Lo studio delle manifestazioni del comico ci permette di collegare questo tema a precisi modi di intendere la vita: configurata – ai nostri occhi di spettatori incuriositi – in modo inaspettato o riprodotta linguisticamente in modalità deformanti, tanto da porne in evidenza le contraddizioni (barzelletta, nonsense, pastiche, ironia / satira, paradosso…. ).
La natura del comico è riconosciuta generalmente nella sua natura contraddittoria, inaspettata rispetto alle abituali configurazioni della realtà (senso comune), ma, più specificatamente, rispetto a script e frame con cui la nostra mente elabora rappresentazioni della realtà stessa (copioni, sequenze d’azione canonicamente riconosciute prevedibili in situazioni standard). “L’estrema variabilità degli atteggiamenti umani sembra oscillare del resto tra la sostanziale prevedibilità ed imitazione di modelli e l’elaborazione di strategie d’azione soggettive, originali, innovanti, che lasciano ampio spazio ad ogni forma di interpretazione e di rielaborazione esterna”.
Il pensiero filosofico degli ultimi due secoli ha dato ampio spazio alla riflessione sulle forme del comico. Strutturalmente (e anche sulla scorta di H. Bergson, Il riso, saggio sulla definizione del comico) si possono individuare due forme di comicità.
Una astratta, costruita dal linguaggio e definibile come comicità delle parole, che si esprime attraverso costruzioni linguistiche incongrue sul piano logico o semantico, ampiamente diffuse quotidianamente anche a livello comunicativo, in una serie di atti linguistici che vanno dai modi di dire, al motto di spirito, alla barzelletta, al nonsenses, alle metafore ironizzanti…. fino alle espressioni gergali, iperboliche o antifrastiche, per analogia metaforica …..( es. sei una frana, sei un mito, su con la vita, chi non muore si rivede…). A livello linguistico ormai sono proliferanti queste modalità espressive che già Freud aveva indicato come capaci di depotenziare l’emozionalità ( e perfino l’angoscia ) del vivere quotidiano.
Una comicità umana, legata agli atteggiamenti dei soggetti o alle situazioni, di cui solitamente si ride. Le azioni sono percepite come portatrici di significati contraddittori, più o meno devianti rispetto alle pratiche della vita abituale.
Una prima forma storica di tale comicità è volontaria, mossa dalla decisione di ribaltare le leggi e le gerarchie del reale ( potere, ricchezza, felicità riservata a pochi…). Si crea nel carnevalesco un mondo alla rovescia, una visione alternativa delle cose, che edifica, accanto a quella ufficiale, un’altra vita, regolata da norme opposte a quelle che reggono la struttura sociale organizzata. Nel carnevale medievale, come nella corrispondente festa dei saturnali romani, la comunità sociale si svincola dall’obbedienza dovuta alle autorità religiose e civili e vive un periodo di fuga al di fuori delle abitudini usuali, etrando temporaneamente nel regno utopico della libertà, dell’uguaglianza e dell’abbondanza (M. Bachtin).
E’ risibile del resto la semplicità e la rozzezza del villano (il contadino), contrapposta alla cultura urbana del mercante o del cortegiano, immersi nella rete dei rapporti sociali.
Gradualmente – avvicinandoci all’età moderna – la comicità dei comportamenti umani si identifica con gli atteggiamenti stereotipati, incongrui, illogici, ripetitivi, ossessivi e comunque passivi, inconsapevolmente legati ad abitudini di vita non vagliate criticamente e razionalmente, spesso addirittura segnate dal vizio. La vasta panoramica dei personaggi delle commedie di Molière identifica gli obiettivi satirici nei confronti di un mondo lontano dalla naturalezza, che si autoinganna. Il ridicolo della farsa che inchioda l’avaro, il misantropo, l’ipocrita, il malato immaginario è la forma sensibile di questi vizi. Soprattutto emerge una comicità vissuta come testimonianza della debolezza umana. E verso questa debolezza nessuna emozione o compassione: il riso diventa una sorta di testimonianza amara e critica, che individua da una parte la superiorità intellettuale di chi muove la rappresentazione, dall’altra l’inferiorità, la tragicomica e patetica inadeguatezza del beffato.
In epoca moderna la comicità ha perso quasi del tutto la sua funzione carnevalesca dei riso o almeno si è notevolmente smorzata. Certamente permane l’uso del comico per farsi beffa di certi aspetti della società, ma si tratta sempre di una parodia limitata ad un aspetto settoriale dei mondo, non tendente all’eversione totale. La comicità di tipo carnevalesco è stata messa al bando dalla cultura ufficiale, e ha dimenticato a poco a poco il suo stesso linguaggio fatto di lazzi e di irrispettose metafore. Poco a poco questo modo di esorcizzare la realtà negativa è stato soppiantato da forme più sottili di comicità, guidate dalla razionalità settecentesca illuministica. Si è sviluppato, al posto del riso libero e sboccato, il gusto per uno humour lucido e gelido, che inventa racconti filosofici e apologhi corrosivi nei confronti delle forme di pensiero dominanti, come I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1667-1745) o il Candide di Voltaire (1694-1778). Una conseguenza di questo nuovo atteggiamento verso il comico è il cosiddetto «humor nero», che trae spunti di riso da situazioni considerate usualmente appartenenti alla sfera dei tragico, come una catastrofe o la morte di una persona.
L’Ottocento propone la nuova categoria interpretativa ed espressiva del realismo ed anche la comicità umana non viene più isolatamente interpretata e rappresentata. Traendo spunto dalla più vasta panoramica storica e sociale, che la letteratura romantica perlustra ampiamente e sfruttando la fusione dei generi letterari che non isolano più i caratteri comici da quelli tragici, i personaggi prosaici, bassi da quelli sublimi, V. Hugo teorizza la nuova categoria del grottesco.
L’opera d’arte non si cristallizza in un’unica prospettiva di analisi dei suoi soggetti ma affronta la complessità del reale. Le stesse debolezze umane – che sottintendono spesso la comica inadeguatezza a sostenere il peso della realtà – se ed in quanto legate a precisi condizionamenti storici, vengono meno violentemente satireggiate, rese più credibili, meno eccentriche, più umane, sono quasi rese accettabili …… pur nella scarsa dignità che le caratterizza e le rende possibili. E’ di questo tenore la satira del personaggio di Don Abbondio ne I promessi sposi di A. Manzoni.
Tra le interpretazioni più recenti del riso e del comico, occorre ricordare quella del filosofo H. Bergson che esclude qualsiasi valore alla “comicità astratta” delle parole ed attribuisce unica validità alla “comicità umana”. Sono comici quegli atteggiamenti rigidi, meccanici, incapaci di aderire alla continua fluidità della vita. Una comicità involontaria che si esprime nel mancato adeguamento alle circostanze, nell’assente agilità e pieghevolezza dell’animo, nelle fisionomie quasi caricaturali che sostano in uno stato d’animo ostinatamente fisso, fermandosi all’automatismo facile delle abitudini contratte. Quando queste rigidità appaiono come eccentricità pericolose o anche solo sospette, il riso come fatto sociale le riequilibra, le integra in una prospettiva di maggiore socialità. La rigidità è il comico, il riso ne è il castigo.
A livello artistico le sculture di Daumier sembrano concretizzare questo discorso di Bergson, anche se – sotto il profilo storico e culturale – il mondo del pittore-scultore francese è più legato alla categoria del grottesco di Hugo, capace di demistificare la borghesia parigina di metà Ottocento che non a quello di Bergson, interprete filosofico dello slancio vitale, che sembra contrassegnare la nuova società novecentesca.
Infine L. Pirandello teorizza, nel suo famoso saggio L’Umorismo del 1901 questa nuova categoria del comico in una forma decisamente nuova, recuperando quel tanto di intensità emotiva, di riflessione critica e di coinvolgimento emozionale che il riso tradizionalmente non portava con sè.
Se la comicità è un particolare effetto – genericamente legato al riso ed in particolare al riso puro – privo di risvolti riflessivi e scaturisce spesso dall’osceno, dal corporeo, dal materiale identificandosi con l’avvertimento del contrario , cioè come senso di una contraddizione rispetto all’ordine normale delle cose è l’umorismo la vera moderna categoria interpretativa della realtà.
L’umorismo è una varietà del comico e si distingue da esso per la possibilità, in esso insita, di stimolare una riflessione, un senso di commozione, di umana partecipazione e perfino di pietà per chi è segnato dalla situazione comica. E’ il sentimento del contrario. L’Umorismo si ricollega ad un modo amaro di vedere la realtà, ricca di contraddizioni, incoerenze e incomprensioni; cogliere la stranezza della situazione umoristica significa, in fondo, condividere il giudizio di irrazionalità del reale.
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