I Longobardi - Studentville

I Longobardi

Storia e cultura del popolo dei Longobardi.

Origini

Intorno al 30 a.C., un popolo scandinavo proveniente dalla mitica Scoringia -identificabile forse con un'isola dell'arcipelago danese- si insediò in una landa della Bassa Sassonia, nota a quel tempo con il nome di Mauringia. In quella regione (l'attuale Mohringen) e, più precisamente nel distretto che dal nome di questo popolo fu detto Bardengau, sono conservati dei toponimi (ad es. Bardenwic, l'attuale città di Bardowiek) e sono state portate alla luce molte testimonianze archeologiche che gettano un fascio di luce sulle prime fasi della storia dei Langobarden. Sulla base di questi reperti e sulla scorta delle fonti latine si è evinto che i bellicosi Longobardi, oltre a prediligere le alabarde alle spade, vivevano in villaggi non fortificati e si sostentavano grazie all'allevamento delle greggi. "Celebri per il loro scarso numero", come ricorda lo storico Tacito, erano forse alleati o forse tributari della grande confederazione dei popoli svevi, né ciò impediva loro di arricchirsi grazie ai commerci dell'ambra e delle pellicce scandinave o di importare dall'Impero manufatti in vetro e in metallo o di essere remunerati con monete romane d'oro e d'argento.

I loro rapporti con Roma non si limitavano tuttavia ai commerci: sembra infatti che, al tempo della guerra marcomannica (170 d.C. circa), bande sparse di guerrieri longobardi abbiano preso parte ai saccheggi e alle razzie dei Sarmati e dei Germani in territorio romano. Risalgono inoltre a quell'epoca la partenza di parte del popolo longobardo dalle sue sedi in Mauringia e il momento in cui il Bardengau passò sotto il controllo dei Sassoni: furono dunque stabiliti a quel tempo quei rapporti tra le due genti attestati dalla presenza di 20 mila Sassoni nelle schiere del re Alboino e dalla partecipazione dei Longobardi del Bardengau all'invasione sassone dell'Inghilterra.

L'itienerario seguito dai Longobardi nell'Europa centrale c'è noto in parte grazie alla testimonianza di Paolo Diacono: solo alcune delle regioni citate dal diacono cividalese (come il Banthaib,corrispondente con ogni probabilità all'attuale Boemia, e il Vurgundaib, sito tra l'Oder e l'Elba centrale) sono infatti individuabili con una certa approssimazione. L'epoca della grande migrazione longobarda fu contrassegnata, a quanto pare, da due eventi: la guerra con i Bulgari, in cui si devono individuare gli Unni (siamo dunque agli inizi del V secolo), e l'ascesa al trono di Agelmund, il primo dei re longobardi.

Sotto il profilo storico, la permanenza, databile tra il 470 e il 526, dei Longobardi in Boemia segnò il loro ingresso nella grande politica e, in particolare, nella sfera degli interessi bizantini: essi ricevettero, infatti, nel 488, l'apporto dei Rugi, nemici di Odoacre e alleati di Bisanzio, ed entrarono in conflitto, nel 508, con gli Eruli, alleati del re ostrogoto Teodorico e nemici dell'Impero d'Oriente. Da un punto di vista archeologico, una serie di scavi effettuati nella regione del Tullner Feld ha evidenziato, da un lato, il passaggio dalla cremazione all'inumazione (secondo una tendenza, diffusasi già nel IV secolo nel mondo barbarico) e, dall'altro, l'esistenza di stretti legami con i Sassoni e con i Turingi dell'Elba. Va segnalato infine che le tombe longobarde del Tullner Feld risultano esser state depredate intorno al 530 dagli Slavi.

Il passaggio dei Longobardi in Pannonia (526) coincise con la morte del re ostrogoto Teodorico: si può dunque supporre che essi abbiano approfittato della crisi politica in cui versava il regno d'Italia per sottomettere un popolo alleato degli Ostrogoti: gli Svevi stanziati nei pressi del lago Balaton. Resi più numerosi dai residui dei popoli vinti (Rugi, Eruli, Svevi), i Longobardi poterono assicurarsi nel 552 l'alleanza della corte di Bisanzio: questa, incapace di intervenire militarmente nel Settentrione, era infatti solita versare un tributo a quei barbari cui riconosceva nominalmente il diritto di insediarsi nelle ex-province dell'Impero romano. Nondimeno, temendo la potenza dei nuovi venuti, l'imperatore bizantino Giustiniano pensò bene di imporre loro la pace con i loro vicini, i Gèpidi, e di arruolarli come mercenari nelle armate imperiali impegnate in Italia e in Oriente: quasi seimila Longobardi andarono dunque ad ingrossare l'esercito, formato da Eruli, Gepidi e Unni, che il generale Narsete schierò in Italia contro gli Ostrogoti. Durante la feroce guerra greco-gotica, il comportamento oltraggioso dei Longobardi, i quali, a detta dello storico bizantino Procopio, "appiccavano fuoco a qualsiasi costruzione e violentavano le donne rifugiatesi nei santuari", valse loro un congedo anzi tempo, un ben servito in denaro, ed una scorta bizantina che li accompagnò fino ai confini dell'Impero. Al tempo stesso, i Longobardi -che, come si è detto, avevano prestato servizio anche nelle guerre contro i Persiani ed erano presenti alla corte imperiale di Costantinopoli- ebbero in questo modo un assaggio dell'Italia e delle caratteristiche belliche dei Romani d'Oriente.

La presenza dei Longobardi in Pannonia è ben documentata grazie ad una serie di scavi sistematici, che, a partire dal 1960, hanno portato alla luce ben 30 necropoli. Da esse proviene un gran numero di testimonianze archeologiche che hanno consentito agli studiosi di tracciare un quadro piuttosto completo della vita sociale e religiosa di questo popolo.

Dall'analisi degli scheletri si è potuto quindi appurare che i Longobardi, -suddivisi in duces (capi delle "fare"), arimanni (baroni guerrieri), faramanni (giovani o poveri liberi), aldiones (semiliberi) e skalks (schiavi)-, erano ben lungi dall'essere etnicamente omogenei: mentre i nobili erano certamente individui nordici cromagnonidi appartenenti al gruppo sanguigno "A" (quello dei "veri" Germani), gli aldiones e le donne di entrambe le categorie sociali erano probabilmente dei provinciali romanizzati. Oltre a dimostrare l'esistenza di matrimoni misti e la fusione non discriminata delle varie etnie, tali analisi hanno permesso anche di individuare l'età media (30/ 35 anni) e la dieta standard dei Longobardi: una dieta a base di carne (di montone, capra, pollo, mucca e maiale), di latte e di cereali. Dal rinvenimento di sepolture di cavalli e di cani segugi si è potuto stabilire che, oltre all'allevamento, essi erano dediti alla caccia, mentre le iscrizioni runiche sugli spilloni e la presenza nelle tombe di offerte di cibo sono valse a dimostrare che il popolo era ancora in larga misura pagano. A quanto pare, solo i nobili avevano abbracciato, per motivi di convenienza politica e come mezzo diplomatico, il cristianesimo ariano. Non va taciuta infine la presenza nelle città romane della Pannonia (ad es. a Scarbantia, l'odierna Sopron) di case rudimentali costruite sopra -o dentro- degli edifici preesistenti, di tombe scavate negli anfiteatri, di ville fortificate romane trasformate, a quanto sembra, nelle capitali dei duces barbari.

Alla fine della guerra greco-gotica (561) Bisanzio, assicuratasi a fatica il controllo della penisola italiana, era diventata confinante sulle Alpi con i Longobardi. Costoro, cinque anni più tardi, approfittando della morte di Giustiniano (novembre del 565) e dei molteplici impegni militari del suo successore, Giustino II, attaccarono i Gèpidi del re Cunimondo, dopo essersi assicurati l'alleanza degli Avari. Per quanto la vittoria sui Gèpidi (567) spetta invero ai soli Longobardi, il loro re Alboino dovette cedere agli alleati quanto era stato pattuito: la Gepidia, la metà del bottino e la decima parte del bestiame del suo popolo. Nella primavera dell'anno seguente, i Longobardi si misero in marcia alla volta dell'Italia e tale decisione è ascritta da Paolo Diacono ad una vendetta del destituito luogotenente Narsete contro i suoi avversari politici alla corte di Bisanzio. Secondo il Christie, è invece più verosimile che lo stanziamento dei Longobardi nell'Italia settentrionale rientrasse tra le clausole di un accordo confederale con i Bizantini, i quali, all'indomani delle devastazioni della guerra contro gli Ostrogoti, avevano interesse a ripopolare il Norditalia e a consolidarne le difese.

Dunque, a partire dalla Pasqua del 568, 150.000 individui (un termine di confronto è rappresentato dagli Ostrogoti di Teodorico, i quali non superavano le cento mila unità), penetrarono in Italia, probabilmente attraverso i valichi alpini posti a nordest di Cividale. Il re longobardo Alboino guidò l'avanzata del suo popolo dalle Alpi Giulie a Milano lungo la via Postumia e si impadronì in breve tempo di una sottile fascia di territorio dalla quale erano esclusi alcuni importanti centri padani come Padova e Monselice. Qualunque fosse stata la loro intenzione, i Romani d'Oriente, impegnati a combattere gli Avari nei Balcani e i Persiani in Oriente, non poterono in pratica che servirsi del loro oro per "convertire" alla causa di Bisanzio i duchi invasori e per garantirsi l'aiuto dei Franchi. Neppure l'assassinio di re Alboino, ordito a quanto pare a Bisanzio, potè mutare il corso degli eventi: così, mentre dopo 3 lunghi anni di assedio cadeva la città di Pavia, gli assalti dei Franchi da nord lungo la valle dell'Adige venivano fermati dal conte de Lagare Ragilo e dal duca di Trento Ewin. Alla fine solo la configurazione della penisola potè garantire ai Bizantini il mantenimento di qualche precario punto d'appoggio in Italia: non per questo i Longobardi poterono espandere senza difficoltà il loro dominio: Cremona, Mantova e Padova si arresero solo nel 601-602 e Oderzo cadde in loro possesso soltanto ai tempi del re Rotari (636-652).

Intanto, gli Slavi, che nel 591 avevano risalito la valle superiore della Drava e del Gail, si erano assicurati il controllo delle regioni a nord-est del regno longobardo. Per far fronte alla loro minaccia, in un primo momento, i duchi longobardi del Friuli Tasone e Caco stabilirono una testa di ponte nella Carinzia slovena. Ma il consolidarsi del predominio avarico sugli Slavi rese la situazione ancor più pericolosa: tra il 610 e il 611, alla testa delle orde slave, il khagan avaro Bayan saccheggiò il Friuli. Una nuova incursione slavo-avara del ducato ebbe luogo intorno al 665 su invito del re longobardo Grimoaldo intenzionato a punire l'infedeltà del duca friulano Lupo. Grimoaldo è noto anche per aver provveduto allo stanziamento nell'attuale Molise dei Bulgari del duca Alzeco, i quali erano presenti in Italia probabilmente come federati di Bisanzio. Per quanto concerne il Friuli, non va dimenticato che nel 690, ai tempi del re Cuniperto, il conte di Ragogna Ansfrit rimosse il duca del Friuli Rodoaldo e minacciò il re, senza poter realizzare i suoi propositi. Infine, sappiamo che il ducato resistette alla conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno (774).

I Longobardi in Italia

Dopo le stragi e le devastazioni della guerra greco-gotica, in cui, secondo lo storico Procopio, avrebbero perso la vita 15 milioni di Italiani, l'imperatore d'Oriente Giustiniano pensò bene di promulgare nel 554 la "Pragmatica sanctio", un documento con cui, oltre a definire i rapporti di diritto privato, a fissare pesi, monete e misure e a trasformare i vescovi (di fatto gli unici detentori del potere nelle città) in funzionari imperiali, imponeva in Italia nuove tasse e nuovi balzelli. Attenendosi dunque alle direttive imperiali, durante i suoi dieci anni di governo in Italia (555-567), il generale Narsete intervenne sistematicamente nelle questioni religiose (non ultima l'elezione del papa), diede vita ad un'estesissima rete di dazi e vincolò l'agonizzante economia della penisola al minuzioso controllo delle autorità di Bisanzio.

Questo era dunque lo scenario in cui apparvero i Longobardi, "la più feroce delle genti germaniche". Premuti dagli alleati Avari, con i quali avevano abbatutto la potenza giapidica, i Longobardi si erano trovati costretti ad abbandonare le loro sedi in Pannonia. Entrati in Italia nel 568, essi riuscirono a impossessarsi della penisola solo dopo sette anni di saccheggi e di devastazioni, di pestilenze e di scontri con i Bizantini. I duchi longobardi irradiarono in ogni direzione le orde dei conquistatori mentre all'imperatore d'Oriente non restava altro che istituire il distretto militarizzato (l'"Esarcato") di Ravenna e sfruttare l'inimicizia tra i Franchi di Chilperico e Childeberto II e i Longobardi.

Dopo le uccisioni di Alboino e del suo successore Clefi (574), vi fu un periodo decennale di anarchia aggravato dalle ripetute discese dei Franchi in Italia (584-590). Tali spedizioni furono tuttavia respinte o con la forza militare o con le astuzie diplomatiche dal nuovo re longobardo Autari. Costui riuscì ad assicurarsi il controllo dei valichi alpini attraverso il matrimonio con Teodolinda, la figlia del cattolico duca di Baviera e, con il favore della nuova regina e grazie all'intensa opera di proselitismo promossa da papa Gregorio Magno e attuata da Colombano (il fondatore dell'abbazia benedettina di Bobbio presso Piacenza), favorì la conversione in massa al cattolicesimo dei Longobardi ariani (603).

Dopo alcuni decenni particolarmente oscuri -sono gli anni in cui avrebbe avuto luogo l'incursione degli Avari in Friuli-, salì al trono Rotari (636-652), il re noto per aver esteso il regno longobardo e per aver promulgato, nell'ottobre del 643, l'Edictum Langobardorum. Dopo la sua morte (652) e la fine di una lunga guerra intestina, ascese al trono Grimoaldo, già duca di Benevento. Il suo regno fu caratterizzato da una lunga serie di conflitti contro i Franchi e contro l'imperatore d'Oriente Costante II (663), il quale, sbarcato in Italia e vinto più volte dai Longobardi, si accontentò in pratica di spogliare la città di Roma e di gravare di tasse le terre (Calabria, Sicilia e Sardegna) che erano ancora soggette a Bisanzio. Il re longobardo dovette anche intervenire contro gli Avari che erano penetrati su suo invito in Friuli per combattere contro un duca ribelle.

Dopo l'uccisione di Grimoaldo, salì al trono Pertarito (671-688), sotto il cui regno avvenne la conversione al cattolicesimo dei Longobardi di Benevento. Due lunghe guerre civili portarono quindi al potere dapprima Cuniperto (698-700) e poi Liutprando (712-744) il quale approfittò delle controversie tra il Papato e gli imperatori bizantini "iconoclasti" per assalire per ben tre volte i domini della Chiesa: va ricordato a tale proposito che alle pressioni politiche e fiscali di Bisanzio e ai tentativi degli imperiali di arrestarli, i papi Gregorio II e Gregorio III avevano risposto con l'istituzione di proprie milizie, con la creazione di borghi fortificati alle porte dell'Urbe e con la stipula di una serie di trattati ora con i duchi longobardi di Spoleto e di Benevento, -da sempre recalcitranti al potere dei re longobardi-, ora con il "subregulus" (maggiordomo) franco Carlo Martello.

Una politica di accordo con il papato fu tentata invece dal successore di Liutprando, Ratchis (744-749), che, sconfessato per le sue donazioni alla Chiesa, fu però costretto al ritiro nell'abbazia di Montecassino. Ben diverso dal suo predecessore, il nuovo re Astolfo (749-755) si mostrò da subito risoluto a stabilire con le armi il primato dei Longobardi nella penisola: conquistò l'Esarcato bizantino di Ravenna, ridusse in suo potere il Ducato di Spoleto e impose un gravoso tributo al papa Stefano II, che, conscio delle limitate capacità d'intervento di Bisanzio, credette opportuno rivolgersi ai Franchi (754).

La discesa in Italia del "maggiordomo" Pipino detto "il Breve", subito incoronato illegittimamente re con il consenso della Sede apostolica, troncò le velleità espansionistiche di Astolfo (755) che fu costretto a cedere Ravenna e a non molestare più il Papato.
Fu il nuovo re Desiderio a rinnovare il contrasto con il papa (artefice di un'alleanza franco-papale-spoletina-beneventana contro il regno longobardo), mentre in Francia a Pipino succedevano i figli Carlo e Carlomanno. La riunificazione del regno franco alla morte di quest'ultimo (771), il ripudio da parte di Carlo della moglie Ermengarda, che era figlia del re Desiderio, l'assalto longobardo ai domini di Adriano I (772) e, infine, la vittoriosa discesa dei Franchi nella penisola (773-774) segnarono, com'è noto, tra viltà, tradimenti e diserzioni, la fine del superbo dominio dei Longobardi in Italia.

I Longobardi: il dominio

Ogni discorso sullo stato giuridico dei Romani d'Italia deve partire dalla premessa che essi non erano considerati un "popolo" e che, non a caso, quelle fonti dell'epoca longobarda che accennano ai liberi "Romani" alludono sempre ed inequivocabilmente ai Romani d'Oriente, ai Bizantini. Per i Longobardi, il "popolo" era identificato infatti con l'"esercito", l'"uomo libero" con il "guerriero": stando così le cose, non esisteva in Italia un altro popolo che non fosse il loro. Le genti italiche sottomesse costituivano pertanto una semplice "classe" del popolo dominante: quella degli "aldi", individui liberi (e non sempre totalmente) nella persona, privi di diritti politico-militari e con limitata capacità giuridica.

Se si considera quindi la fondamentale importanza del privilegio di portare le armi, si può facilmente comprendere come, nella mentalità longobarda, l'acquisizione dei pieni diritti da parte di un aldo corrispondeva inevitabilmente alla sua ammissione tra i "militari", una possibilità attestata solo a partire dall'VIII secolo quando ad alcuni aldi fu concesso il rango di "exercitales" (si noti, non di arimanni). La condizione degli aldi meno fortunati non doveva essere invece diversa da quella dei coloni del tardo-impero: progressivamente essa divenne sempre più simile a quella degli schiavi. Per quanto riguarda quest'ultimi, fatta salva la differente considerazione cui erano soggetti gli schiavi del fisco (fiscalini) e quelli ministeriales (gli uni e gli altri di proprietà del re) o i semplici schiavi casati, è indubbio che, sotto l'influenza cristiana, essi si videro riconoscere dai re Liutprando e Ratchis delle importanti tutele legislative.
Il punto d'incontro tra il miglioramento dello status degli schiavi e lo svilimento della condizione degli aldi-coloni sarà rappresentato dalla servitù della gleba, destinata ad affermersi in Italia pochi anni dopo la caduta del regno longobardo.

Tradizioni

Benché, praticassero il culto di altre entità soprannaturali come ad es. gli Elfi (Alfar), i Germani veneravano due gruppi principali di divinità, gli Asi, -connessi in genere con la magia, l'atmosfera e il furore bellico- e i Vani, protettori della ricchezza, della pace, del piacere e della fecondità. La suprema triade germanica era composta, nell'ordine, da due numi Asi (Odhinn e Thor) e da una divinità dei Vani (Freyr). Tale triade riflette, a detta degli studiosi, la tripartizione in "sacerdoti-guerrieri-agricoltori" tipica delle società indoeuropee. Si può dire inoltre che l'associazione delle prime due divinità in opposizione alla terza figura divina appare riscontrabile tanto in India che in Persia (Mithra, Indra, Nasatya) o a Roma (Giove, Marte, Quirino). Anche la guerra che Odhinn e gli Asi combatterono contro i Vani prima di accordarsi con loro è assimilabile ad altri conflitti tra esseri divini superiori, magici, "folgoranti", e numi inferiori, donatori di ricchezza e di prosperità, documentati nei testi sacri delle culture indoeuropee, ad es. nel poema indiano "Mahabharata".
Il dio principale del pantheon germanico era Odhinn-Wodan, il re degli dei protettore delle stirpe reali (i goti Amali e i dinasti sassoni dell'Inghilterra). Attorniato da bersekir feroci come lupi e da valkyrior che trasportano i guerrieri caduti in battaglia, Odino era un nume-mago che beveva l'idromele del canto poetico e della saggezza, che si era privato di un occhio per acquisire l'onniscienza e che, appesosi ad un albero, si era sottoposto ad una dura iniziazione per conoscere il segreto delle rune. Era un essere divino infido e terribile capace di trasformarsi in uccello, fiera, pesce o serpente e di rendere ciechi o sordi i nemici in battaglia. Era un dio, -amico dell'astuto e immorale demone Loki-, pronto a tradire i suoi fedeli, a seminare la discordia e ad esigere sacrifici umani.

Secondo per importanza, Thorr-Dunar, il sovrano dell'atmosfera, era invece il dio-guerriero che proteggeva l'assemblea del popolo in armi (thing). Era un dio monco fortissimo dalla barba rossa e dall'appetito prodigioso, che, armato di un maglio possente (mjo"llnir), aveva ucciso il mostruoso Hrungnir, un gigante di pietra dai tre corni comparabile ai mostri tricefali uccisi dall'indiano Indra, dal persiano Feridun e dal greco Ercole.
Infine, per tacere degli dei minori, Freyr, era un dio della fecondità che i Germani invocavano con canti licenziosi e raffiguravano spesso "cum ingenti priapo" accanto a Freyja, la dea della poesa amorosa.

La principale fonte per la conoscenza delle tradizioni longobarde è rappresentata dall' "Historia Langobardorum" di Paolo Diacono, un testo che, nel complesso, è molto avaro di informazioni "non filtrate" sulle tradizioni etniche della stirpe longobarda: infatti il diacono cividalese, per inserire la storia del suo popolo nell'ambito della tradizione storiografica romana, ha proceduto ad un'accurata selezione degli episodi della cultura longobarda, alla razionalizzazione delle sue saghe, all'eliminazione di quei miti e all'omissione di quegli avvenimenti che potevano sembrare troppo esplicitamente pagani. Altre informazioni possono esser tratte anche dall'Editto (643) con cui il re Rothari procedette, al tempo stesso, alla codificazione delle leggi e alla conservazione degli usi, delle norme (cawarfidae) e dei costumi longobardi, e dal catalogo "Origo gentis Langobardorum" (VIII sec.) che funse poi da premessa all'Editto. Ciò nonostante, alcuni elementi relativi agli ordinamenti primitivi e agli usi tribali di questo popolo contenuti nei testi sopracitati appaiono inequivocabilmente importanti sotto il profilo etnografico e sotto quello antropologico. Con complesse analisi gli studiosi hanno potuto far affiorare da esse i residui di antiche saghe e leggende longobarde.

In particolare alcuni capitoli dell'Historia relativi alle origini della stirpe longobarda si prestano ad una serie di analisi e di comparazioni con i risultati acquisiti dalla tradizione storiografica indoeuropeistica e germanistica. Ora, gli studi di Georges Dumézil hanno messo in luce come nei miti di fondazione o di migrazione dei popoli indoeuropei rivesta un ruolo di primaria importanza una coppia di fratelli / gemelli semidivini. Dei due fratelli uno, immortale, appare legato alla sfera guerriera, mentre l'altro, mortale, risulta spesso in rapporto con l'attività agricola. Quest'ultimo aspetto, ammantato di una componente più prettamente religiosa, è presente anche nella figura femminile che di solito si aggiunge ai due fratelli. L'equivalente longobardo di questa triade, -in cui si riflette, secondo Dumézil, la tripartizione della società indoeuropea in guerrieri, agricoltori, sacerdoti-, è rappresentato dalla coppia Ibor e Aion, cui si affianca la madre dei due giovani condottieri, la sacerdotessa Gambara. Costei -che in un testo tardo, l' Historia Langobardorum cod. Goth. (IX sec.), è detta "profetessa"-, rappresenterebbe quindi la funzione mantico-religiosa mentre ad Aion, il capostipite dei re longobardi, e ad Ibor, il fratello mortale che non dà origine ad alcuna stirpe, si pensa di poter attribuire rispettivamente la funzione guerriera e quella connessa all'agricoltura. Tenuto conto degli strettissimi rapporti tra i due popoli dei Longobardi e dei Sassoni, si ritiene quindi di poter desumere degli ulteriori elementi dalla saga degli omologhi sassoni di Ibor e Aion: Horsa e Hengest. Dei due, Horsa che ad un certo punto del mito scompare, sarebbe l'equivalente di Ibor, mentre Hengest, figura-chiave della leggenda relativa alla conquista sassone della Britannia, corrisponderebbe al "guerriero" Aion. Nell'ambito sassone, i fratelli Horsa e Hengest, sono detti figli di Wotan/Odino ed è quindi probabile che ciò valesse anche per i due condottieri longobardi. Non è tutto: il ruolo del dio della vittoria bellica risulta determinante anche in quello che si configura come il mito di genesi della stirpe longobarda. Si tratta del celebre episodio, -stigmatizzato da Paolo Diacono come "una ridicola favola di Godan e Frea" (Hist. Lang., I, 8)- in cui Gambara prega la moglie di Odino, Frea, di intercedere affinché il dio concedesse ai suoi figli una vittoria sugli aggressori Vandali. Dopo questa vittoria, i giovani guerrieri al seguito di Ibor e di Aion assumono quindi il nome di Longobardi ma sono costretti da una carestia ad abbandonare le loro sedi nella mitica Scoringia. "E' certo -scrive Paolo (I, 9)- che i Longobardi, che prima erano chiamati Winnili, poi furono denominati Longobardi, perché le loro lunghe barbe non erano mai state toccate dal rasoio. Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bart barba." Quello che lo storico non dice è che il nome Langobardi pare riconducibile alla sfera del culto di Godan/ Odino e in particolare all'epiteto del dio, Langbadhr ("dalla lunga barba"). Il mito riveste dunque un profondo significato iniziatico: l'acquisizione di una nuova identità, l'adozione del culto odinico -o meglio l'adozione del popolo da parte del dio-, l'abbandono dello stadio di popolo sedentario, il passaggio all'età adulta (con la conseguente adozione di una nuova acconciatura: la barba) da parte di giovani che, -come scrive Paolo Diacono- "erano allora nel fiore della loro vitalità".

L'importanza del culto di Wodan/ Odino – una divinità guerriera quanto mai utile nel corso di migrazioni che implicavano un continuo stato di guerra – traspare anche in un altro episodio della saga. Narra Paolo Diacono che, nell'imminenza di uno scontro con gli Assopitti che sbarravano loro il cammino verso la Mauringia, i Longobardi escogitarono il seguente stratagemma: finsero di avere nelle loro fila dei guerrieri con la testa di cane, ferocissimi in battaglia e a tal punto avidi di sangue umano da bere il proprio sangue quando non potevano procurarsi quello dei nemici. Per asseverare la loro menzogna essi ingrandirono dunque le tende del loro accampamento e le illuminarono con un gran numero di fuochi. "Quando i nemici ebbero visto e sentito queste cose, non osarono ingaggiare la battaglia di cui prima li avevano minacciati". Chi erano i feroci combattenti che Paolo Diacono designa con il nome greco di "cynocephali"? Erano probabilmente dei guerrieri -assimilabili ai bersekir e agli ulfhedhnar vikinghi vestiti di pelli d'orso o di lupo- che indossavano a scopo rituale una maschera totemica a forma di testa di cane. Erano guerrieri votati al culto di Odino che combattevano, in una sorta di trance, con tale invasamento da compiere gesta sovrumane e da sentirsi mutati negli animali infernali che accompagnavano Odino nella wilde jagd (la caccia selvaggia), una sorta di processione dei morti rievocata nella "festa di mezzo inverno" germanica. E' dunque interessante notare come nel corso di questa festa, attestata nel Nordeuropa ancora nel medioevo, avessero luogo dei giochi e dei combattimenti i cui partecipanti erano travestiti da fiere. Alla luce di queste considerazioni e sulla scorta del passo in cui lo storico Tacito attribuisce ad alcuni Germani il costume di combattere mascherati da spettri, sembra quindi sintomatico che il nome Winnili, che designava i Longobardi prima del loro esodo dalla Scandinavia, possa esser tradotto come "cani folli, indemoniati". Non paiono inoltre di scarso rilievo la considerazione che, in quanto combattenti votati ad Odino, i Longobardi siano citati nelle saghe nordiche come Hundinge (da hund cane da caccia) o il riscontro che il nome della stirpe regale longobarda dei Gungingi derivasse da quello della micidiale lancia del dio ("gungnir"). In definitiva, ci troveremmo di fronte ad una classe di guerrieri seguaci di un culto infernale-estatico-militare collegato ad Odino, ad una casta di combattenti simili a quelli menzionati nel poema epico "Ynglingasaga": "Gli uomini di Odino andavano senza corazza, selvaggi come lupi o cani. Mordevano i loro scudi ed erano forti come orsi o tori. Uccidevano gli uomini e né il fuoco né l'acciaio potevano nulla contro di loro. Questo si chiamava berserksgangrs".

Un altro aspetto tribale è quello relativo alla persistenza nella cultura longobarda dell'antropofagia rituale e dell'immolazione dei teschi agli dei. Il cannibalismo e la conservazione dei crani dei nemici -in particolare di quelli degli avversari più illustri- rappresentano, com'è noto, dei fenomeni ben attestati tanto presso le culture del passato che presso alcune genti "primitive" dei nostri tempi. Il "momento" antropofagico della cultura longobarda non appartiene però ai tempi mitici dell'origo ma si riferisce al regno di Alboin, il sovrano-eroe con cui si chiude l'età leggendaria delle migrazioni e ha inizio la fase "italiana" di sedentarizzazione. Racconta infatti Paolo Diacono di aver visto con i suoi occhi alla corte del re Ratchis il cranio che Alboin utilizzava come coppa per bere. Quel singolare tipo di coppa, detto in lingua longobarda "skala", era il cranio del re dei Gepidi Cunimond che Alboin aveva sconfitto e ucciso in battaglia. Del cannibalismo non c'è traccia nella narrazione di Paolo Diacono: l'avvenuta cristianizzazione dei Longobardi sconsigliava evidentemente di ritenere possibile che un simile rito avesse avuto luogo a corte. Tuttavia i confronti di tipo antropologico inducono a reputare certa l'esistenza presso i Longobardi di quelle pratiche rituali di tipo cannibalistico che appaiono peraltro ben attestate presso altri popoli germanici e sono esplicitamente menzionate nell'Editto di Rothari nei capitoli riguardanti le streghe (capp. 197-198).

Per quanto riguarda invece l'immolazione dei teschi, va ricordata la persistenza nell'Italia longobarda di un rito propiziatorio tipico dei popoli cacciatori del Nord. Si tratta della cerimonia in cui all'immolazione di una testa di capra erano connessi una danza molto veloce e un canto "nefandum". Il rito sembra poter esser ricollegato al mito di Thor/Donar riportato nel poema "Gylfaginning": il dio sfama sè stesso e i compagni con due capri di cui fa conservare le ossa e le pelli; poi con il suo martello (mio"llnir) consacra le pelli e resuscita i due animali. Non mancano infine altri riscontri di questa cerimonia sacra nel mondo germanico: le fonti latine ricordano ad es. come i crani dei cavalli dei Romani morti in battaglia nella Selva di Teutoburgo fossero stati ritrovati molti anni più tardi penzolanti dagli alberi della foresta.

Vale quindi la pena di soffermarsi anche sulla sopravvivenza dei culti pagani in seno ad un popolo convertitosi al cristianesimo. E' noto infatti, a tal proposito, che i primi due duchi longobardi di Spoleto erano pagani e che, ancora intorno al 660, persistevano nel ducato beneventano dei rituali tipicamente germanici. Nella "Vita del vescovo Barbato" si narra infatti che il duca di Benevento, benché ufficialmente cristiano, adorava di nascosto nel suo palazzo un idolo raffigurante una vipera e si racconta inoltre come, attorno ad un albero (forse una quercia consacrata al dio Thor/Donar) avesse luogo la seguente cerimonia: una pelle d'animale veniva stesa attorno all'albero sacro e, dopo una gara a cavallo, i partecipanti al rito facevano a pezzi la pelle e la mangiavano. Non mancano quindi i confronti con le tradizioni religiose del mondo germanico: l'adorazione degli alberi era praticata dai Franchi ancora pagani sotto il re Dagobert (morto nel 639) mentre è attestato che in Assia si veneravano le quercie sacre a Thor/Donar. E' noto poi che, nel 772, Carlo Magno abbattè l' "Irminsul" dei Sassoni (il quale non era a quanto pare un albero vivo ma un tronco) e come, ancora nel X secolo, nel bosco sacro di Uppsala in Svezia, venissero appesi i cadaveri di uomini e animali immolati a Odino. A tal proposito non va taciuto come, secondo il mito, Odino stesso si fosse impiccato ad un albero per acquisire la conoscenza magica delle rune.

Pratiche magiche, stregoneria: è possibile evincere dall'editto di Rothari il coinvolgimento della classe dirigente longobarda in credenze pagane relative alle streghe. Nonostante il legislatore assuma a riguardo una posizione assolutamente incredula, l'evidenza del fatto appare fuori discussione. Nel capitolo 376 dell'Editto, dove si sancisce la condanna di quanti uccidono una donna altrui -aldia o ancella che fosse- ritenendola una strega, è infatti scritto: "christianibus mentibus nullatenus credendum est nec possibilem ut mulier hominem vivum intrinsecum possit comedere". Nondimeno, nel passo seguente, il re Rothari contempla la possibilità che l'uccisore della "striga" potesse essere nientemeno che uno iudex ovvero un Longobardo di più alto lignaggio. Risulta poi di indubbio interesse il riscontro che nella legislazione dei Sassoni (un popolo di cui Gasparri sottolinea spesso l'affinità con i Longobardi) si intravveda la presenza di pratiche cannibalistiche a scopo magico e che a tali riti, -ma anche ai convegni stregoneschi e al ruolo svolto dagli aiutanti maschi delle streghe-, faccia riferimento in modo ancora più esplicito la legge Salica dei Franchi. Se si tiene conto dunque della persistenza di queste pratiche pagane anche presso gli Alamanni e i Visigoti, non sorprenderà che, per quanto condannata dal re almeno su un piano ufficiale, la fede nella stregoneria e nelle pratiche delle strigae "divoratrici di uomini" fosse oltremodo diffusa nella cultura dei Longobardi.

Solo alcuni decenni prima di Paolo Dacono, i Longobardi avvertirono l'improrogabile necessità di arginare e reprimere queste tradizioni rozze e primordiali. Il regno di Liutprand (713-735), -"rex christianus et catholicus" come egli volle definirsi- rappresenta infatti un momento di svolta in senso cattolico e in senso anti-pagano della società longobarda. I sintomi di tale mutamento risultano perspicui tanto nell'attività più specificamente politica del re, quanto nelle norme giuridiche da lui promulgate. Sul piano strettamente politico, Liutprand introduce per la prima volta delle disposizioni punitive nei confronti delle persone implicate nelle pratiche pagane; impone il divieto di consultare indovini, auguri e incantatori; sanziona gli adoratori di fonti e i cultori degli alberi sacri. Nel complesso delle sue leggi spiccano invece per importanza i privilegi accordati alle istituzioni religiose: sono norme che concernono la preservazione delle chiese da azioni violente (sancendo di fatto l'inviolabilità del diritto ecclesiastico), la stabilità delle donazioni ai luoghi sacri, la legittimità della liberazione dei servi affrancati "circa sacrum altarem". Le leggi da lui promulgate sulla tutela delle donne, sul matrimonio, sulla trasmissione ereditaria e sulla difesa dei minori e dei servi sono fortemente influenzate dai princìpi cattolici. L'attività riformatrice del sovrano deve essere però contestualizzata nell'ambito delle tendenze all'innovazione manifestatesi nella società longobarda nel corso del VIII secolo: trasformazioni di carattere sociale, ideologico, religioso e politico che miravano anche ad un superamento delle tensioni interne del Regnum.

Rotari e l'amministrazione della giustizia

Scritto in un latino rozzo e talora incomprensibile (appare evidente che il suo autore, incapace di stendere da sé un brano in latino, ricopia interi passi delle "Novelle" di Giustiniano e di altre fonti giuridiche), l'editto di Rotari è suddiviso in due parti: la prima comprende le antiche consuetudini longobarde, la seconda riporta invece le costituzioni introdotte dal re per far fronte alle nuove esigenze del suo popolo. Tali disposizioni sono raccolte in 388 capitoli, ai quali furono aggiunti in seguito i 153 capitoli delle leggi di Liutprando, i 14 capitoli delle leggi di Ratchis e i 22 capitoli delle leggi di Astolfo. I 388 capitoli relativi alle leggi di Rotari sono così suddivisi: reati politici (1-14), reati contro le persone (15-144), reati contro le cose (145-152); diritto familiare ed ereditario (153-226), diritti reali e obbligazioni (227-252); delitti minori (253-358); procedura (359-388).

Nella lettura del codice non può non stupire la rarità del ricorso alla pena di morte, comminata agli uomini liberi solo per pochi reati come la lesa maestà o il tradimento. L'unica forma di "pena" prevista per le altre colpe è il guidrigildo ovvero la riparazione, attraverso il pagamento di una somma che variava a seconda della condizione sociale dell'offeso, dei danni materiali e morali inferti con un reato. La tacitazione della vittima o dei suoi parenti era del resto indispensabile per preservare la comunità dalle vendette private: in più punti dell'Editto risulta evidente l'intento di Rotari di estirpare definitivamente le "faide": ad es. non sembra un caso che l'assalto a mano armata "per vendicare un'offesa" fosse uno dei pochi reati per cui era prevista la pena capitale. Per quanto riguarda invece l'entità dei guidrigildi, che nell'Editto è espressa in soldi aurei, è necessario tener conto dei documenti che ci consentono di valutare la capacità d'acquisto del soldo. In tal senso, va segnalato però che le nostre fonti, costituite soprattutto da contratti d'acquisto e da chartae di donazioni, si riferiscono quasi esclusivamente al mondo della pastorizia e dell'agricoltura e alle vendite di schiavi e di cavalli. Tenuto conto di questi limiti, si può dunque asserire senza scendere nei dettagli che tali valutazioni mettono in risalto, da una parte, il disvalore della terra e della vita umana e, dall'altra, il prezzo assai elevato dei cavalli: si possono citare a titolo d'esempio i documenti dai quali si evince che un oliveto era venduto per 8 soldi, un fanciullo per 12, un cavallo per 25! In quest'ottica, non sorprende quindi che il legislatore abbia valutato il taglio della coda di un cavallo quanto l'aborto traumatico di una schiava o che il tentato omicidio di un uomo libero equivalesse al prezzo di una schiava "con il proprio bambino". Tra i singoli aspetti della vita sociale delineati dalle leggi dell'Editto, meritano poi particolare riguardo le donazioni, ivi comprese le manumissioni degli schiavi (molto più rare, a quanto apprendiamo dalle fonti, nel caso degli schiavi dei monasteri e degli altri istituti ecclesiastici che nel caso degli schiavi dei Longobardi!), le credenze dei Longobardi (in alcuni capitoli si parla di streghe divoratrici di uomini e di erbe incantate) e le ingiurie, che, per evitare lo scoppio delle faide, erano punite duramente con un guidrigildo di 12 soldi.

Questo è in sintesi quanto si ricava dallo studio dell'Editto di Rotari. Si fornirebbe tuttavia un quadro incompleto della mentalità giuridica dei Longobardi, se non si desse cenno di due istituti tipicamente germanici: il giuramento e i "giudizi di Dio" (detti anche "ordalie"). Il primo istituto rappresentava in definitiva un tentativo di superamento della faida; i giudizi di Dio consistevano invece in prove -l'immersione dell'accusato nell'acqua fredda (se galleggiava era colpevole), l'estrazione di un oggetto dall'acqua bollente, la passeggiata su vomeri arroventati, l'esposizione del cadavere dell'ucciso (se le ferite riprendevano a sanguinare in presenza dell'imputato, questi era colpevole), la sospensione di un oggetto (la colpevolezza dell'accusato era certa se l'oggetto oscillava verso di lui)- con cui si indagava la volontà divina. La più cruenta delle ordalie era senza dubbio il duello, ovvero lo scontro in un campus tra due "campiones": in origine tale scontro era soltanto un modo concordato per dirimere una lite; con il tempo esso assunse invece le caratteristiche del giudizio di Dio, nel senso che l'esito dello scontro fu interpretato come un inconfutabile verdetto divino.

Per comprendere tali consuetudini, che preesistevano peraltro alla conversione dei Longobardi al cristianesimo, va considerato che i popoli germanici, incapaci di astrazioni razionali e alieni dalla formale ricerca delle prove, sentivano l'esigenza concreta di ricercare con mezzi magici il responso delle divinità. Le credenze superstiziose dei barbari furono quindi alimentate dalla Chiesa con la sua mitologia dei santi e con la sua certezza nell'intervento divino nelle cose terrene e non si può certo dire che gli uomini di fede abbiano scoraggiato tali pratiche: è noto ad es. che gli abati dei monasteri, nelle controversie con privati e comunità, non esitavano a far duellare i propri campioni i quali, vista la larghezza economica delle abbazie, erano sempre i più forti tra quelli disponibili sul mercato.

L'economia

Una densità demografica bassissima (un documento attesta la presenza di 63 contadini in un appezzamento che comprende 1400 ettari arativi e una selva in cui pascolano 7000 maiali!), terre in stato di abbandono, pestilenze, devastazioni, abusi e prepotenze padronali su cui tacciono i codici delle leggi: ecco il quadro dell'economia agricola italiana al tempo dei Longobardi.
A quei tempi, la proprietà terriera era concentrata nelle mani di due gruppi: i grandi guerrieri e i monaci delle abbazie. Né gli uni né gli altri coltivavano la terra e quindi, in assenza di manodopera schiavile (sempre più rara), i campi erano concessi in usufrutto ai semiliberi per un periodo di 29 anni: si evitava in questo modo il sopravvenire della prescrizione trentennale. Il patto tra proprietario e colono prendeva il nome di "livello" (libellus era detta la lettera con cui il primo pregava il secondo di concedergli la terra) e dal pregare che si faceva il contratto veniva chiamato "precaria". Oltre a versare all'atto del contratto, in natura o in denaro, il prezzo della concessione (launegild), il "livellario" era tenuto a corrispondere ogni anno vari canoni (census) e vari "donativi" e, come se ciò non bastasse, era sottoposto anche a prestazioni d'opera gratuite dette "angaria".

Il dominio rurale, signorile o monastico che fosse, comprendeva uno o più latifondi detti "corti" (curtes, corruzione del latino cohortes) e ogni curtis comprendeva a sua volta più campi chiamati "mansi". Il centro di raccolta della produzione dei mansi era costituito dalla corte in cui risiedeva il signore (la "curtis dominicata") e non c'è dubbio che tale sistema economico, detto curtense, fosse in generale bastante a sé stesso. Ai bisogni della vita quotidiana si provvedeva infatti con il baratto che rappresentava l'unica forma di scambio tra i ceti dominati. Si ha tuttavia motivo di supporre che, seppur in forma ridotta, esistesse, almeno per le classi dominanti, un'economia fondata sui commerci.

Le leggi del re Astolfo ricordano infatti la presenza di mercanti (negotiatores) liberi che provvedevano a soddisfare le esigenze dei signori longobardi e le necessità liturgiche delle chiese. Quel che è certo a tale proposito è che, ai confini del regno longobardo, esistevano delle chiuse (a oriente S. Pietro presso Zuglio, Aquileia, Cividale) in cui i negozianti erano tenuti al pagamento dei dazi.

Per quel che concerne il territorio, sappiamo che le "fare" (unioni di famiglie) o le "arimannie" (colonie militari di confine) disponevano sia di appezzamenti privati sia di terre comuni perlopiù destinate al pascolo. In questi pascoli comuni e nelle terre "pubbliche" incamerate dal re ma neglette o abbandonate perché marginali risorsero, sin dai primi tempi del dominio longobardo, delle comunità libere di carattere forse più morale e religioso che di tipo economico-sociale.
Furono probabilmente queste associazioni rurali, che si sostentavano grazie alla pastorizia praticata in pascoli comuni, a dar vita a quei saccheggi e a quelle violenze cui allude, nel suo Codice, il re Rothari. A queste comunità rurali, peraltro assai mai definibili, corrispondono nelle città delle corporazioni portate sull'orlo del tracollo dal fiscalismo romano, dalle scorrerie barbariche, dalla limitazione dei bisogni e dall'istituzione degli ergasterii bizantini: centri industriali che monopolizzavano la produzione abbassando i salari e alzando i prezzi.

Ugualmente monopolistico era il regolamento longobardo dell'industria e del commercio: a quanto pare solo alcuni lavoratori "ufficiali", sottoposti per giunta al controllo di un magistrato regio, erano autorizzati a svolgere determinate professioni. Molti di essi erano certamente degli schiavi, altri dei semiliberi (aldi). Continuavano ad esistere ciononostante delle associazioni che, secondo l'autore, ricordano per certi aspetti spirituali le corporazioni imperiali e che conservavano un contatto con la romanità attraverso il tenace attaccamento alle consuetudini e alle tecniche romane: non a caso, quando risorgerà in ambiente dotto, l'antico diritto romano, esso troverà un ambiente favorevole in Italia proprio grazie alla persistenza di questo substrato di cultura popolare.

Tra le varie associazioni merita di certo almeno un cenno quella dei "maestri comacini", una colleganza di operai edili, -originari forse del Comasco-, diretti, a quanto pare, da un sovrintendente-manager detto magister. Eredi delle tecniche costruttive degli antichi, i comacini continuavano ad usare tegole della misura standard dei Romani, sapevano voltare gli archi e, come i Romani, sapevano costruire muri e fornici alleggeriti da vasi. Preziose notizie sulle loro attività tecniche ci sono fornite dal "Memoratum de mercedibus magistrorum comacinorum" mentre da un altro scritto, del 787-816, intitolato le "Compositiones ad tingenda musiva, pelles et alia, ad deaurandum ferrum etc.", apprendiamo come le tecniche per la tintura di pelli, la fabbricazione di vetri colorati, la tintura di mosaici, l'estrazione e la preparazione di minerali, colori artificiali, pergamene, in uso nell'età longobarda si ricollegassero direttamente alla tradizione greco-romana.

Infine, per quel che riguarda le condizioni di vita della povera gente, dal testo di una donazione sappiamo il menu che una chiesa forniva ai poveri per tre giorni alla settimana: un pane fatto con una scodella di grano, due congi di vino, due congi di companatico, una focaccia di fave e panico condita con grasso animale o con olio!

La cultura

"Mandiamo costoro per obbedirti, non perché abbiamo fede nella loro dottrina. Come si può pretendere una dottrina teologica precisa in uomini che vivono tra barbari…?" Così scriveva all'Imperatore d'Oriente papa Agatone inviando dei messi a un concilio a Costantinopoli (679). E invero in quei tempi non c'era, anche per quel che attiene alla vita culturale, molto da rallegrarsi: esistevano alcuni centri di cultura "cancelleresca", tra i quali possiamo annoverare Roma, Pavia, Lucca e Verona, ed esistevano anche i monasteri (l'abbazia di Bobbio e quella di San Vincenzo al Volturno in cui erano attivi il monaco Giona e l'abate Ambrogio Autperto), dove, spesso in occasione delle traslazioni delle reliquie, venivano composte delle agiografie.

In termini generali, si può affermare che gli uomini di cultura del tempo, sia che appartenessero all'ambiente ecclesiastico, sia che operassero nelle cancellerie, perseguivano l'intento di contemperare la cultura classica e la religione, la scienza latina e greca e gli insegnamenti della Bibbia (come appare evidente nell'opuscolo di medicina in versi dell'arcivescovo di Milano Benedetto Crispo o nella "Cosmographia" dell'Anonimo Ravennate, basata essenzialmente su un itinerario stradale romano).

Se si eccettuano poi alcuni epitaffi in versi (dello svevo Droctulf, della badessa Cuniperga, di Maldegrina moglie del conte Rodoaldo o le "Tavole Chiusine" fatte incidere dal duca Gregorio per sé e la moglie Austreconda), la letteratura longobarda è rappresentata unicamente dall' "Origo gentis Langobardorum", un'opera -composta nella seconda metà del VII secolo e riportata in alcuni codici assieme all'editto di Rotari-, in cui si tenta di dare una veste latina ad un complesso di notizie storiche e leggendarie tramandate oralmente.

Per quanto concerne invece le arti figurative, bisogna partire dalla premessa di ordine generale che l'arte germanica subì gli influssi dell'arte dei Sarmati (influenzati a loro volta dagli Sciti), degli Unni (attraverso i quali giunsero in Occidente alcuni elementi dell'arte cinese) e dei Greci (Prisco parla di artisti ellenici alla corte di Attila). Va poi considerato che non è sempre facile distinguere tra i manufatti prodotti e quelli predati dai Longobardi, così come non è semplice discernere – se non per il fatto che nel le seconde prevale un uso più ricco dell'ornamentazione- tra le opere architettoniche edificate dai comacini (come la chiesa di San Pietro a Tuscania) e quelle (come San Salvatore a Brescia, Santa Maria delle Cacce a Pavia o la Pieve di Arliano) realizzate da maestranze barbarico-provinciali.

Paolo Diacono

Paolo Diacono fu il più insigne autore italiano dell'VIII secolo e il primo scrittore della penisola dal tempo di papa Gregorio (604 ca). Gli oltre cento manoscritti della sua "Historia Langobardorum" testimoniano la fortuna di cui egli godette nel Medioevo; il riscontro che, agli inizi dell'800, i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm trassero dalla sua opera storica una parte considerevole delle loro "Deutsche Sagen" attesta la sua importanza come fonte nell'ambito della moderna filologia germanica. Ma chi era Paolo Diacono? Forse un cortigiano che trovò rifugio nell'abbazia benedettina di Montecassino, forse -più probabilmente- un monaco benedettino che era amico di molti potenti.
Nato tra il 725 e il 730 a Cividale, Paolo ebbe modo di soggiornare a lungo a Pavia alla corte di due re, Ratchis (744-749) e Aistulf (Astolfo, 749-756), entrambi originari del Friuli. Fu forse in virtù di quelle relazioni che uno storico, il Goffart, designa con il nome di "Frioulan connections", che la sua carriera non si chiuse con la morte accidentale di Astolfo e con la sconfitta inflitta a Ratchis (757) dal nuovo re Desiderio: il duca di Benevento, il friulano Arichis, che era il cognato di Desiderio e -forse non a caso- omonimo del nonno e del fratello di Paolo, lo invitò alla sua corte. Come attestazione della sua riconoscenza, in occasione dell'inaugurazione della fortezza di Salerno, Paolo dedicò al duca un poema celebrativo e a sua moglie Adalperga un poema sui miracoli di S.Benedetto. Fu proprio la figlia del re Desiderio a commissionargli nel 763 un'opera storica in 16 libri, l'"Historia Romana". In quest'opera, Paolo estende la narrazione storica del suo modello, l'opera dello storico Eutropio, dal regno di Valentiniano I (364) fino ai tempi di Giustiniano (552) e, a ritroso, dalla fondazione dell'Urbe al mitico regno di Giano sul Lazio.

Nel 774 il regno longobardo fu invaso dai Franchi e l'anno seguente il fratello di Paolo Diacono, Arichis, il duca del Friuli Rodgaud e Adelchi, il figlio di Desiderio rifugiatosi presso il bizantino Costantino V, cospirarono contro Carlo Magno. Duramente impegnato nella guerra contro i Sassoni, re Carlo riuscì a soffocare la rivolta di Rodgaud, ad uccidere il duca e ad insediare dei conti franchi in Friuli solo nel 776. La fine della rivolta "friulana" rappresentò una sciagura familiare per il diacono cividalese: suo fratello Arichis, coinvolto come si è detto nella ribellione, fu privato dei suoi possessi ed esiliato in Francia. Di affrancare il fratello della lunga permanenza (781-785) in Francia di Paolo, il quale, dopo aver incontrato il re franco a Roma nel 781 in occasione di una visita del re a papa Adriano, seguì Carlo in Francia, nelle corti regali di Quierzy-sur-Oise, di Poitiers, Thionville e di Metz. Gli anni in Francia furono contrassegnati da una fervida attività letteraria del diacono che compose le "Gesta dei vescovi di Metz", un'epitome del "De verborum significatione" di Festo e una selezione di 54 lettere di Gregorio il Grande ad Adalhard di Corbie.

Dopo il ritorno a Montecassino, Paolo si pose di nuovo al servizio del duca di Benevento Arichis, il quale, ricorrendo ad ogni sorta di maneggi, aveva saputo mantenersi indipendente dal giogo dei Franchi. Paolo compose l'epitaffio del duca (787) e dell'ex regina Ansa, moglie di Desiderio e madre di Adalperga, e, forse allo scopo di istruire sulla storia patria il figlio del duca, Grimoaldo (788-806), concepì la sua opera più importante, l'"Historia Langobardorum", che fu molto probabilmente interrotta dalla morte di Paolo nel 799.

I monasteri

Sorti sul finire del VII secolo come istituzioni di carità ai viandanti, molti monasteri benedettini (Novalesa, Farfa, Bobbio) servirono ai regnanti franchi e longobardi anche come centri di informazioni, presìdi di frontiera, ricetti per truppe, penitenziari e persino come alcove.
In cambio di queste "favori" i monasteri poterono assicurarsi dalle autorità una serie di diritti e privilegi (l'immunità dalle tasse, il diritto di imporre dazi e servitia, il pieno possesso dei beni, la completa autonomia da ogni altra autorità laica o ecclesiastica), che, uniti a varie voci d'"entrata" economica (donativi regi, legati testamentari, oblazioni di "viri nobiles ac potentes"), finirono con accelerare la trasformazione dei cenobi in complessi con migliaia di monaci, oblati e novizi. In pochi decenni, grazie a donazioni ed espropri, con la frode e le vessazioni non meno che con le commendationes e le offerte di fede, i monasteri si garantirono quindi la proprietà di fondi che fruttavano migliaia di moggi di grano, di carri di fieno, di libbre d'olio, di anfore di vino, e di selve in cui si pascevano migliaia di suini.

Oltre ai campi arativi suddivisi per piccoli lotti tra coloni vincolati a pagamenti in natura (e ad esorbitanti penali in soldi d'oro), le proprietà monastiche comprendevano anche una "seconda fascia" di fondi -prati per il pascolo di pecore e bovini, piantagioni di olivi e boschi di castagni- gestiti dalle chiese periferiche ("oracula") del monastero. Infine, le terre, i xenodochi e le pievi più lontane dalla "casa-madre" erano amministrati da complessi monastici "exteriores" detti "cellae".
Se si considerano quindi, da un lato, l'entità delle risorse di queste istituzioni e, dall'altro, l'enorme consistenza numerica dei loro dipendenti (massari, livellari, accomandati, liberti, pastori, schiavi e coltivatori liberi trasformati in manentes -i precursori dei servi della gleba-), non sorprende che i monasteri abbiano finito, insinuando le loro celle e le loro corti nel territorio degli antichi municipi, con il ruralizzare le città e abbiano dato vita a veri e propri fenomeni di "filiazione" e a complesse "genealogie" di monasteri.

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