Il concetto di nazionalismo è un concetto risalente alla seconda metà del XIX secolo. In realtà, si può parlare di nazionalismo per identificare alcune tendenze politiche e culturali già presenti durante l’età napoleonica, quando si assiste al superamento dell’idea che identifica uno Stato con la propria “continuità dinastica”. È grazie alla diffusione dell’idea di Stato-Nazione, invece, che un movimento che prevede l’affermazione della nazione intesa come gruppo di persone che parlano la stessa lingua, che hanno le stesse radici culturali, e lo stesso luogo geografico di provenienza, si diffonde in maniera importante. Con la fine dei grandi imperi, poi, al termine della prima guerra mondiale, e con l’affermazione definitiva degli stati nazionali, anche il concetto di nazionalismo si modifica progressivamente. Il modello politico diventa sempre più aggressivo, e supera le rivendicazioni unitarie e indipendentiste basate sul binomio “un popolo-uno stato”, trasformandosi in un nazionalismo definito appunto dagli storici come “aggressivo” (fenomeno risalente, ad esempio alla fase coloniale). Il tentativo di conquistare nuovi territori per affermare la potenza e la forza della propria nazione, e con l’intento (nemmeno troppo celato) della creazione di veri e propri imperi, diventa caratteristica comune dei movimenti nazionalisti europei. Il nazionalismo imperialistico, quello dei grandi imperi crollati ad inizio secolo, ritorna insomma in una veste diversa, che porterà, per esempio in Europa, alla diffusione di fenomeni come il fascismo e il nazismo, entrambi basati su una forte idea di identità nazionale e di imposizione della propria stirpe (razza, addirittura, per quanto riguarda l’ideologia nazista) sulle altre.
Con la fine della seconda guerra mondiale, però, comincia il processo di unificazione dell’Europa. La fase dei nazionalismi sembra essere superata, probabilmente a causa dell’enorme catastrofe costituita dalla guerra, di cui i vari nazionalismi erano stati una delle cause principali. Non è questa la sede per analizzare le tappe del processo di unificazione politica e sociale del continente, ma assolutamente necessaria, parlando di nazionalismi, è una riflessione in merito, tenendo in considerazione gli sviluppi avvenuti negli ultimi anni, in particolar modo nel ventennio successivo alla caduta dell’Unione sovietica. Quest’ultima, infatti, costituiva in qualche modo l’ultima grande potenza/impero europea, e la disgregazione dei territori che la costituivano ha portato una serie di problematiche che è impossibile non menzionare. Da sempre, le situazioni di difficoltà e discriminazione delle minoranze etniche sono terreno fertile per la diffusione dei nazionalismi, una condizione che si è presentata in maniera prepotente in alcuni territori come l’ex Jugoslavia (che ha dovuto affrontare un processo di divisioni conflittuale e sanguinoso) e la stessa Russia, dove una volta finito l’impero comunista, i problemi delle minoranze sono esplosi in maniera clamorosa, a cominciare da quello ceceno, tuttora all’ordine del giorno. Terreno altrettanto fertile è quello delle difficoltà economiche dei singoli paesi: in molte regioni dell’est Europa, per esempio, dall’Ucraina alla Bulgaria, passando per l’Ungheria, partiti di ispirazione nazionalista – per la maggior parte di estrema destra – hanno guadagnato enormi consensi, facendo leva anche su un sentimento xenofobo, purtroppo abbastanza diffuso.
Tuttavia, il fenomeno dei nuovi nazionalismi, quelli successivi alla seconda guerra mondiale, non è un fenomeno tendente esclusivamente a una linea politica di destra. Nel panorama continentale, infatti, affianco a partiti politici e movimenti come la Lega Nord in Italia, o il British National Party, ve ne sono altri che hanno una estrazione socialdemocratica o comunque politicamente aperta a sinistra, come il Partito nazionale scozzese. In alcuni casi, peraltro, la matrice comune di questi movimenti, che riesce ad assicurargli poi un seguito non indifferente, è l’insofferenza per la presenza del paese all’interno dell’Unione Europea, una presenza spesso ottenuta con importanti sforzi da parte dei governi, ma che nel corso dell’ultima grande crisi economica sta chiedendo sacrifici altrettanto importanti alle popolazioni. Gli standard necessari per rimanere all’interno dell’Unione, infatti, sono spesso troppo duri da rispettare, e in alcuni casi (è da poco accaduto in Grecia) i governi hanno dovuto faticare molto per provare a spiegare alla popolazione il vantaggio di una rigorosa politica di austerity, che aveva però il beneficio di mantenere il paese all’interno della federazione continentale. Questi provvedimenti, però, hanno fatto si, e stanno facendo si, che in molti paesi europei – e in particolar modo in quelli economicamente meno solidi – un sentimento di anti-europeismo si diffondesse in maniera tutt’altro che irrilevante, talvolta in maniera assolutamente indipendente rispetto a politiche o idee di stampo nazionalistico.
Una concreta preoccupazione è (nel caso in cui la crisi dovesse presentare ripercussioni importanti anche nel corso dei prossimi anni) l’atteggiamento che le popolazioni e ancor di più i governi dei singoli paesi, potrebbero avere nei confronti dell’Unione europea, con non ultimo rischio, la richiesta di un’uscita immediata dalla federazione. Tutto questo, infatti, potrebbe significare una importante, e forse incontrovertibile battuta d’arresto, nel lungo e faticoso cammino di costruzione di una identità e di un organismo unitario europeo, cammino per la costruzione del quale, molti anni e molte energie sono state spese. C’è da sperare che tutto ciò non sia avvenuto invano.
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