I PARTITI POLITICI ITALIANI: LA CRISI DEI PARTITI TRADIZIONALI. I partiti nel Novecento sono organismi pesanti, con una complessa struttura organizzativa, che favoriscono la partecipazione attraverso le reti di strutture territoriali. Ci riferiamo, in particolare, ai partiti che tendono ad interpretare bisogni diffusi di ceti sociali consistenti e che, per questo motivo, sono definiti partiti di massa. Questo sistema organizzativo esplica attivamente il suo impegno soprattutto durante e campagne elettorali, nel reclutamento, nell’educazione, nelle rivendicazioni sociali, nel finanziamento e nella propaganda. Questo impianto è disgregato dall’effetto di alcuni movimenti sociali libertari degli anni Settanta che sollecitano il processo di socializzazione della vita pubblica, mentre i grandi partiti si dimostrano inadeguati ad interpretare queste nuove spinte del sociale. Il femminismo, i movimenti giovanili, l’antimilitarismo, etc. determinano quella che Ronald Inglehart chiama rivoluzione silenziosa nelle democrazie occidentali degli anni Ottanta: le nuove forme di raggruppamento politiche si mostrano più stabili dei partiti tradizionali.
PARTITI ITALIANI DOPO LA PRIMA REPUBBLICA. La vera crisi dei partiti tradizionali si verifica nell’ultimo decennio del Novecento, comportando un profondo mutamento di ruolo dei media. ”Con la crisi dei partiti della Prima Repubblica e l’emergere delle indagini di Tangentopoli, i media compivano però un passo che li poneva al centro della scena politica come interpreti di una fase di incertezze e trasformazioni difficilmente ripetibile. ”. Con la dissoluzione dei partiti coinvolti nelle inchieste sulla corruzione, come Dc e Psi e, la nascita di altri come Forza Italia, il sistema dei partiti “storici” si è rivoluzionato. Nell’opinione pubblica si disgrega la fiducia nella classe politica, il consenso si erode ulteriormente ogni qual volta un episodio di mal costume si ripete, confermando che il sistema è corrotto. L’elettore è sempre più mobile e meno fedele ad un partito o ad un’ideologia, il voto che prevale maggiormente è il ”voto d’opinione”, poiché il ”voto d’appartenenza o di partito” ha perso potere e credibilità sia perché l’elettore acquista una consapevolezza diversa del voto, ponendosi su posizioni meno ideologiche e più critiche, e,soprattutto, perché si afferma la figura del leader di partito. Attraverso l’immagine forte e decisiva del leader si cerca, in particolar modo, il voto dei moderati, dei meno interessati, degli indecisi o di coloro che si fanno convincere dagli slogan o dai programmi di governo. Si insegue un consenso più che contribuire a formare le opinioni. Tutto ciò influisce nell’orientamento degli elettori e nel modello di partito. Ogni partito adotta una precisa strategia durante tutta la campagna elettorale; la priorità è la ricerca di consenso e, non a caso, diventano fondamentali i sondaggi per rilevare l’orientamento dell’elettorato. Quest’atteggiamento dei partiti è definito ”pigliatutto”: si punta meno sull’ideologia o sulla classe sociale ma si mira ad attrarre tutti indistintamente. In fondo tutto ciò desta molta confusione nell’elettore poiché queste media-strategy dei nuovi partiti politici cadono nell’omologazione più banale. Quasi come da prassi ormai il confronto politico si combatte in un’arena televisiva regolata dalla legge 2000 sulla par condicio: i personaggi politici si confrontano e affrontano sulle tematiche più svariate, ma si pretende un modo di ”fare politica” spettacolare e personale, con un’esasperata attenzione all’immagine del leader che diventa quasi un attore politico.
Insomma, quelli di oggi sono dei partiti in continuo movimento, si rinnovano nell’immagine e nei contenuti, nei personaggi e nel linguaggio sempre meno aulico e più comprensibile per l’elettore. I partiti di oggi sono in continue scissioni e aggregazioni, cambiano nome e rinnovano lo stile, sono meno radicati nella società, ma più flessibili e meno ideologici.
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