La letteratura antica è piena di riferimenti alla figura del mercante. Per gli antichi il commercio non era un lavoro come lo intendiamo noi. Mancava la fatica fisica che si esprimeva nella trasformazione della materia. Nell'epos omerico i fenici, "famosi navigatori", appaiono avidi. In Omero il fenicio è mercante ma anche rapitore; questa pessima reputazione appare anche nella cultura romana in riferimento ai Cartaginesi: furono essi i primi, dice Cicerone, a esportare in Grecia, insieme con le loro merci, "l'avidità di tutte le cose".
Quello del mercante era un mestiere competitivo: le occasioni da cogliere al volo, l'abilità nel fare della debolezza altrui la propria forza. C'era nell'attività del mercante una tendenza alla menzogna, quasi un vincolo ferreo che legava il lucrum (il guadagno) e il fraus (l'inganno).
L'astuzia era nel caso del grande commercio, stemperata e quasi bilanciata da altri elementi, quali il coraggio di chi affronta il mare e la funzione civica di chi rifornisce le città. Nel caso della piccolo commercio essa tendeva invece a manifestarsi allo stato puro.
Il coraggio del mercante marittimo era notevole e ciò finiva inevitabilmente per sostenere la collocazione di questa figura nella gerarchia dei valori sociali.
La forza di tale elemento morale rimase nel tempo immutata. Il tema del coraggio del mercante marittimo era suscettibile da parte dei protagonisti stessi, di brillanti valorizzazioni. Nelle formulazioni più semplici, il mercante si limitava a sottolineare la frequenza dei viaggi, segno di un'audacia che si rinnovava. Il coraggio e il prestigio di un mercante marittimo si misurava quindi sul numero dei viaggi compiuti.
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