IL PREGIUDIZIO RAZZIALE. Il pregiudizio può essere definito come un giudizio precostituito e ipergeneralizzato che porta a valutare in maniera favorevole o sfavorevole un gruppo sociale o i suoi membri. Gli studiosi di psicologia sociale si sono focalizzati principalmente sui pregiudizi negativi, anche per le potenziali conseguenze che ne derivano. Se il pregiudizio può essere inteso principalmente come un atteggiamento, occorre considerare che questo può esprimersi o non esprimersi in un comportamento. In particolare la discriminazione è un comportamento diretto ad altre persone che dispone un trattamento differente sulla base dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Il pregiudizio razziale assume come bersaglio un determinato individuo appartenente a un gruppo etnico-sociale o l’intero gruppo etnico-sociale. L’atteggiamento di pregiudizio è immotivato né poggia su dati di fatto, tende a mantenersi inoltre irreversibile anche nel momento in cui siamo in possesso di nuove conoscenze.
PREGIUDIZIO RAZZIALE: LE SPIEGAZIONI DELLA PSICOLOGIA. Diversi paradigmi teorici hanno cercato di fornire molteplici spiegazioni del pregiudizio focalizzandosi su numerosi fattori chiamati in causa quali determinanti.
Gli studi sulla personalità autoritaria condotti da Adorno negli anni Cinquanta ad esempio motivano l’ostilità nei confronti delle minoranze sulla base dell’educazione severa e rigida ricevuta in famiglia. Chiaramente tale ipotesi si rivela piuttosto riduttiva rispetto alla complessità del fenomeno del pregiudizio e non spiegherebbero inoltre perché il pregiudizio è uniformemente diffuso: bisognerebbe supporre che un’intera popolazione abbia ricevuto un’educazione severa!
Una ulteriore ipotesi è quella derivata dal filone degli studi sulla frustrazione-aggressività. Si tratta della teoria del capro espiatorio che assume il pregiudizio come catalizzatore di malcontento che consente di sfogare su bersagli ritenuti deboli la frustrazione. Assumere tale ipotesi come valida significherebbe però assumere le sole emozioni come guida del comportamento intergruppi, mentre sono senz’altro diversi i fattori implicati.
Gli studi sulle relazioni intergruppi mettono in evidenza come anche la semplice appartenenza ad un gruppo può determinare il pregiudizio. Non occorre quindi che si realizzino situazioni di oggettivo conflitto ma è sufficiente il solo processo di categorizzazione. Tajfel propose una dimostrazione di questo assunto attraverso il paradigma sperimentale dei gruppi minimi. Attraverso tale paradigma Tajfel evidenziò come la semplice categorizzazione ingroup/outgroup è sufficiente a creare discriminazione, anche se l’assegnazione all’uno o all’altro gruppo è stata del tutto casuale. Si attiverebbe infatti un processo di differenziazione categoriale per cui verrebbero massimizzate le differenze tra l’ingroup e l’outgroup e minimizzate le differenze tra i membri dell’ingroup. Occorre infatti che il proprio gruppo venga percepito in maniera positiva rispetto agli altri, poiché ne deriva una immagine di sé positiva. Secondo la teoria dell’identità sociale infatti una parte dell’immagine di sé deriva dall’appartenenza ad un gruppo, ne deriva quindi che i soggetti preferiscano appartenere a gruppi che valutano in maniera positiva.
Alcuni studi di psicologia sociale si sono poi concentrati nel proporre ipotesi che riguardassero il superamento degli atteggiamenti di pregiudizio, oltre che cercare di individuarne le cause. Una delle più importanti proposte è stata quella avanzata da Allport e nota come ipotesi del contatto: il contatto positivo tra membri di gruppi diversi riduce il pregiudizio. Gli effetti del contatto dipendono da vari fattori: il contatto deve essere intimo e prolungato; i gruppi devono godere di uguale status nella situazione di contatto; i gruppi devono cooperare per un obiettivo comune; l’integrazione dei gruppi deve inoltre essere sostenuta dalle istituzioni.
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