mathematical Logic sempre all’Università  di Harvard. Sposato due volte e appassionato di cucina, ò membro corrispondente della British Academy e ha ricevuto molti riconoscimenti internazionali fra cui due lauree ad honorem. Negli anni Cinquanta ha pubblicato una serie di articoli di filosofia del linguaggio e di logica; la maggior parte dei suoi articoli composti a cavallo fra gli anni Sessanta e Ottanta si trova ora raccolta nei trè volumi dei “Saggi filosofici”, intitolati rispettivamente “Matematica materia e metodo” (1975), “Mente, linguaggio e realtà ” (1975) e “Realismo e ragione” (1985). Nel frattempo, però, anche le preoccupazioni etiche si fanno breccia cosicchè Putnam da alle stampe nel 1978 “Verità  e etica”, dove, tra l’altro, si annuncia la svolta nella sua concezione del realismo, e nel 1981 “Ragione, verità  e storia”. Le indagini sul realismo divengono quindi il tema centrale della riflessione del filosofo che ad esso dedica i suoi più ampi sforzi, pubblicando nel 1987 “La sfida del realismo” (nato a partire dalle Paul Carus Lectures tenute a Washington nel 1985), nel 1988 “Rappresentazione e realtà ” e nel 1990 l’ampio “Realismo dal volto umano”. Il recupero del pragmatismo ò invece al centro del recente “Il pragmatismo: una questione aperta” (1992), che raccoglie una serie di conferenze tenute da Putnam a Roma. Il suo ultimo libro ò “Rinnovare la filosofia”, del 1992, una serie di saggi che coprono un ampio spettro di tematiche, dal bilancio sul ruolo di filosofi ormai classici come Dewey o Wittgenstein alla filosofia della mente, dalla filosofìa del linguaggio allo spazio che devono avere anche all’interno della filosofia analitica le tematiche morali e religiose. La filosofia del linguaggio e della logica Putnam nega quinianamente l’esistenza di verità  a priori: la stessa geometria euclidea ò una teoria sullo spazio finito e dunque risulta empirica, ossia, in termini kantiani, sintetica. In “L’analitico e il sintetico” (1962) Putnam contesta tuttavia la reiezione quintana dell’analiticità , che a suo avviso invece si può e si deve in qualche modo continuare a sostenere: la critica di Quine ha avuto il merito di mostrare la connessione strettissima fra le nozioni di significato, di analiticità  e di sinonimia, ma da ciò non discende che non sia opportuno mantenere quella distinzione; anzi, Quine sembra aver identificato erroneamente l’analiticità  con l’a priori. A giudizio di Putnam non ò possibile trovare un criterio adeguato e rigoroso per definire le nozioni analitiche, e allora egli fa ricorso a un criterio pragmatico per identificarle: esse sono tali perchè le intendiamo senza poter dare ragione di questo loro carattere, anche se talvolta dobbiamo affidarci a degli “specialisti” per distinguerle da quelle che non lo sono e che pure sembrerebbero esserlo. Esse vengono fissate mediante una “convenzione implicita”, il che non esclude tuttavia la loro rivedibilità . Allo stesso modo, nei saggi “Sulla tesi che la matematica ò riducibile alla logica” e “Che cosa ò la verità  matematica” il filosofo asserisce la correggibilità  della conoscenza matematica, che dunque non ò fondamentalmente diversa dalla conoscenza empirica. Infatti, il carattere a priori della verità  matematica e logica ò tale solo all’interno del nostro schema concettuale, e sembra allora potersi ravvisare in Putnam una forma di costruttivismo: non ò necessario dover scegliere fra platonismo (che ritiene le entità  matematiche esistenti al di fuori della nostra mente) e nominalismo (che le ritiene mere costruzioni mentali), perchè la conoscenza delle entità  matematiche non ò indipendente dalle nostre esperienze e tale posizione viene definita “aristotelica” dal filosofo stesso. La matematica, a differenza di quanto ritengono i platonisti, non ha oggetti propri, semplicemente si occupa di oggetti non reali, ma astrattamente possibili. La conferma delle teorie matematiche non sarà  tuttavia costituita da generalizzazioni induttive, ma da metodi che fanno parte della prova stessa, cioò che sono in certo modo a essa interni. Lo sfondo realistico ò presente anche in “Filosofia della logica” (1972), che combatte il nominalismo affermando l’esigenza delle classi e la loro ineliminabilità . Realismo metafisico Gli scritti degli anni Settanta sono condotti da una prospettiva che Putnam stesso chiama realismo metafìsico, la presupposizione, cioò, dell’indipendenza della realtà  dalla mente umana, che può essere pertanto smentita dalla prima. Questa forma di realismo si accorda sia con il “realismo ingenuo” (quello tipico del senso comune), per il quale esistono gli oggetti della nostra esperienza ordinaria, come i tavoli, le sedie e i cubetti di ghiaccio, sia con il realismo forte degli scienziati, per i quali esistono le entità  inosservabili a cui fa riferimento la scienza, come gli atomi, i quark ecc. In particolare, nel secondo volume dei “Saggi filosofici” Putnam difende il cosiddetto realismo empirico, fondato sull’inferenza alla miglior spiegazione: sia le esperienze quotidiane sia gli esperimenti di laboratorio confermano che la realtà  esiste, che ò indipendente da noi e che rende vere o false le nostre proposizioni. Questa teoria ò certamente un’ipotesi empirica, cioò non può ottenere una fondazione apodittica e perciò definitiva, ma possiede una tradizione amplissima che va dall’antichità  a Kant e che a tutt’oggi non ò stata soppiantata da nessuna migliore ipotesi. Peraltro, il realismo metafisico si ò storicamente attuato in una grande varietà  di atteggiamenti, come il materialismo, l’idealismo, il soggettivismo, ma tutti accomunati dalla pretesa di individuare una stabile essenza “definitiva” della realtà . Per il realismo esterno, come la realtà  ò una sola, una totalità  di oggetti interamente precostituita rispetto alla mente umana, così c’ò una sola descrizione vera di com’ò il mondo e la teoria della verità  che ne consegue ò corrispondentistica, nel senso che la nostra descrizione della realtà  per essere vera deve ricalcarne esattamente la configurazione. Tale prospettiva ò da Putnam definita “esternista”, perchè considera la realtà  non dal punto di vista dell’uomo, ma da un ipotetico punto di vista esterno e neutrale, come potrebbe essere l’occhio di Dio. Realismo interno In “Verità  e etica” assistiamo a una fondamentale svolta di sapore trascendentale nella concezione di Putnam del realismo: se la rivoluzione copernicana di Kant aveva insegnato che la nostra apprensione della realtà  non ò indipendente dal nostro apparato categoriale, adesso Putnam sostiene che ò certo possibile pensare con il vecchio realismo metafisico a un mondo indipendente dalla nostra mente, ma che tale convinzione si paga al caro prezzo della sua stessa conoscibilità . Per contro, il mondo esiste per noi, cioò ò per noi conoscibile solo attraverso gli strumenti che adoperiamo per conoscerlo, e di conseguenza l’ontologia, cioò l’insieme degli oggetti mondani la cui esistenza noi siamo disposti a riconoscere, viene assunta all’interno di una teoria previamente assunta sulla costituzione del mondo. Ad esempio, se la nostra teoria ci consente di parlare dell’elettrone, vuol dire che noi ci muoviamo già  all’interno di una teoria che ammette e riconosce gli elettroni. Il realismo metafisico non ò inammissibile, ma diventa sterile perchè ci costringe a rinunciare a qualsiasi tesi su com’ò il mondo; di conseguenza, l’unico realismo plausibile da un punto di vista gnoseologico ò quello interno, prospettiva introdotta da Kant, reperibile quindi in autori come Peirce, Wittgenstein e in tempi più recenti nel costruzionismo di Goodman e nell’antirealismo semantico di Dummett. L’ internismo che Putnam sostiene può ammettere (anche se non necessariamente) che esista più di una descrizione vera del mondo: in questo modo si effettua una combinazione di due differenti prospettive. Da un lato vengono riconosciuti elementi derivanti dal mondo esterno che sono in connessione dialettica con la teoria, la quale dunque non ha per unico contrassegno la coerenza interna ma deve continuare a rispondere all’esperienza; dall’altro lato si sostiene che questi elementi non sono neutrali, ma hanno la loro esistenza e traggono il loro rilievo solo perchè assunti all’interno di una determinata prospettiva teorica. Di essi, dunque, non si da una sola descrizione vera, come se fossero indipendenti da qualsiasi scelta concettuale, come non sono neutre nemmeno le nostre sensazioni. Questo realismo, sebbene possieda indubitabili tratti kantiani, rigetta con decisione la “cosa in sè”. Il realismo interno ò ben attento a non sfociare nel relativismo assoluto e tanto meno nello scetticismo, e pur non condividendo il realismo metafisico non contraddice quello del senso comune e della scienza: esso non ci porta a dubitare dell’esistenza della realtà  esterna, anche se la sua immagine nella conoscenza ò costituita dalla collaborazione fra gli enti e il mondo stesso. Resta infatti aperta la possibilità  che descrizioni differenti della realtà  siano compatibili: com’ò possibile conferire forme diverse alla stessa materia e nessuno direbbe che si tratta di materie diverse, così si può descrivere la realtà  come composta da tavoli, sedie e cubetti di ghiaccio oppure da atomi tenendo fermo che si tratta pur sempre delle stesse cose, anche se le due versioni del mondo, pur strettamente correlate, sono irriducibili l’una all’altra. àˆ dunque possibile essere allo stesso tempo sia realisti sia relativisti concettuali. I concetti, il nostro apparato categoriale sono indubbiamente relativi alle diverse culture, ma non tutto ò assolutamente relativo e incommensurabile nelle varie culture. E se da un lato non esiste un punto di vista assoluto da cui giudicare le questioni, e quelle ontologiche per cominciare, dall’altro non può essere neppure vero che tutto dipenda semplicemente dalla nostra cultura di appartenenza. Gli oggetti esterni permangono e noi abbiamo la possibilità  di dire (secondo una o più descrizioni) come sono, anche se non possiamo dire come sono indipendentemente da ogni nostra scelta concettuale. In tal modo Putnam non ritiene con Goodman (e meno che mai con Rorty) che il mondo vada “perduto”, dal momento che versioni concettuali diverse per lui rimandano comunque all’unico mondo esistente. I fatti non vengono costituiti da noi, sono indipendenti e preesistenti, anche se possiamo parlarne solo dopo l’assunzione di un determinato linguaggio; e infatti ò proprio il linguaggio, connotato da una natura intrinsecamente sociale e soggetto al mutare delle culture, lo strumento mediante il quale noi organizziamo l’esperienza. Terre, gemelli e gatti-robot Trasversalmente al modificarsi delle posizioni sul realismo, Putnam sviluppa una teoria del riferimento che invece mantiene in gran parte immutata nel corso della sua riflessione e che si inserisce nell’ambito della cosiddetta teoria causale del riferimento. Sappiamo che la tradizionale teoria del riferimento di matrice freghiana sostiene come esso venga determinato mediante descrizioni, per cui conoscere il significato, significa possedere la conoscenza di alcuni tratti dell’oggetto indicato: il paradigma tradizionale si caratterizza così per essere eminentemente denotazionale e mentalistico. In netta contrapposizione a questa visione, nel celebre saggio “Il significato di ‘significato'” (1975) e in molti altri scritti successivi Putnam sostiene che l’elemento costante del significato, che si mantiene anche quando un determinato termine viene usato in due teorie diverse, ò l’identità  del riferimento. Ciò implica l’invarianza del significato dei termini osservativi anche nel mutare degli enunciati teorici e contrasta la tesi di Feyerabend del carattere pregno di teoria di tutti i termini. Putnam ipotizza il caso di una Terra Gemella in tutto uguale alla nostra tranne che nella composizione chimica dell’acqua: un astronauta che vedesse l’acqua della Terra Gemella la chiamerebbe tranquillamente così finchè non l’avesse analizzata, scoprendo che la sua composizione non ò H2O, bensì XYZ; a questo punto egli affermerebbe che nella Terra Gemella “acqua” non ha lo stesso significato che sulla nostra Terra, poichè lì significa (cioò si riferisce a) XYZ e qui, da noi, H2O. Se tuttavia non pensiamo all’astronauta ma a un ipotetico visitatore terrestre che fosse riuscito a recarsi nella Terra Gemella per esempio nel Settecento (o comunque anteriormente allo sviluppo della chimica moderna), allora il terrestre e l’abitante della Terra Gemella continuerebbero a usare lo stesso termine riferendosi (inconsapevolmente) a due sostanze diverse, ma – e questo ò essenziale per Putnam – essendo in possesso delle stesse nozioni sull’acqua: che ò incolore, inodore, insapore, che disseta ecc. Questo dimostra che non sono le conoscenze dei parlanti a determinare il riferimento, ossia che l’estensione del termine non ò funzione esclusiva degli aspetti cognitivi o, in altre parole ancora, che i significati non sono nella testa. Infatti il terrestre e l’alieno della Terra Gemella indicano con il termine “acqua” due cose diverse pur trovandosi nella medesima condizione psicologica (cognitiva). Il significato si correla allora all’oggetto, nel nostro caso all’acqua, in virtù di un’operazione sociale, cioò di una relazione causale che sussiste fra i parlanti e il referente reale del termine. L’estensione ò determinata dalla natura degli oggetti a cui il termine si riferisce, indipendentemente dalle conoscenze di cui sono in possesso i parlanti, cosicchè sulla nostra Terra “acqua” si riferirà  esattamente a H20 e sulla Terra Gemella a XYZ. A sua volta, il significato viene fissato dal riferimento e quindi trasmesso dalla competenza semantica dei parlanti. Il termine viene attribuito a un determinato oggetto in base a un battesimo iniziale, ò indipendente dalle idee che se ne fanno i parlanti e si riferisce e continua a riferirsi al genere di cose a cui viene riferito all’inizio del tutto indipendentemente dalle proprietà  delle cose stesse. Ma a chi spetta questo battesimo? Poichè la competenza semantica ò complessa e socialmente stratificata e da pertanto origine a quella che Putnam chiama la divisione del lavoro linguistico, all’interno della comunità  vi sono persone le cui conoscenze intorno a un determinato genere di cose sono maggiori di quelle in possesso di altre persone. àˆ dunque molto più naturale che siano queste a fissare il riferimento dei termini, mentre gli altri parlanti erediteranno tale denominazione entrando in possesso del mero stereotipo, cioò una serie di caratteristiche tipiche e fondamentali (molto meno ricche e articolate della conoscenza che possiedono gli “esperti”) che tuttavia consentono comunque la corretta identificazione dell’oggetto e la trasmissione della competenza semantica. Ma il significato ò indipendente dallo stereotipo: infatti esso viene fissato in relazione al genere naturale di cose in riferimento a cui ò stato creato il termine e mantiene questo riferimento anche se ci si dovesse accorgere poi che lo stereotipo ò una rappresentazione largamente inadeguata del genere che indica: ecco perchè, dice Putnam, se noi scoprissimo che i gatti non sono in realtà  che robot telecomandati dai marziani dovremmo continuare a chiamarli gatti. Ciò segnala una volta di più l’indipendenza del significato dalle credenze: l’unica condizione essenziale ò che il riferimento venga mantenuto costante, cosa che ci permette di dire che le parole hanno in ogni caso lo stesso significato. Cervelli in vasca e scetticismo In “Ragione, verità  e storia” Putnam rinforza la sua concezione realistica combattendo esplicitamente lo scetticismo. Nel celebre saggio “Cervelli in una vasca” egli immagina uno scienziato pazzo che estrae un cervello umano dal corpo, lo pone in una vasca piena di liquido nutriente e lo connette a un computer appositamente programmato per simulare la vita del corpo. Il cervello continua a vivere nell’illusione di avere un corpo, di compiere esperienze, mentre in realtà  tutto questo non ò che l’illusione dettata dal computer dello scienziato. Non si tratta in fondo che della rivisitazione contemporanea del genio ingannatore che campeggia nelle “Meditazioni metafisiche” di Cartesio (e che trova una brillante trasposizione cinematografica nel film “Matrix”, del 1999). Chi ci garantisce non solo l’esistenza della realtà  esterna, ma della nostra stessa esistenza? Noi siamo ciò che crediamo di essere? Come possiamo essere certi di non essere cervelli in una vasca, manipolati da un qualche scienziato geniale e demente? La risposta di Putnam si fonda sulla teoria causale del riferimento e sul vecchio argomento che sosteneva il carattere autoconfutatorio dello scetticismo. Il punto di partenza di Putnam ò sostenere che se fossimo cervelli in una vasca, pur conducendo una vita apparentemente “normale” e ritenendo di avere esperienze e sensazioni ordinane, non potremmo renderci conto di essere cervelli in una vasca, anzi, non saremmo nemmeno in grado di porci il problema. Se infatti non fossimo persone umane, ma per l’appunto cervelli in una vasca, avremmo dei significati diversi, cioò le nostre parole non avrebbero lo stesso riferimento. I termini “tavolo”, “sedia” e anche “cervelli” e “vasca” non sarebbero infatti determinati dai relativi oggetti mondani, cioò da tavoli, sedie ecc ma semplicemente dalle stimolazioni provenienti dal computer del gemo pazzo che ci comanda Se noi fossimo cervelli in una vasca e dicessimo di essere cervelli m una vasca muoveremmo da un’ipotesi strutturalmente diversa sulla conformazione del mondo, per cui il nostro enunciato non potrebbe riferirsi a reali cervelli e a reali vasche quali noi uomini li conosciamo nella nostra esperienza: le espressioni, nonostante la loro omofonia avrebbero differenti significati e di conseguenza, allorchè il cervello nella vasca dicesse di essere in vasca, non potrebbe significare davvero, come noi m effetti e in realtà  lo intendiamo, di essere un cervello in vasca. Lo scetticismo ò dunque confutato e con esso anche ogni forma di realismo metafisico- lo scettico e il realista metafisico concordano almeno su questo punto: l’esistenza di un mondo interamente precostituito e da noi indipendente, sebbene il primo insista sulla sua inconoscibilità  e il secondo aspiri invece a una teoria corrispondentistica della conoscenza. Al contrario, la teoria del riferimento a cui Putnam fa appello ci vieta di credere al fatto che determinate, rappresentazioni mentali si riferiscano in ogni caso a specifiche cose esterne la cui configurazione ò del tutto indipendente dalla nostra mente. Tra pluralismo e democrazia Gli schemi concettuali non sono per Putnam a priori com’erano per Kant, sono invece assunti in base a una scelta che ha a fondamento determinati valori: ogni concezione della razionalità  e della verità  si basa comunque sull’ etica, perchè senza valori non ci sarebbero neppure i fatti. In “Verità  e etica” Putnam spiega che la scienza ha i suoi valori cognitivi come dimostra l’impossibilità  di demarcare rigorosamente enunciati osservativi ed enunciati teorici. Quando parliamo di giustificazione, di conferma ecc. facciamo ricorso a dei criteri di accettabilità  razionale che non sono pienamente oggettivi ma dipendono da un giudizio di valore sui canoni che deve possedere una teoria per essere scientifica. In secondo luogo, la tesi neopositivistica che contrapponeva nettamente fatti e valori e che insisteva sulla intrinseca non razionalità  dei valori sembra controintuitiva, dal momento che tutti cerchiamo di produrre una qualche giustificazione del nostro modo di vivere: anche se ogni giustificazione razionale dovesse alla fine risultare incompleta e non decisiva, noi non ci sentiamo esonerati dal fornire argomenti per il nostro comportamento. Si affaccia una ripresa della tesi kantiana sul primato della ragion pratica su quella Teoretica (e d’altra parte Putnam si rivela influenzato da autori più o meno kantiani come Dworkin, Habermas, Apel, Hà³ffe). Tuttavia, i valori non sono perenni, statici, perchè invece seguono la tendenza al miglioramento che il filosofo riscontra nella società – non ò però l’uomo come singolo individuo che può darsi tali valori e aspirare al miglioramento, perchè soltanto nel dialogo e nel confronto con altri uomini tale tendenza prende corpo. L’unica via al progresso, alla razionalità , sta allora nella democrazia e nel pluralismo. A ciò ò connessa la visione parzialmente strumentalistica del ruolo della scienza che emerge in Putnam negli anni Ottanta e che ò di chiara derivazione pragmatistica: la scienza ò funzionale, più che alla conoscenza m se, al miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, all’attuazione di una situazione ideale di eudemonia. Ma la razionalità  non ò riducibile a una concezione tutta strumentale (di tipo weberiano): prima della razionalità  strumentale devono infatti sussistere dei criteri di rilevanza in base ai quali noi decidiamo quali tipi di problematiche, quali interessi e quali finalità  siano propri delle nostre imprese, fra cui la scienza stessa. Nella terza parte di “La sfida del realismo” il kantismo viene integrato con una dottrina scettica che serve a mantenere aperta la prospettiva pluralistica: la conoscenza del bene oggettivo ò inattingibile alla nostra intuizione morale (ciò ò il corrispettivo etico del realismo interno perchè depura la nostra conoscenza da pretese all’assolutezza), ma ciò ò un fatto positivo in quanto mantiene libera la facoltà  del giudizio e non introduce aspetti eteronomi nell’etica. Di conseguenza, non si può che adottare un atteggiamento pluralistico nei confronti delle posizioni etiche, filosofiche e anche religiose. In “Conversazioni americane” Putnam evidenzia come la religione non gli interessi nella dimensione fideistica, ma in quanto importante riflessione sul limite dell’umano; non a caso l’accentuazione progressiva dell’umanesimo, avviata da Feuerbach, ò culminata nella deificazione dell’uomo che ha prodotto le società  totalitarie dei fascismi e del socialismo reale. Come vengono assunti allora i valori? Per sfuggire all’alternativa stretta di assolutismo e totale relativismo come pure all’individualismo solipsistico (ovvero alla scelta individuale), essi sono giocati su di un equilibrio tra visione del mondo, che integra conoscenze e scienza ma anche assunzioni metafisiche e teologiche, e ideali che forniscono una collocazione globale dell’uomo, senza per questo rinunciare alle tecniche argomentative dell’analisi, cioò una mediazione continua e progrediente fra individuo e società . La morale sembra consistere esclusivamente nell’accordo fra la valutazione individuale e l’approvazione collettiva (esigenza meno forte di quella sviluppata da Rawls): in ogni caso la concezione più ragionevole della razionalità  deve e può essere sviluppata solo all’interno dei vari sistemi culturali e non ha senso volerla giudicare situandosene fuori, in un illusorio punto archimedeo.

  • 1900
  • Filosofia - 1900

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