Giovanni Gentile (1875 -1944) filosofo, storico della filosofia, uomo politico italiano e affonda le sue radici nella tradizione dell’ idealismo hegeliano. Formatosi nella tradizione di B. Spaventa, ne riprese l’interpretazione del rapporto fra pensiero italiano e pensiero tedesco già con il primo scritto Rosmini e Gioberti (1898), e poi l’idea di una riforma dello hegelismo in una direzione soggettivistica (La riforma hegeliana 1913). Passato attraverso l’esperienza delle discussioni sul marxismo, vivaci alla fine del secolo scorso (La filosofia di Marx,1899), all’inizio del Novecento s’impegnò nella battaglia contro il Positivismo a fianco di B. Croce, collaborando alla rivista “La Critica”.
Il dopoguerra fa ritrovare Gentile in una posizione di netta egemonia culturale. La sua influenza si manifestava politicamente nello spazio che il movimento fascista si era creato specie dopo il 1920-1921. Il movimento fascista non aveva una ideologia propria, aveva una retorica propria nella quale confluivano temi dannunziani, nazionalisti, futuristi, pragmatisti, persino socialisti. Professore di filosofia nella università di Palermo, Pisa e poi Roma, all’avvento del Fascismo aderì al nuovo regime e fu ministro della pubblica istruzione. A quest’epoca risale la riforma della scuola che porta il suo nome. Rottasi la sua collaborazione con Croce, acquistò largo potere sulla cultura italiana.
La riforma dello hegelismo compiuta da Gentile consiste nella risoluzione di tutto nell’immanenza dello spirito: l’Idea e la natura, come concepite da Hegel, rappresentano un residuo di trascendenza, da eliminare partendo dal principio che unica realtà è il pensiero che pensa. Ma lo spirito è immanente a sé stesso solo in quanto si collega direttamente come atto del pensare. Se pensiamo allo spirito come uno oggetto, esso è allora il contenuto di un nuovo atto del pensiero e senza di questo non sarebbe possibile. Dal pensiero in atto, pertanto, non è possibile uscire perché esso è infinito e onnicomprensivo, creativo di sé (“autoctisi”) e libero.
Queste caratteristiche appartengono all’Io puro o trascendentale, universale, e non alla singolarità dell’Io empirico, diverso nei vari individui. Quanto agli altri Io, essi entrano nell’esperienza del soggetto pensante, o quali oggetti di esso, al pari dello stesso Io empirico del soggetto che pensa, oppure in quanto l’alterità degli individui empirici si risolva nell’unità superindividuale del soggetto universale, come secondo gentile avverrebbe nella vita morale. Dio, la natura o la storia non vanno poi pensati come esteriori al pensiero, bensì come prodotti all’attività stessa dell’Io.
La natura, in particolare, è una finzione, che si può immaginare come indipendente dal pensiero solo facendo astrazione dell’atto del pensiero. E su questa finzione lavorano le scienze empiriche, che risultano del tutto astratte a confronto della filosofia. La natura, il passato, e in genere l’oggettività, sono astratti, e tuttavia necessari alla vita dello spirito, in quanto il soggetto ha necessità di oggettivarsi per potersi affermare, tornando a risolvere in se ogni oggettività, (come un fuoco, per ardere, ha bisogna del combustibile che brucia).
La riforma gentiliana dello hegelismo consiste essenzialmente nella ripresa del pensiero di Fichte. La dialettica della vita spirituale si svolge per Gentile fra il pensiero concreto (l’atto) e il pensiero astratto, fissato nell’oggettività, concepita come indipendente dal soggetto che pensa. Il soggetto non può vivere concretamente senza oggettivarsi, e quindi senza moltiplicarsi, non può essere presente a se stesso senza tradursi da fatto in atto, da pensante in pensato, non può non farsi natura. Ma se il soggetto rimanesse nell’oggetto e non tornasse in sé, se non includesse il molteplice nell’uno, la vita dello spirito si fermerebbe.
Essa si svolge secondo un ritmo dialettico, per cui dalla soggettività immediata (tesi) passa all’oggettivazione di sé, (antitesi), ossia sintetizza questi due momenti, ognuno dei quali è astratto. Come Hegel, anche gentile pensa che le forme spirituali più alte siano l’arte, la religione, e la filosofia, e applica a esse uno schema. L’arte è la sfera di realizzazione del sentimento, essa esprime il momento della soggettività che diventa oggettiva tramite il pensiero.
La religione nasce dal concepire la realtà assoluta come oggettiva (antitesi dell’arte). Dio è l’assoluta oggettività rispetto alla quale la soggettività (l’Io) si viene a trovare in posizione subalterna. Nella filosofia giuridica e politica, Gentile procede secondo il principio del soggetto universale, identificato nello stato in quanto incarnazione della moralità (stato etico). In questa dottrina egli nega qualsiasi distinzione fra il conoscere e il valore, dal momento che il pensiero in atto è già attività; e quindi la conoscenza è insieme prassi, e viceversa.
La filosofia non è soltanto conoscenza ma direttamente vita; reciprocamente, ogni attività umana è sempre già filosofia, perché espressione del pensiero in atto. Diritto e morale, lo Stato e l'individuo si identificano nell'atto del volere volente o del soggetto pensante in cui consiste la loro verità. La struttura dello Stato che Gentile tracciò nei suoi saggi, rappresenta il momento della sintesi che risolve in sé l’individualità dei suoi componenti e come tale elimina la distinzione tra pubblico e privato, nella direzione di un totalitarismo che paradossalmente garantisce la libertà, la “vera libertà”, per tutti i cittadini.
L’adesione al partito fascista sembrò a Gentile la scelta eticamente e filosoficamente più coerente. Ma l’episodio cruciale che gli diede la possibilità di definire la sua posizione in politica fu la prima guerra mondiale: Gentile condannò l’attendismo di coloro che, come Croce, temevano che una guerra pur se vittoriosa sarebbe risultata un disastro per il giovane Stato italiano, promuovendo con numerosi articoli la tesi che il conflitto rappresentasse un esame necessario da superare, che avrebbe unito il popolo italiano e gli avrebbe permesso di guadagnare credito internazionale.
Scontento della burocrazia e della politica parlamentare (che bollò con disprezzo col termine giolittismo) vide, nel nuovo partito prima, e nel regime dopo, lo sviluppo e il compimento di quel moto storico-ideologico che, dopo aver animato tutto il Risorgimento italiano, si compiva finalmente nell'avvento di uno Stato etico forte, garante della libertà dei cittadini e essenza ed inveramento di questa stessa libertà. Gentile che si definì sempre un liberale (non un liberale di tipo anglosassone, ma di un liberalismo sui generis di derivazione hegeliana e risorgimentale) cercò, durante la sua militanza nel partito e nello Stato fascista, di mantenere una posizione chiara, per gli altri e per sé stesso, di fronte all'inarrestabile conformismo dogmatico del regime, pur difendendone le ragioni e i metodi anche violenti. Per la sua fedeltà ai valori liberali e risorgimentali dovette subire attacchi da molte correnti intransigenti del movimento che lo guardarono con sospetto sin dalla sua adesione al partito. Problematiche furono anche le sue relazioni con il Vaticano, prima e dopo il Concordato del 1929, dovute all’avversione di Gentile verso quella che giudicò una concessione di potere dello Stato alla Chiesa.
Se la produzione culturale di Gentile e la sua attività contribuirono all’immagine del regime, sia in Italia che all’estero, è anche vero che l’appoggio di Mussolini non gli mancò mai e spesso alcuni suoi interventi lo tirarono fuori dalle polemiche che i suoi scritti e le sue iniziative di volta in volta provocarono all’interno del partito; la scelta di seguirlo a Salò fu una dimostrazione di coerenza, oltre che stima verso la persona che lo aveva voluto come faro del regime, e che gli aveva permesso di recitare un ruolo importante nella cultura italiana, ma non solo, per più di un ventennio.
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