Non un capo di stato, né una rock star o un astronauta. Non un premio Nobel, né un attore del cinema. A trionfare come personaggio dell’anno sulla copertina della rivista americana Time è stato quest’anno “il manifestante”, con evidente riferimento già nell’illustrazione, al fenomeno noto come “primavera araba”, un fenomeno sviluppatosi a partire dalla fine del 2010, e protrattosi durante l’arco di tutto l’ultimo anno. Con questa definizione si intendono le sollevazioni popolari che hanno coinvolto diversi paesi mediorientali e nordafricani, e hanno visto moltissimi cittadini scendere in piazza, anche in maniera violenta, nel tentativo, poi più o meno riuscito, di conquistare diritti civili fino a quel momento considerati un tabù. Si tratta, va detto, di paesi assai diversi tra loro, anche se tutti caratterizzati da una forma di governo fortemente autoritaria.
È il caso per esempio della Tunisia, dove le proteste sono cominciate dopo il suicidio di un ambulante di Sidi Bouzid, datosi fuoco a seguito del sequestro della sua merce, da parte della polizia. Un movimento di protesta già da tempo pronto a esplodere, si è dopo quest’evento rapidamente organizzato, e le manifestazioni susseguite in tutto il paese, fino a che, nel mese di gennaio, il presidente Ben Ali è stato costretto, dopo ben ventiquattro anni di potere, a dimettersi. Ancora, particolarmente importante è quello che è accaduto in Egitto, dove tra gennaio e febbraio il movimento di protesta ha conosciuto una forte e sanguinosa repressione da parte del presidente Moubarak (poi dimessosi), e in maniera ancora più radicale in Libia, dove le proteste per chiedere l’abbandono del potere da parte del leader Gheddafi, sono sfociate in una vera e propria guerra civile.
Se il 2011 è stato l’anno del “manifestante”, però, non è solo grazie alle lotte e alle conquiste della generazione 2.0 in paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Libia, o la Siria, dove il governo del presidente Al-Asad prova a resistere in ogni modo, effettuando una violenta repressione contro qualsiasi tipo di contestazione. L’anno della grande crisi mondiale – o meglio l’anno in cui la crisi che ormai va avanti da un bel po’ ha colpito tutti più fortemente – ha visto, infatti, una sorta di reazione d’orgoglio da parte di tanta parte di popolazione, in particolar modo di quella che più sta accusando le storture, e più sta vivendo sulla propria pelle, i problemi del tardo capitalismo del duemila. In paesi dove lo stato di diritto è (più o meno, a seconda dei casi) garantito dalle costituzioni, infatti, i problemi principali sono quelli che coinvolgono l’ormai celebre “generazione precaria”, quella fascia di cittadini compresi tra i venti e i quarant’anni che, soprattutto a causa dell’estremizzazione di un concetto quale quello della flessibilità del lavoro, si trovano ormai da anni in una specie di limbo sociale, impossibilitati a veder riconosciuto “completamente” il proprio ruolo (soprattutto lavorativo-economico) all’interno della società. Una società che è sì pronta a utilizzarli come risorsa, ma troppo spesso è incapace di ricambiare, fornendogli le tutele e i diritti adeguati, necessari a una sopravvivenza degna dell’apporto che invece danno all’economia.
Nato in Spagna, e successivamente sviluppatosi in tutta Europa, raggiungendo anche gli Stati Uniti e persino alcuni paesi asiatici, il movimento degli “indignati” è un movimento non violento, essenzialmente di giovani, che protestano contro le gravi situazioni economiche in cui versano i propri paesi, tenendo però ben presente come i problemi del proprio giardino siano collegati con quelli della finanza mondiale. Da un punto di vista pratico, gli indignati chiedono risposte, da parte dei governi, a favore e a tutela delle fasce economiche più deboli, in particolar modo in tema di lavoro e stato sociale.
Altri momenti importanti, poi, durante lo scorso anno, hanno visto sotto i riflettori alcuni movimenti di cittadini che hanno provato (purtroppo in molti casi in maniera vana) a far valere i propri diritti nelle maniere più disparate possibili. È quello che è accaduto in Italia, per esempio, dove l’utilizzo della violenza, a cui è ricorso un numero tutt’altro che irrilevante di giovani, nel corso della grande manifestazione del 15 ottobre a Roma, ha avuto l’unico effetto di spaccare in due il movimento locale. O ancora in Russia, dove le proteste contro i presunti brogli nel corso delle elezioni, che avrebbero enormemente favorito il partito dell’ex presidente Putin, non sembrano aver condotto ad alcun risultato concreto.
Una cosa, tuttavia, che accomuna tutti questi movimenti, è la centralità assunta dalle nuove tecnologie, in particolare dall’utilizzo di internet, o meglio della sua applicazione più immediata, nell’ambito delle proteste che hanno caratterizzato l’ultimo anno. Se nel corso della primavera araba, infatti, o delle proteste in Russia, i social network e in particolar modo Facebook e Twitter hanno assunto la doppia funzione di coordinamento per i manifestanti e di testimonianza degli eventi (in paesi dove fortissima è la censura, a tutti i livelli), per quanto riguarda gli indignati, internet è addirittura stata quella base capace di costruire un dibattito che ha portato (nonostante molte siano le inadeguatezze, rispetto alle esigenze di una così vasta “base”) alla costituzione di un vero e proprio movimento internazionale.
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