Gli interessi principali di questo pensatore non sono tanto metafisici, quanto politici. D’ altronde la sua filosofia matura nel contesto della guerra civile inglese degli anni 40 del Seicento. Ebbe una vita particolarmente lunga ( circa novant’ anni ) che coprì l’ intero XVII secolo. La distinzione tra Hobbes e l’ altro grande filosofo politico inglese del 1600 ( Locke ) deriva soprattutto dal diverso periodo storico in cui sono vissuti. Nell’ Inghilterra, infatti, nel 1600 ci sono state ben due rivoluzioni, quella degli anni 40 ( è l’ epoca in cui scrive Hobbes ) e quella degli anni 80, detta ” gloriosa ” ( è l’ epoca in cui vive Locke ): mentre la prima è una vera e propria guerra civile, una vicenda traumatica, la seconda rivoluzione ( la ” gloriosa ” ) è considerata un fatto altamente positivo, l’ atto con cui l’ intera società inglese si è sbarazzata di una monarchia oppressiva e ha dato vita ad una monarchia costituzionale. Il fatto stesso che Hobbes abbia maturato le sue idee e i suoi scritti nel corso della prima rivoluzione e Locke nella seconda, è significativo per capire le differenze tra i due. Per Hobbes la cosa che va evitata più di ogni altra è la guerra civile, per Locke la perdita della libertà . Hobbes mira alla sicurezza, Locke alla libertà . La prima opera importante di Hobbes è una traduzione inglese della Guerra del Peloponneso di Tucidide; il che dimostra due cose: in primo luogo il suo interesse prettamente antropologico, storico e politico. In secondo luogo dobbiamo tener conto che Tucidide non era uno storico qualunque: era fortemente pessimista e si curava di una storia attenta al diritto del più forte: Hobbes sarà molto influenzato da questa concezione della storia. Nella guerra civile Hobbes resta sempre legato alla monarchia e segue perfino la corte di Carlo II in esilio in Francia dopo la decapitazione di Carlo I. Hobbes è sì fortemente legato alla monarchia ( dalla quale, dopo il rientro in Inghilterra, riceverà la pensione che veniva data ai ” fedeli “, con la quale potevano vivere senza lavorare ), tuttavia da essa non sarà mai visto con troppa simpatia: egli è sì uno dei grandi teorici dello stato assoluto, ma non necessariamente della monarchia assoluta, verso la quale, comunque, Hobbes nutre grandi simpatie. Esistono tuttavia due modi distinti di concepire la monarchia assoluta: uno, più tradizionale, che vede in Giacomo I, nei primi anni del Seicento, il grande teorizzatore: egli fondava il potere del sovrano sull’ idea ( di origine medioevale ) che fosse attribuito direttamente da Dio; ci sarà anche, sempre in questo ambito, chi arriverà a dire che il potere del sovrano non è altro che un’ estensione del potere del padre sulla famiglia ad un intero stato: Dio ha dato ad Adamo un potere assoluto sulla famiglia e sui figli; da Adamo il potere si è esteso ai patriarchi di Israele per poi arrivare ad investire intere strutture statali. Si tratta quindi di un’ idea patriarcale e divina del potere assoluto. Locke polemizzerà contro i sostenitori di questa teoria, in particolare contro un’ opera scritta in quegli anni, intitolata ” Il patriarca “. La posizione di Hobbes, che è comunque assolutista, è meno tradizionale rispetto a quella di Giacomo I ed è fondata in maniera laica: nello stato assoluto secondo Hobbes Dio non c’ entra niente, il potere non deriva dall’ alto, ma dal basso: gli uomini guidati dalla loro ragione decidono di associarsi e di rinunciare a porzioni della propria libertà in favore di un’ istanza superiore ( il sovrano ). Con Hobbes concorderanno Locke, Spinoza e Rousseau: le differenziazioni tra questi pensatori nasceranno poi su come concepiranno l’ idea di stare insieme. Tuttavia concorderanno tutti pienamente con Hobbes che non è Dio ad attribuire il potere al sovrano, ma è il popolo stesso guidato dalla propria ragione. Si tratta quindi di uno stato assoluto il cui fondamento primo è il consenso: esso è la base del potere anche quando si arriva a stati assoluti: è l’ idea dominante per tutto il 1600. L’ interesse principale di Hobbes, come accennavamo, è la politica, tuttavia egli ritiene di dover fondare la politica su una base fisico – matematica. Egli si fa portavoce, in altri termini, di una concezione riduzionista delle scienze: le scienze sono parecchie ( biologiche, umane, naturali, fisiche, ecc. ) e un sociologo per analizzare i problemi della società umana deve senz’ altro tener conto della realtà fisica e biologica in cui il comportamento si svolge; il presupposto biologico che le persone mangino, per dire, è presupposto fondamentale della sociologia, che indagherà su che cosa mangino e cose del genere. Tuttavia non c’ è riduzionismo, ossia non pensiamo che tutta la sociologia possa essere dedotta dall’ ambito biologico e che l’ ambito biologico possa essere a sua volta dedotto da quello chimico, il quale può essere dedotto da quello fisico, deducibile da quello matematico, riducendo così tutto ad una sola scienza: certo bisogna tener conto della biologia ( ad esempio ) studiando la sociologia, ma comunque quest’ ultima non sarà riducibile solo a biologia. Invece Hobbes ha una concezione tipicamente riduzionistica: le scienze possono essere ridotte ad una sola ( la fisica ): tutto ( la politica, l’ etica, ecc ) può essere spiegato secondo le leggi della fisica matematizzata. Per Cartesio, invece, con la fisica si può arrivare a costruire la biologia ( dalle leggi fisiche all’ animale macchina ) e studiare un corpo o un orologio, in fondo, per lui è la stessa cosa, tuttavia egli non estende la fisica alla politica e alla sociologia per il fatto che c’ è la res cogitans che glielo impedisce. Hobbes invece, affrontando il problema lasciato in eredità da Cartesio del rapporto tra res cogitans e res extensa, lo risolve annullandolo, ossia eliminando radicalmente la res cogitans ( la spiritualità ): tutto ciò che esiste è materiale e anche quello che ci sembra spirituale ( la coscienza, la memoria, il dolore ) non è altro che una manifestazione della res extensa: la coscienza e il sentimento non sono altro che epifenomeni, ossia manifestazioni oggettive, appendici: è la materia che dà la parvenza di essere coscienza. Ecco quindi spiegato perchò Hobbes fa derivare tutte le scienze dalla fisica e dedica ben due trattati alla fisica e alla metafisica, lui che si interessava di politica. Addirittura leggendo la sua opera principale, il Leviatano, ci si accorge di come egli, ancora prima di trattare della vera e propria politica, parta dalla concezione della materia per poi arrivare solo in un secondo tempo alla politica. D’ altronde per Hobbes la politica non è altro che una fisica particolarmente complessa: con il suo metodo riduzionistico si parte dalla fisica, si arriva alla biologia e poi alla sociologia ( la politica ). La politica diventa allora una vera e propria fisica sociale. Sul piano storico è tipico che se una branca funziona particolarmente bene si finisce per farla diventare egemone in ogni campo: nel 1600, neanche a dirlo, la branca egemone è la fisica matematizzata. Tuttavia non è detto che tutti quelli che prendano a modello la fisica siano riduzionisti come Hobbes: Cartesio è un grande fisico, ma non è un riduzionista: lo è fin quando non arriva a parlare dell’ uomo, in cui convivono res cogitans e res extensa. Tutto per Hobbes va investigato in termini fisici proprio perchò le uniche cose esistenti sono i corpi ( la materia, res extensa ), la cui caratteristica è la misurabilità in termini matematici. Ecco allora che accanto ad uno scritto intitolato De cive ( il cittadino ), ne troviamo un altro intitolato De corpore ( il corpo ), quasi come se Hobbes volesse scrivere un’ enciclopedia dello scibile umano in termini fisici. E’ poi interessante il fatto che sia Hobbes sia Cartesio cominciano a scrivere nelle lingue nazionali ( in inglese Hobbes e in francese Cartesio ) per diffondere il loro sapere: il Leviatano, l’ opera più importante di Hobbes, è in inglese. Stranamente Hobbes, per cominciare lo studio della realtà in generale, parte da una definizione dell’ essere data a suo tempo da Platone nel Sofista: Platone diceva che si può dire che è tutto ciò che può agire o subire un’ azione; certo Platone non intendeva dare una soluzione meccanicistica come farà Hobbes, tant’ è che con questa definizione dimostrava l’ esistenza delle idee: ciò che agisce o subisce un’ azione esiste, quindi le idee che io penso, subendo l’ azione dell’ essere pensate, devono esistere. Qualche tempo dopo Platone, gli stoici avevano ripreso in termini più rozzi questa definizione del Sofista dicendo che a subire e a compiere azioni sono solo le cose materiali. Hobbes la pensa come gli stoici e arriverà a dire che esiste solamente la realtà corporea. La realtà non è altro che un insieme di corpi e di movimenti di corpi. In una polemica con un vescovo arriverà a sostenere che anche Dio è realtà corporea e che non potrebbe essere altrimenti: se non fosse corpo non esisterebbe perchò tutto ciò che esiste è corporeo; ma Dio esiste, quindi è materiale. Su questa fisica radicalmente meccanicistica Hobbes costruisce tutto il suo pensiero, elaborando una dottrina delle sensazioni e delle attività ” spirituali “: molte sono le analogie tra Hobbes e Cartesio, però la vera differenza da tenere a mente è che per Hobbes la res cogitans non esiste. Hobbes, per spiegare una sensazione, ricorre ad uno stimolo esterno che genera ( in termini meccanicistici ) un movimento dalla periferia del corpo verso il centro ( che per Hobbes può essere tanto il cuore quanto il cervello ); al centro si genera un altro moto che si identifica con la sensazione, che noi siamo soliti pensare come spirituale, ma che, spiega Hobbes, in realtà è puramente fisica e meccanicistica. La sensazione non è altro che un movimento impercettebile degli organi centrali del corpo. Similmente egli spiega anche la memoria: come mai ci ricordiamo delle cose e, tuttavia, col tempo il ricordo tende a sbiadirsi? Hobbes dà anche qui una spiegazione meccanicistica: quando vediamo, ad esempio, qualcosa i nostri sensi sono urtati e si innesca il movimento materiale tramite il quale vediamo la cosa che ci sta davanti; quando poi la cosa non ci sta più davanti continuiamo a vederla perchò il moto innescatosi quando la osservavamo ( per la legge di inerzia ) perdura e così con la mente continuiamo a vedere l’ oggetto che prima ci stava di fronte. Ecco allora che la memoria è un moto attenuato che permane in noi per un certo tempo. Se ho ricevuto una sensazione che è diventata ricordo, poi, si tratta, come dicevamo, di un moto che dura per un pò e che sa mettere in moto la catena in senso opposto: al centro perdura il moto del ricordo, viene trasmesso alla periferia e vado a trovare una persona che da dieci anni non vedevo. Questa tesi hobbesiana è piuttosto ingenua, ma non è poi così profondamente diversa rispetto a quella fornita dalla biologia e dalla medicina attuali. Quella di Hobbes risulta quindi essere una filosofia materialistica; è interessante notare come la parola materialismo abbia sostanzialmente due significati: può voler dire che esiste solo la materia, riconducibile ad estensione e a movimento ( e così di fatto la intende Hobbes ) ma può anche voler dire che non esiste solo la materia, ma che comunque essa è la realtà fondamentale: così la intenderà Marx nell’ Ottocento: ciò che chiamiamo non materia è solo una manifestazione secondaria ( un epifenomeno ) della materia. Il marxismo, non a caso, dirà che i fenomeni considerati come non materiali sono comunque dipendenti e derivati dalla materia: le concezioni culturali di una persona, allora, dipenderanno dalle condizioni storiche in cui essa vive. La posizione di Hobbes, però, è e resta rigorosa: tutto ciò che esiste è materia e le sensazioni stesse sono una forma di movimento microscopico. La filosofia di Hobbes è in buona parte un tentativo di superare le difficoltà create da Cartesio: se esistono una res cogitans ( spirito ) e una res extensa ( materia ) nettamente distinte che entrano in contatto tra loro ( la res cogitans anima decide di alzare il braccio e la res extensa braccio si solleva ), come si spiega il contatto tra realtà materiale e realtà spirituale? Sì, perchò se si parla di contatto allora si parla di urti materiali, ma è assurdo parlare di urti materiali in una realtà metafisica quale è la res cogitans ! Ecco allora che Cartesio ricorreva alla ghiandola pineale dove avveniva il misterioso incontro tra res cogitans e res extensa. Hobbes elimina la res cogitans e riconduce tutto alla res extensa. Così però, se vengono superati i problemi connessi alla ghiandola pineale, ne vengono creati di nuovi, forse ancora più grossolani. Hobbes infatti non dice che le sensazioni sono prodotte da movimento, ma arriva a dire che le sensazioni sono movimento, il che è abbastanza assurdo. Sia che si tengano in gioco la res extensa e la res cogitans ( Cartesio ), sia che si consideri solo la res extensa ( Hobbes ) si cade inevitabilmente in contraddizione: se dico che il movimento provoca la sensazione entro nell’ aporia cartesiana: la res extensa si muove e genera un qualcosa che non è più res extensa ( la sensazione, che per Cartesio è res cogitans ): è un qualcosa di materiale che, misteriosamente, produce qualcos’ altro di spirituale. Se invece, sulle orme di Hobbes, dico che il movimento è sensazione cado in una contraddizione ancora più grossolana: la sensazione è sensazione, non è un movimento, ce ne accorgiamo tutti bene o male ! Pare quindi che non ci sia una via d’ uscita: la scienza moderna tende a far vedere che non è la materia a generar la sensazione ( come diceva Cartesio ) ma che non può neanche essere accettata la teoria hobbesiana secondo la quale la materia è sensazione, bensì sottolinea come certi stati di coscienza corrispondano a certi stati di materia: a ogni stato della res extensa, spiega la scienza moderna, corrisponde uno stato della res cogitans ( della coscienza ). Ma il problema non viene risolto: non viene cioò spiegato il rapporto tra res cogitans e res extensa. Che ci sia corrispondenza tra le due realtà era noto a partire da Cartesio, quel che non si sapeva era appunto il tipo di rapporto esistente tra le due sostanze. In realtà la scienza del giorno d’ oggi non si pone neanche più di tanto il problema perchò in fondo ( per dirla con Galileo ) le interessa più il come che il cosa e il perchò. Fatto sta che tutti possiamo cogliere la contraddizione di Hobbes, insita nell’ affermazione stessa: la sensazione è il movimento. Dire che il movimento sia sensazione è assolutamente assurdo perchò una cosa è il movimento, un’ altra cosa è la sensazione. Si torna quindi al problema cartesiano: che rapporto c’ è tra le due res ( cogitans ed extensa ), che tra loro qualche rapporto devono per forza averlo ( altrimenti come si spiega che quando metto la mano sul fuoco sento il calore? ). Col cogito ergo sum cartesiano ho la certezza di esistere come soggetto pensante con tutte le idee presenti nella mia testa: l’ idea di libro presente nella mia testa esiste, bisogna però chiarire se, oltre all’ idea di libro presente nella mia testa, esista qualcosa di esterno ad essa da cui l’ idea proviene. La coscienza che ho di esistere con il cogito ergo sum è effettivamente totalmente sganciata dal mondo fisico della res extensa: esisto come soggetto pensante, ma non so se esista il mondo esterno ( compreso il mio corpo ). Però posso esser certo che l’ idea di libro ( anche se il libro in carne ed ossa non esistesse ) esiste come oggetto della mia attività intellettuale, che ho dimostrato esistente ( cogito ergo sum ). Anche se non ci fosse nulla al di fuori della mia attività intellettuale, l’ idea di libro continuerebbe ad esistere come fatto della mia coscienza: quando poi scoprirò ( come fa Cartesio ) che esiste un mondo esterno all’ idea di libro si aggiungerà il libro materiale, ma l’ idea resterà invariata: essa è presente nella mia coscienza sia che il libro materiale esista sia che non esista. Ecco allora che l’ idea di libro, presente nella mia coscienza come sensazione, non è affatto moto di materia ( la materia potrebbe anche non esistere senza per questo influenzare l’ idea ): la tesi di Hobbes è stata confutata. Il materialismo comporta quindi due contraddizioni: il materialismo di Hobbes, il più rigoroso, sbaglia dicendo che gli stati di coscienza sono movimenti di materia; il materialismo di Marx ( ed in parte di Cartesio ) sbaglia dicendo che un determinato stato di materia genera uno stato di coscienza. Ricapitolando: per Hobbes esiste solo ciò che può fare o subire un’ azione, quindi esiste solo la res extensa; la nostra stessa coscienza è riconducibile a materia, a corpo e a movimento: movimenti che dal centro ( cuore o cervello ) vanno verso la periferia e viceversa. A questo punto interviene nel discorso di Hobbes l’ etica, totalmente stravolta nella sua concezione di bene e male rispetto a tutte le filosofie precedenti. In tutte le filosofie il bene è sempre stato ciò verso cui si deve tendere e il male ciò verso cui non si deve tendere. Certo i filosofi hanno individuato in modi differenti il bene e il male cui si deve o non si deve aspirare: per Epicuro il bene era il piacere, per Aristotele la felicità , per gli stoici la virtù, per Platone il Bene in sò, e così via. Tutti in fondo facevano un ragionamento di questo tipo: il bene è questo, dunque si deve tendere a questo. Questi pensatori, in altri termini, vedevano il bene in termini teleologici, come il fine a cui tendere; addirittura un materialista come Epicuro invitava i suoi discepoli a tendere al piacere, visto come sommo bene. Ora, in una filosofia meccanicistica e materialista quale è quella di Hobbes, il finalismo non può assolutamente essere accettato: non esistono cose buone ( stabilite a priori ) a cui aspirare. In base alle leggi meccaniche, ogni comportamento è legato ad azioni di tipo meccanicistico ( ricordiamoci che Hobbes è un riduzionista: tutto è riconducibile ai movimenti della materia e quindi tutto va spiegato in modo meccanicistico ): a certi stimoli corrispondono determinate reazioni; è come nelle macchine ( l’ uomo stesso per Hobbes è una macchina ) in cui ad ogni imput corrisponde un output. L’ uomo reagisce sempre in maniera tale da sopravvivere, da autoconservarsi: reagendo così sceglierà certe cose e non altre, in altre parole opterà per tutto ciò che gli consentirà di sopravvivere ( a volte commetterà errori e non ce la farà ad autoconservarsi ). E’ evidente come il finalismo sia del tutto fuori luogo in una visione della realtà come quella di Hobbes. Ma che cosa sono il bene e il male? Per Hobbes il bene è ciò che l’ uomo di fatto sceglie e il male è ciò che l’ uomo di fatto evita: tutti gli uomini si comportano in una certa maniera e, di fatto, definiremo come bene ciò a cui essi tendono. Però il bene a cui essi tendono non è un qualcosa di stabilito a priori ( il bene cui si tende è la virtù, il piacere, la felicità , ecc. ), ma è ciò a cui aspirano per inclinazione naturale. Per Hobbes l’ uomo agisce così in modo meccanico e il modo in cui agisce, quello è il bene per l’ uomo. Il male viene allora ridotto a ciò che l’ uomo non fa. La definizione stessa di bene dipende da ciò che l’ uomo decide di fare e non è un qualcosa a priori. Va notato come in questi ragionamenti ci sia un evidente riallacciarsi alla matematica, imperante in tutto il 1600: Hobbes stesso riteneva che pensare non fosse altro che operare e che ogni nostro pensiero fosse riconducibile ad operazioni di somma o di sottrazione: dire ” la rana è verde ” significa addizionare alla rana il verde; dire ” la rana non è verde ” significa sottrarre alla rana il verde. Anche nell’ etica Hobbes tende a matematizzare, riducendo il comportamento a definizioni geometriche ” infondate “, e avvicinandosi così al pensiero di Spinoza. In base alle leggi meccanicistiche l’ uomo persegue le cose che gli garantiscono l’ autoconservazione: proprio in esse è il bene. Sulla base di questo bene e di questo male appena spiegati si genera il comportamento individuale, ma a Hobbes, da politico, interessa maggiormente quello collettivo. Nella società civile il bene e il male per natura cedono il passo al bene e al male per convenzione. Tra le varie doti di cui l’ uomo dispone vi è anche la ragione, fa notare Hobbes; gli animali stessi, in qualche misura, sembrano averne: in Hobbes viene a cadere quella netta distinzione di stampo cartesiano tra uomo e animale proprio perchò manca la res cogitans, che era poi ciò che appunto differenziava l’ uomo dalle altre creature: non essendoci la res cogitans, gli uomini sono macchine al pari degli animali. Gli animali per Hobbes provano sensazioni ( a differenza di quanto diceva Cartesio ), hanno l’ intelletto, ma non la ragione, intesa come pensare in termini generali tramite il linguaggio: l’ uomo grazie al linguaggio e alla ragione può attribuire nomi comuni alle cose e di conseguenza può parlare per categorie. Ovviamente Hobbes è nominalista: le idee non esistono proprio perchò non esiste la sostanza spirituale: tutto ciò che esiste è materiale; le idee sono solo flatus vocis e i nomi ci consentono di raggruppare tante cose in categorie. Gli uomini, proprio perchò dotati di ragione, sono in grado di stabilire che cosa è più utile per la loro sopravvivenza; la ragione stessa li porta a vedere cosa è più utile per l’ autoconservazione sul lungo termine e non solo sul momento: certo sul momento per autoconservarmi mangiare andrà bene, ma non basta, bisogna vedere sul lungo termine. Ecco allora che gli uomini ragionano su che cosa garantisca loro l’ autoconservazione al di là del presente. Ed è proprio quest’ esigenza che li porta a far nascere lo Stato civile. In origine gli uomini, spiega Hobbes, vivevano nello stato di natura in cui vigeva una situazione nella quale ciascuno aveva diritto su ogni cosa: oggi ciascuno di noi ha diritto non su tutto, ma su qualcosa perchò così sanciscono le leggi in vigore nello Stato: è il diritto di proprietà . Ma nello stato di natura, in cui non c’ è lo Stato civile e quindi non ci sono le leggi, tutti han diritto su tutto. Ciascuno può cioò fare ciò che desidera per procurarsi ciò che gli serve: si potrà allora rubare e uccidere per sopravvivere e, proprio perchò finalizzato all’ autoconservazione, questo sarà un bene. Lo stato di natura quindi è uno stato di bellum omnium contra omnes, una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro dove ciascuno mira alla propria autoconservazione a discapito degli altri. Per Hobbes quindi l’ uomo non è per natura incline ad essere socievole, come aveva sostenuto Aristotele a suo tempo definendo l’ uomo come animale politico. A questo punto interviene la ragione, la quale suggerisce che la situazione di guerra di ciascuno contro tutti gli altri nata dall’ esigenza di autoconservarsi porta ad un risultato opposto a quello per cui era nata: infatti nel momento in cui tutti mirano alla propria autoconservazione a discapito degli altri, la vita di ciascuno diventa altamente insicura e neanche il più forte può vivere sicuro perchò ci sarà sempre qualcuno più forte e comunque anche i più deboli potranno in qualche modo minacciare la sua vita. La ragione, di cui tutti gli uomini dispongono nella stessa misura, suggerisce allora di uscire dal precario stato di natura. Prima di vedere come se ne esca, però, si possono fare alcune osservazioni sullo stato di natura. In tutti gli autori ( Locke, Spinoza, Rousseau ) che ci ragioneranno sopra c’ è l’ idea di fondo che un reale stato di natura non sia mai effettivamente esistito nel corso della storia. Per quanto possano esserci state situazioni particolarmente retrograde e vicine allo stato di natura, un vero e proprio stato di natura non è mai esistito. Il ragionamento di questi autori è più che altro teorico: vogliono cioò far vedere non tanto quello che c’ è stato prima dello Stato civile, quanto piuttosto quello che succederebbe se venisse meno lo Stato civile. Non a caso il vero stato di natura radicato nella mente di Hobbes non è quello appena descritto, bensì quello della guerra civile inglese degli anni ’40 del Seicento ( da lui vissuta in prima persona ). Nella guerra civile infatti non vi è più lo Stato come autorità suprema e la guerra comporta un ritorno provvisorio al retrogrado stato di natura di lotta di ciascuno contro ogni altro. Uscendo dallo stato di natura su incitamento della ragione si passa a quello civile, che è un superamento appunto dello stato di natura: all’ interno dello Stato civile non ci sarà più la guerra di ciascuno contro ogni altro, ma essa perdurerà , secondo Hobbes, nei rapporti tra Stato e Stato: Hobbes non riconosce il diritto internazionale e vede il rapporto tra uno Stato e l’ altro come quello tra uomo e uomo nello stato di natura. Va poi sottolineato il fatto che egli, parlando di guerra di ciascuno contro tutti gli altri, non intende dire che ciascuno combatte incessantemente una guerra contro tutti quelli che lo circondano ( il che sarebbe assurdo ); vuole piuttosto sottolineare come nello stato di natura vi sia una potenziale guerra di ciascuno contro tutti gli altri proprio perchò non ci sono le istituzioni che lo impediscono: ciascuno nello stato di natura è contemporaneamente e potenzialmente sempre aggresssore e aggredito. Secondo Hobbes si esce dallo stato di natura per approdare a quello civile nel momento in cui ciascun individuo autolimita i propri diritti. La vera differenza nelle concezioni politiche tra Hobbes e Locke sta proprio nel come essi intendano l’ uscita dallo stato di natura; è proprio il modo in cui se ne esce che determina lo Stato civile che verrà originato. Per Hobbes la cosa più importante che debba essere garantita ai cittadini è la sicurezza, per Locke la libertà . Secondo Hobbes il principio fondamentale è l’ autoconservazione ( la sicurezza ) e tutto il resto è secondario tanto da poter essere sacrificato pur di ottenere la sicurezza. Ma in concreto che diritti devo sacrificare per garantirmi la sicurezza? Secondo Hobbes qualsiasi diritto deve essere limitato proprio perchò la sicurezza è garantita dal fatto che si limitino fortemente tutti i diritti di tutti affidando un diritto coercitivo ad una sola persona che può decidere ciò che vuole. Ognuno si deve cioò privare dei suoi diritti in favore di un’ istanza superiore che può tutto su chi si è tolto i diritti, tranne togliere il diritto di sicurezza: si è affidato il potere a questa persona proprio perchò lo garantisse. In altre parole, questa persona cui viene affidato il potere, deve essere investita di un tale potere da potere tutto tranne che togliere ai sudditi il diritto alla sicurezza. Sarebbe d’ altronde ridicolo sacrificare anche il diritto di sicurezza: ho rinunciato a tutto perchò esso mi fosse garantito ! La ragione stessa, che ha condotto l’ uomo fuori dallo stato di natura, gli detta alcune leggi di natura: innanzitutto ognuno deve evitare di aggredire gli altri purchò anche gli altri facciano altrettanto. Non dobbiamo assolutamente fare violenza quando tutti sono d’ accordo a non fare violenza. Esiste cioò un giusnaturalismo, ossia uno ius naturae, un diritto inscritto nella natura stessa delle cose, contrapposto allo ius positum ( diritto positivo, stabilito dai singoli Stati ). L’ atto con cui si esce dallo stato di natura e dal giusnaturalismo per entrare nello Stato civile e nel giuspositivismo è l’ emanazione di un contratto sociale, idea tipica del 1600-1700: vari possono essere i tipi di contratti e, per esempio, quello di Hobbes è radicalmente diverso rispetto a quello di Locke: secondo Hobbes, dal momento che ad un certo momento tutti i membri di un gruppo, guidati dalla loro ragione, si rendono conto che bisogna uscire dallo stato di natura per potersi garantire la sicurezza e l’ autoconservazione, ciascuno di loro rinuncia a tutti i diritti, fatta eccezione per quello alla sicurezza ( che è l’ obiettivo della limitazione degli altri diritti ); tutti gli altri diritti naturali vengono abbandonati per garantire la sicurezza individuale e vengono affidati, come si suol dire, ad un terzo, il quale si trova a detenere un potere illimitato ( può tutto tranne negare la sicurezza ai cittadini ) e può quindi garantire la pace perchò ha poteri così grandi da comandare su ogni cosa. Nel momento in cui questo personaggio viene investito del potere, stabilisce le leggi con le quali decreta cosa è bene e cosa è male: a differenza dello stato di natura in cui bene era ciò che garantiva a ciascuno l’ autoconservazione, nello Stato civile bene e male dipendono totalmente da ciò che il sovrano vuole: tra tutti i diritti di cui egli gode vi è anche quello di decretare che cosa sia bene e che cosa sia male. Evidentemente una concezione di questo tipo fonda lo Stato assoluto, ossia la situazione in cui il sovrano ha diritti ampissimi che si estendono a tutto fuorchò alla vita dei cittadini. Ma va subito sottolineato come sovrano non sia sinonimo di monarca; la sovranità , infatti, può essere detenuta da un’ assemblea. A questo punto il sovrano può decretare ciò che è giusto e obbligare i cittadini a comportarsi di conseguenza. Hobbes dichiara esplicitamente di nutrire grandi simpatie nei confronti della monarchia in quanto essa non porta a lotte di fazioni interne e, soprattutto, evita le guerre civili, favorendo la sicurezza. Possiamo a questo punto ricordare un’ importante osservazione fatta dal filosofo novecentesco di ispirazione illuministica Norberto Bobbio: egli fa notare che in ogni epoca ci sono categorie di pensiero fondamentali che, talvolta, sono così forti da costringere a servirsi di esse anche chi non la pensa così perchò altrimenti non verrebbe compreso, visto che tutti si avvalgono di quelle categorie. Bobbio, nel caso di Hobbes, nota come il pensatore seicentesco si serva di categorie giusnaturalistiche particolarmente in voga all’ epoca per poi fornire un contenuto sostanzialmente giuspositivista ( giuspositivismo: non c’ è alcun diritto naturale, ma solo diritti imposti dagli Stati ); in realtà Hobbes propugna tesi giuspositiviste camuffandole da giusnaturaliste: in ultima istanza ciò che è giusto o sbagliato lo è perchò lo decide il sovrano e non perchò di per sò sia giusto o sbagliato: se il sovrano decide che è giusto agire così, io suddito devo agire così senza far appello a leggi di natura. Per riprendere un interrogativo tipicamente platonico ( vedi Eutifrone ): le cose sono sante perchò piacciono a Dio o piacciono a Dio perchò sono sante? Hobbes, a differenza di Platone, opterebbe per la prima. La rivoluzione inglese nacque per questioni finanziarie: il re chiese ai contribuenti una tassa extra per poter fare una guerra. Venne allora coniato il motto nessuna tassa senza rappresentanza ( no taxation without rappresentation ): sullo sfondo c’ era l’ idea che la proprietà privata dei cittadini non potesse venir toccata dal sovrano; le tasse van bene solo se quando vengono stabilite noi sudditi possiamo essere rappresentati e dire la nostra. In altri termini, lo Stato non potrebbe metter le mani sulla proprietà privata. Hobbes si schiera a favore dello Stato e contro i cittadini che difendono l’ intoccabilità della proprietà privata da parte dello Stato: potrei dire che lo Stato non ha diritto di confiscarmi la proprietà se essa fosse un diritto che sta a monte dello Stato civile; ma nello stato di natura non c’ è proprietà e tutti han diritto su tutto. Essa nasce nello Stato civile e si fonda non sul diritto naturale, ma su quello stabilito dallo Stato: è il sovrano che ha varato leggi che garantiscono il diritto di proprietà . Ma se è lo Stato stesso che stabilisce le leggi che garantiscono il diritto di proprietà , così come le ha stabilite, può anche abolirle e confiscare la proprietà ai cittadini. Certo non potrebbe se essa stesse a monte dello Stato civile, ma così non è. Il sovrano può tutto, tranne che toccare la mia esistenza, e di conseguenza così come ha elargito dei diritti ( quello alla proprietà ad esempio ), può anche riprenderseli. Hobbes si schiera anche contro i diritti consuetudinari, di derivazione medioevale. Si tratta di quegli antichi diritti che non sono stati decretati dal sovrano, ma sono validi per tradizione. Tipico diritto consuetudinario è quello secondo il quale uno Stato che si annetta un territorio, deve rispettare le leggi che in esso vigono. Hobbes non nega che il sovrano possa decidere di mantenere in vigore le leggi in vigore per tradizione nel territorio annesso, tuttavia dice che se il sovrano vuole, può cambiarle: se il sovrano con una sua libera decisione stabilisce di mantenere le leggi tradizionali di quel Paese, comunque la loro validità non dipenderà dal fatto che sono antiche e che quindi pure il sovrano deve attenervisi, bensì dal fatto che è il sovrano che decide di sua iniziativa di mantenerle valide. Esse non valgono per la loro antichità , tant’ è che il sovrano può cambiarle quando e come gli pare e piace. La rivoluzione inglese nasce nel momento in cui il parlamento rimprovera al sovrano di aver rinnegato alcuni diritti tradizionali: secondo il parlamento certi diritti neanche il sovrano poteva toccarli. Ma Hobbes si schiera dalla parte del sovrano sostenendo che egli possa tutto fuorchò mettere in pericolo lo Stato stesso e i cittadini: ma quando mette in pericolo lo Stato e i cittadini, la sovranità si disfa da sola proprio perchò non più in grado di garantire la sicurezza, obiettivo per cui era stata creata. Quindi Hobbes con le sue idee ha fondato il nucleo teorico dell’ assolutismo affermando due cose: 1 ) che non esiste alcun diritto prima della costituzione dello stato civile: nello stato di natura, infatti, vige il diritto del più forte e ciascuno è nemico di tutti ( homo homini lupus, dice Hobbes riprendendo le parole di Plauto ): lo Stato civile, per severo e intransigente che possa essere, è l’ unica vera fonte del diritto e così come fornisce ai cittadini alcuni diritti può anche sottrarglieli senza dover rendere loro conto ( dovrebbe se questi diritti esistessero a monte dello Stato civile ); se Hobbes ragiona nell’ ambito dello stato naturale, come dice Bobbio, lo fa solo per poter parlare del giuspositivismo in modo che tutti possano comprendere. 2 ) Le modalità del contratto sociale previsto da Hobbes sono il fondamento stesso dello Stato assoluto: il fondamento dello Stato per Hobbes è il consenso ( e per questo egli non risultava troppo gradito alla monarchia ); ma il contratto per Hobbes non viene stipulato tra il futuro sovrano e tra i futuri sudditi, come dirà invece Locke: per Locke, essendo stipulato tra sovrano e sudditi, entrambi hanno dei doveri e nel momento in cui il sovrano o il popolo li trasgrediscono si devono prendere provvedimenti ( se li trasgredisce il sovrano il provvedimento è la guerra civile ). Ma nella concezione hobbesiana, a stipulare il contratto sono solo i cittadini, che decidono di privarsi di tutti i diritti per garantirsi quello alla sicurezza: il futuro sovrano non stipula alcun contratto, egli si limita a raccogliere dei diritti abbandonati senza stipulare contratti; non avendo stipulato un contratto, egli non deve sottostare ai dettami di tale contratto, ai quali invece debbono obbedire i sudditi che l’ hanno stipulato. Ecco allora che il sovrano è assoluto ( dal latino absolvo ), ossia slegato dagli obblighi che invece hanno i cittadini semplicemente per il fatto che lui non ha siglato alcun contratto, ma ha raccolto i diritti di cui il gruppo si è privato e gli ha ceduto affinchò lui, col suo potere smisurato, garantisca loro il diritto alla sicurezza: ed è l’ unica cosa che il sovrano deve garantire, tutto il resto dipende dal suo arbitrio. Il fatto che il sovrano sia svincolato da ogni dovere porta Hobbes a proclamare il divieto di ribellione: il sovrano, proprio perchò non l’ ha stipulato, non potrà mai rompere il contratto e ogni suo atto i sudditi devono considerarlo come se compiuto da loro stessi visto che essi hanno volontariamente delegato a lui i loro diritti. La ribellione sarebbe una contraddizione logica al pari di quando si manda qualcuno a rappresentarci in un’ assemblea di condominio e noi ci opponiamo alle scelte da lui prese: gli abbiamo delegato il nostro potere e il suo volere è quindi il nostro volere. Quando il sovrano fa qualcosa è come se lo stessi facendo io suddito che gli ho affidato il potere di mia iniziativa. Ribellarsi è una contraddizione logica: è come fare un qualcosa e non voler farlo. L’ opera più famosa di Hobbes, in cui egli esprime tutte le sue teorie politiche è il Leviatano, che prende il nome da un mostro mitologico dell’ Antico Testamento; è interessante notare che oltre al Leviatano, Hobbes scrisse un’ altra opera ( meno famosa ), intitolata Behemoth: anche Behemoth è un mostro biblico, però, a differenza di Leviathan, è fortemente negativo e simboleggia la ribellione che, come detto, per Hobbes è una contraddizione logica: quindi Behemoth, la ribellione, è un mostro distruttivo, che va assolutamente vinto. Il Leviatano, titolo dell’ opera, non è altro che lo Stato stesso: nel frontespizio della prima edizione dell’ opera compare un curioso disegno: un grande uomo con la corona sul capo che è a sua volta composto da tanti piccoli omini; lo Stato per Hobbes non è altro che un insieme di corpi e, poichò il corpo è spiegabile in termini meccanicistici, così deve essere spiegato anche lo Stato ( che è un insieme di corpi, un corpo gigante composto da corpi piccoli ): ricordiamoci che Hobbes è riduzionista. Lo Stato, ossia l’ aggregazione dei cittadini, viene presentato come un mostro positivo, come un ” Dio in terra “: lo Stato è quella realtà , spiega Hobbes, dalla quale, subito dopo Dio, ci si devono aspettare i beni maggiori: è un vero e proprio Dio sulla terra. Ciò non toglie che questo Dio terreno venga presentato come un mostro, dipinto cioò in termini ambigui: è sì la realtà da cui ci si devono aspettare grandi beni, ma lo è proprio perchò dotato di potere immenso ( i cittadini gli cedono tutti i loro diritti ) e Hobbes non può nascondere che sia comunque un qualcosa di aggressivo e terribile. Ma il fatto che sia terribile non implica che debba essere evitato: è e rimane l’ unico mezzo per non piombare nello stato di natura, dove vige il diritto del più forte. Questo spiega, tra l’ altro, perchò Hobbes apprezzasse un “rivoluzionario” come Cromwell: ciò che conta è che ci sia un potere forte, non importa di qual natura: il potere valido è quello che c’ è, purchò sia potente e purchò ci sia.
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- Filosofia - 1600